Teatro

Tutto esaurito: il teatro d’autore che riempie le sale

5 Ottobre 2016

Sold out a teatro: sembra sarcasmo e invece accade ancora, nonostante magnetiche serie TV e orari da ufficio tipo fine pena mai. E invece, come le scritte “No vacancy” dei motel che negli horror conducono alla tana del killer, queste sporadiche, lunghissime code a vuoto al botteghino riportano alla crudele condizione dell’escluso. No tu no. Amara realtà senza soluzioni tecnologiche, per cui decade l’onnipotenza di app e piattaforme di prenotazione online: nulla può smentire la concretezza del rimanere fuori.

Ma se si cerca di indagare i requisiti di questi spettacoli da tutto esaurito si resta sbalorditi. A duemila e più primavere dalle Grandi Dionisie, quando il teatro era linfa civile, e con anni di smartphone che pesano sulla nostra concentrazione, ci si aspetterebbe il successo per spettacoli leggeri o scenografici, magari brevi, come o meno di un film. E invece devono saltare tutte le nostre categorie cinepanettoniche da blockbuster. Che affondino pure i transatlantici coi loro amori spezzati, che si amalgami ogni sfumatura di grigio: perfino con temi non light, a teatro si deve stare per ore. E il pubblico, forse inconsapevolmente, questo lo capisce.

Lo capisce in particolare quando l’autore, il regista o il teatro sono capaci di creare l’evento, forse più in senso social network che filosofico-heideggeriano, ma essenziale è che sia coinvolgente per tutti e che faccia scattare la frenesia dell’esserci, di vivere l’esperienza a ogni costo: credeteci o no capita anche per la prosa. Così questi Floating pears del teatro chiamano a raccolta chiunque sia mai stato parte di un pubblico. Ma se è vero che per uno spettacolo epocale, magari sadicamente senza intervalli, è difficile convincere chi non ha mai voluto sentire parlare di teatro, forse ci possono cascare i tanti spettatori occasionali, quelli con un monte ore annuale limitato: basta il passaparola ed ecco che il pienone è fatto.

Così si possono considerare un evento le dodici demoniache ore di Peter Stein da Dostoevskij, ad Hangar Bicocca appena inaugurato, da mattina a sera compresi i pasti – era il 2010. E dalla finzione romanzesca russa all’ultimo kolossal di Luca Ronconi, prima che ci condannasse a un mondo senza di lui: Lehman Trilogy, in cui ha mostrato ancora una volta che tutto è teatro, o comunque lo può diventare. E se più di dieci anni fa toccava alla fisica più scandalosa, quella di Infinities, in un percorso di paradossi tra i magazzini della Bovisa, questa è l’epoca degli incubi finanziari, evanescenti e pericolosi. Così i Lehman occupano una trilogia in due serate per un totale di quattro ore e mezza, come in un Via col vento yiddish, di argomento economico ma non meno melò. Successo immediatamente replicato a pochi mesi dal debutto, di nuovo in stagione da gennaio, da vedere prima che gli attori se lo dimentichino.

E sono settecentocinquanta mila gli euro in biglietti pagati la scorsa stagione a puttane e mendicanti, ovviamente brechtiani, sempre al Piccolo. Altro che tre soldi per quest’Opera con direzione “strana” del disubbidiente Damiano Michieletto: un capolavoro di marketing più che di regia, con sala piena per più di quaranta recite ad ascoltare e, per i tanti le sapevano, a cantare gli scostumati Songs di Kurt Weill. Ancora più di tre ore, con mille persone a sera incuriosite da Brecht, il politicissimo e, spesso si dice, noiosissimo Brecht. Di certo non in questo caso, con il glamour di Rossy De Palma e le discusse scene dei migranti che affogano: furbi occhiolini all’attualità, così la noia sta altrove.

