Teatro

Un canto d’amore di lucida follia

12 Ottobre 2016

Nel 1998 il tedesco Raimund Hoghe presentò al Festival Inteatro di Polverigi uno spettacolo che mi commosse. Era una sua cerimonia privata, struggente, sul senso della bellezza: Hoghe, che è stato anche dramaturg di Pina Bausch, ha un corpo minuto, segnato, incompleto, evidente nella sua difformità. Eppure allestì un rito laico in cui omaggiava il bello umano: ricordo il volto di Alain Delon, proiettato gigante sul fondo, con la Piaf che cantava Je ne regrette rien, e Hoghe, in proscenio che si sfila la maglietta e rimane lì, ecce homo, nella sua amara e meravigliosa consapevolezza. Ci ripensavo, l’altro giorno a Bolzano, nella bellissima sede dell’Accademia Arte della diversità, casa del Teatro La Ribalta diretto da Antonio Viganò assistendo allo spettacolo (nella realtà una prova generale aperta) Canto d’amore alla follia, scritto e intepretato da Alessandro Garzella con Francesca Mainetti per la compagnia Animali Celesti.

Garzella, chi conosce il teatro italiano lo sa, è un regista-autore e attore dalla cifra netta, intensa. Dopo una lunga direzione al teatro di Cascina (oggi oggetto di attacchi pesanti di una politica ottusa) Garzella ha acquisito maggiore profondità e essenzialità percorrendo una strada impervia, che si è materializzata nell’incontro con realtà disagiate: ad esempio a Verdello, piccolo centro vicino Bergamo, lavora con i pazienti della comunità riabilitativa di Cascina Germoglio, diretta con lungimiranza da Piero Lucchini, con risultati entusiasmanti.

Sandro Garzella e Francesca Mainetti
Sandro Garzella e Francesca Mainetti

Canto d’amore è un’opera poetica, è un lancinante dialogo (o forse un monologo che si riflette in due voci) tra un uomo e una donna, ovvero tra Sogno e Innamorata, ma forse semplicemente tra due creature che si intrecciano nelle possibilità date dalla materialità dei corpi. Le parole sono invocazioni, ricordi, frammenti, sogni: hanno il peso della carne e del sangue, sono parole materiche, incessanti, povere e al tempo stesso alte. Sono un flusso di ossessioni e inseguimenti, sono deliri e vagheggiamenti. È la follia che parla, il desiderio, la perdita di sé e dell’Altro. Su tutto e tutti, però, brilla cupa una nostalgia forte, amara, che è sentimento di perdita e di bisogno.

Strutturato in quadri, che sono frammenti di un discorso amoroso il Canto di Garzella e Mainetti, si compone in sequenze che hanno la dinamicità chiusa in una scatola nera che è prigione, mentale o fisica che sia. Non si esce da lì, non c’è via di scampo: sono solo i due corpi a parlare, a mettersi a nudo, a mostrarsi in quella evidenza che non fa sconti a nessuno. Sandro Garzella, allora, espone come Hoghe, quella “diversità” che è fatica e dolore: corpi che si danno in pasto l’un l’altro (“mangiami”, ripete lei alla fine); che inseguono parole e sogni ma non possono mai incarnarli.

In scena, Sandro Garzella gioca un’ironia sapiente, è quasi un luciferino “ragionatore” pirandelliano, è un folletto azzoppato, un satiro che non può correre: qualcuno, insomma, che si strugge di lontano, un bambino che guarda la vetrina del negozio di giocattoli sapendo che non gli è concesso entrare. Francesca Mainetti è emblema del femminile, e incarna con orgoglio una prospettiva (scritta e pensata da un uomo), tenendo a bada lo stereotipo e l’iconografia. È donna, vera e presente, che sa, che capisce il dramma in atto, ma non accetta di stare su un piedistallo.

La dialettica tra i due è intensa, millimetrica, frutto di una sintonia elaborata nel tempo. Ci sono momenti di sapida ironia, altri di tragedia incombente.

In prova generale Canto d’amore faceva già presagire possibili, ulteriori sviluppi in termini di profondità e ampiezza. Nelle “possibilità della impossibilità”, Canto d’amore alla follia ha la forza di investigare temi aspri e dolenti, che sono tutti da mettere tra virgolette, viste le tante, infinite accezioni di parole come diversità e normalità, handicap e abilità, bellezza e bruttezza, poesia e animalità, maschile e femminile. Non sono ossimori, non sono necessariamente in contrasto: vi è un fluido fiume che tiene aperti i possibili, che favorisce l’incontro, la possibile comprensione, la riflessione aperta. Il sogno di vite possibili, avrebbero potuto essere o che sono. Bellezze dimenticate, desideri celati, slanci trattenuti: il canto d’amore di una follia che è teatro e vita.

 

Un estratto di Canto d’amore si potrà vedere il giorno 14 al Teatro Olimpico di Vicenza, nell’ambito del convegno Diagnosis, la rappresentazione del dolore, curato da Roberto Cuppone per l’Accademia Olimpica; mentre il nuovo spettacolo di Sandro Garzella, Canto Animale sarà al Teatro Stalla di Cascina Germoglio il 22 ottobre.

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