Teatro

Tutti da Trimalcione il sabato sera

29 Novembre 2019

Pur non essendone pienamente convinto, non mi sento certo di liquidare in fretta o con una battuta un’impresa come il Satyricon, diretto da Andrea De Rosa su drammaturgia originale di Francesco Piccolo, visto al Teatro Argentina e prodotto dallo Stabile di Napoli.

Certo, il sentore di déjà-vu non mi ha mai abbandonato: dal ridondante e popolare La grande bellezza, alla Grande abbuffata, dalla piscina del film Hollywood Party al personaggio tratteggiato da Aldo Fabrizi in C’eravamo tanto amati, dalle Gomorre alle Suburre, i precedenti non mancano. E il Satyricon è tornato spesso alla ribalta (anche cinematografica, grazie alla felice immaginazione di Fellini).

La festa ricca, sconcia, debosciata, erotica drogata, ridanciana e deprimente, aggressiva e volgare, non manca nell’immaginario consolidato. E, in particolare, a partire da quelle celebri di Bonifacio VIII (o di altri prelati anche in epoche più recenti), il festino ridanciano sembra consustanziale alla decadenza di Roma. Mentre la città sprofonda, c’è chi ride e si dimena in case bellissime e pacchiane.

 

Satyricon, regia Andrea De Rosa, foto di Mario Spada

 

Ma la prima in assoluto, il prototipo di tutte le feste di perdizione, è forse la cena di Trimalcione: il racconto di Petronio è la magistrale indicazione delle anime squallide e arroganti, servili e gaudenti del sottobosco romano.

A me, peraltro, piacerebbe pure essere invitato a certe serate: ma non mi capita – sarò troppo noioso. E dunque mi devo accontentare delle rappresentazioni, o dei racconti, altrui. Allora, il fatto è che queste “cene” sono messe in scena, più o meno sempre, alla stessa maniera: in un tripudio di kitsch, di strisce di droga, di arredamenti vistosi, di danze sfinenti. E il Satyricon di De Rosa non fa eccezione.

Si apre con tre fannulloni, che entrando dalla platea, si chiedono reiteratamente “che facciamo”, annoiati a tutto. Si intrufolano nella festa a casa di Trimalcione, con quel cesso d’oro che è trono e latrina, simbolico altare e materica fogna, con una umanità azzeccata all’arricchito proprietario.

Ed è nella dialettica tra quest’umanità parassitaria e opportunista e la figura di Trimalcione (e di sua moglie Fortunata) che si concentra la riscrittura di Francesco Piccolo. Perché quel sottobosco è fatto di intellettuali, di borghesi, di quel mondo di operatori della cultura, in cui – io per primo – in molti si possono riconoscere. È la “conversazione continuamente interrotta” di Flaiano, che risuona sullo sfondo: parole vane, giudizi su tutto. Teatro, cinema, libri, pizza e vita di società. È la vita salottiera, della sinistra radical, più shock che chic: banalità e retorica, frasi fatte e inconcludenza, giudizi sparati a zero e pregiudizi, frustrazioni e ambizioni, canzoncine e citazioni.

Insomma, quel demi-monde in cui ci troviamo a vivere, con l’aggravante grossolana della romanità greve, della vacuità capitolina, dell’eterna decadenza di una città dove – diceva qualcuno – ti aspetti sempre di “vedere passare i cammelli”.

 

Michelangelo Dalisi, foto di Mario Spada

 

Lo sapevamo già? Sì, lo sapevamo: perché con questi luoghi comuni è perennemente rappresentato quello spaccato di mondo. Niente di nuovo? Forse no.

Ma quando poi, per puro caso, uscendo da teatro si sentono certi commenti del pubblico – delle “giornaliste”, degli “sceneggiatori”, dei “creativi” presenti in sala – critiche talmente cretine, all’insegna del neo “politically correct”, e fatalmente banali, luoghi comuni che potrebbero essere presi pari pari dal testo e dal palcoscenico, ci si rende conto che, in effetti, l’umanità vacua del Satyricon non è poi così lontana.