Assente al Piccolo ma strapiena al Teatro di Roma è stata invece l’ultima apparizione, quasi ectoplasmatica, di Peter Brook in Battlefield, sorta di teaser del Mahabharata di quasi trent’anni fa. E si vedono diluite in settanta minuti le leggendarie nove ore di maratona indù che pare potessero rendere universali le mitologiche battaglie d’oriente tra bene e male: contaminazione notturna per la memoria collettiva più ancestrale, più primitiva, inscritta in qualsiasi spettatore.

Ma a parte il teatro d’autore, ormai in via di estinzione, sempre più spesso sono gli attori che riempiono le sale, per lunghe letture, intensi monologhi, irripetibili interpretazioni di classici. Come il perpetuo tarantellare di Filippo Timi, divo pop della prosa. Dai suoi dongiovannismi kitsch con siparietti cartoon-nostalgici – vedi Sailor Moon e Mila e Shiro -, ai commoventi a solo semiautobiografici en travesti. Invece la scorsa stagione il pubblico ha invaso il Teatro Franco Parenti per Casa di bambola, classico tra i classici – più di ventidue mila spettatori. Quasi centottanta minuti per le tre parti ibseniane di Timi – tutte quelle maschili -, nella versione di Andrée Ruth Shammah, che trasforma in commedia all’italiana le geometrie sentimentali da fiordi norvegesi. E senza timore di durata, spettatori accalcati in trepidante attesa di vedere il divo umbro uscire dal ruolo, che sia il marito, l’amico o il ricattatore della suffragetta Nora, pupattola protagonista della commedia. Tanto quel che conta è che sia se stesso, anche solo per un istante: per come sa scherzare e improvvisare sui buchi di memoria o con la leggendaria balbuzie cavalcando il brivido del live.

Ma può ripagare anche uno stile più colto e meno mainstream. Mai straniero al Parenti, almeno in senso stretto, Fabrizio Gifuni riempie con disinvoltura la Sala Grande con le sue letture di lusso, a cominciare proprio da Camus. E ancora di più nei cambi di registri pasoliniani: ragazzo di vita scolpito su una sedia, fotocopie in mano e borgata sulle labbra. O ancora Bolaño e Cortázar: sempre teatrale nonostante la confusione metafisica di vivi e morti che si parlano, di passato e presente intrecciati, come in qualsiasi pagina di letteratura sudamericana. Sala gremita, posti introvabili per questa performance dove sì, c’è il personaggio, ma l’attore gli sta sempre accanto sul palco. Lo dice Nanni Moretti in Mia madre, vero, ma Gifuni lo sapeva fare già da prima come ha notato Ronconi quando l’ha voluto tra i suoi Lehman.

Più di nicchia e di categoria, è stato e sarà ancora un successo anche il monologo di Angelo di Genio al Teatro Elfo Puccini, Road Movie, commovente bestiario americano degli anni dell’AIDS, con Angelo in continua metamorfosi di genere e fidanzati che svaniscono nel tempo di un coast to coast. Sempre all’Elfo, pienissimo da farmi impazzire su una sadica lista d’attesa è stato History boys, un incanto scritto da Alan Bennett e scovato da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani nel 2011, con attori tutti ventenni – meno i prof, ventenni dentro – per una delle atmosfere teatrali più energiche viste da anni. Fine liceo, esami che incombono, sovvertimento dei sensi e disorientamenti sessuali: identificazione totale.

Sono tutti spettacoli da cui si esce convalescenti, come un rehab che ha luogo in regioni inconsapevoli dello spirito. E si avverte il bisogno di parlarne, di consigliarli, di conservare i biglietti e scriverne ancora dopo anni. Sono serate, o anche nottate, in cui ci si può sentire parte di un rito meravigliosamente profano. Nei minuti in cui si posano i cappotti, prima di sedersi per ore in una sala buia, magari scomoda, fino al liberatorio, caotico ritmare di mani giunte a intermittenza. A volte si è insieme a quattro gatti per una performance in una saletta nascosta di periferia, a volte invece si trova persino qualcuno con cui parlarne, a patto di non rimanere fuori.

 

 

 

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