Francesco Piccolo, consapevolmente pregno alfiere di quel mondo che critica, sbeffeggia se stesso (si spera) e gli altri, ossia tutti noi – “classetta” di intellettuali tanto compiacenti quanto inconcludenti. E il cortocircuito tra scena e platea diventa allora incandescente. All’opposto di queste figure, c’è Trimalcione, che nel suo delirio ha uno spessore di sincerità, un’esistenza corrotta, un arricchito ossessionato dalla culinaria. Cibo, tanto cibo e sesso: mangiare e “spingere”, divorare e scopare, ma con una vena di disperata vitalità, di autentico deprimente amore, di desiderio e di paura, di consapevolezza e depressione. È grande, grosso, volgare nella sua piccola poesia Trimalcione, emblema eterno, macchietta quasi, del provinciale di successo. Di fronte a lui la bellezza pura, nuda, di Fortunata che incarna tutto “il meglio” della cultura contemporanea, che ripete slogan vegani e naturisti, ambientalisti e solidali. Anche qua: immaginario consunto – l’uomo grosso e potente, la “fanciulla” nuda e candida – per confermare quel che è già scontato.

Ma in scena c’è un flipper impazzito, un juke box incantato (con le musiche ossessive di GUP Alcaro che si ripetono allo sfinimento al ritmo di un metronomo inesorabile e superamplificato); c’è la reiterazione sfinente di un rito posticcio da cui nessuno si salva. E il funerale di Trimalcione è ancora un gioco grottesco, l’ennesimo tentativo di alzare, inutilmente, l’asticella del divertimento.

«Questa è la città delle illusioni. Non a caso qui c’è la chiesa, il governo e il cinema» diceva Gore Vidal nell’insuperato e sempre attuale Roma di Federico Fellini. E aggiungeva: «quale posto più tranquillo per aspettare la fine del mondo, per vedere se tutto finisce o no?». Ma la cena di Trimalcione non finisce, non finirà nemmeno con il suo grossolano funerale, si ripete stancamente da secoli sempre uguale a se stessa, sommersa da un mare di schiuma.

 

Antonino Iuorio nel funerale di Trimalcione, foto di Mario Spada.

 

Con le scene e costumi di Simone Mannino, con le luci di Pasquale Mari, dello spettacolo mi piace senza dubbio segnalare il cast. A partire da un attore straordinario come Antonino Iuorio, magistrale, intenso Trimalcione, appassionato e romantico, volgare e lirico, fisico e spirituale. Opposta e complementare è la Fortunata di Noemi Apuzzo, stralunata, candida, bella nella sua centralità scenica e politica. E poi Alessandra Borgia, disperata e tossicodipendente; Francesca Cutolo, colonna sonora pop ed emotiva, che ripete stancamente versi di canzonette; il compatto e divertente trio comico e grottesco composto da Flavio Francucci, Lorenzo Parrotto e Andrea Volpetti. E ancora Anna Redi, nelle vesti di una superimpegnata attrice che non risparmia critiche al sistema teatrale di cui fa (o vorrebbe fare) parte; Serena Mazzei, in panni svagati che celano anoressie implacabili e infine il sempre bravo Michelangelo Dalisi, “l’intellettuale” contestatore ma integrato, simbolo concreto della deriva costante di quel (questo) mondo. Tutti parlano, nessuno dice nulla: nella gigante bolla evanescente che è Roma, sempre sull’orlo di scoppiare, siamo stanchi, esausti.

Però – ed è questa la critica che voglio fare al piano concettuale dello spettacolo – non tutto, non tutti, sono in quel modo là. Di fronte al declino, cantato e rappresentato mille volte, di fronte a una Roma sempre “alla vaccinara”, c’è chi prova a fare altrimenti, chi resiste, chi cerca di cambiare. Piccole o grandi battaglie, libere, vive, coraggiose. Di “retroguardia”, marginali ma importanti, generose quanto destinate alla perenne sconfitta. In tanti sono stanchi di grandi bellezze modaiole, e preferiscono scendere in piazza, impegnarsi per salvare una libreria bruciata o semplicemente un’aiuola incolta. Sono tanti, per fortuna, anche in questa Roma, quelli che non avrebbero accettato il macabro invito di Trimalcione.

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