Teatro

Turpi, girovaghi e vani: il teatro è in stato d’assedio?

2 Marzo 2020

Turpi, Vani e Girovaghi.

Ci pensavo ieri, in margine al bel convegno Il mio teatro è una città, organizzato da Sergio Maifredi e GianLuca Favetto, che si è svolto nel Teatro Sociale di Camogli, splendidamente ristrutturato e restituito alla comunità. Un convegno fatto a porte chiuse: porte chiuse per l’emergenza Coronavirus, porte chiuse al pubblico obbligato a restare a casa, porte chiuse per uno stato d’assedio dovuto alla paura di contagi antichi e presenti.

Dobbiamo essere consapevoli e rispettosi delle direttive, sia chiaro, e dobbiamo ringraziare e incoraggiare quanti stanno facendo il possibile per fermare il virus e assistere i malati, prima di tutto medici e ricercatori.

Ma non posso non riflettere sul fatto che il teatro, nell’era della pandemia, assume aspetti medioevali: i teatranti sono di nuovo pericolosi, perché portano contagio. Così, chiudiamo i teatri.

Allora ripensavo a quelle tre categorie con cui, in epoche nemmeno troppo lontane, la Chiesa condannava i guitti, i comici, i giullari e li seppelliva sbrigativamente in terra sconsacrata. Turpi, perché dipingendosi offendevano il volto di Dio di cui l’Uomo è immagine e somiglianza; vani perché non producevano nulla: cosa vuoi producano di utile quei menestrelli? E infine girovaghi, perché non si fermavano, non si controllavano: una sera in piazza o in qualche bettola, la sera dopo a corte.

Eppure, oggi, in questo stato d’assedio, non solo si chiudono i teatri, ma sembra proprio che si metta in crisi tutto il sistema sociale, nelle sue componenti più delicate: la democrazia, la polis, il teatro. Sono nati assieme, e assieme svelano la loro fragilità.

Alla democrazia pare che molti preferiscano ancora l’uomo forte, quello che chiede pieni poteri; la polis viene assediata, circondata, controllata dall’esercito in nome della sicurezza; il teatro rischia di perdersi, stretto da un lato dalla paura, dall’essere considerato luogo di contagi, e dall’altro dalle ferree leggi del mercato.

Il teatro-azienda, il teatro che deve rispondere al botteghino e all’algoritmo, il teatro che deve produrre: tutto vero, tutto giusto, ma anche questa è una forma sottile di assedio.

È accettabile ridurre la millenaria storia del teatro – nato appunto con la democrazia, nato con la polis – a una questione di alzate di sipario?

Va detto ad alta voce, e in molti lo dicono, che questo clima di chiusura sta seriamente e pericolosamente compromettendo economie, bilanci, progetti, produzioni: il governo dovrebbe dare risposte adeguate e in fretta per questo collasso economico che tocca non solo il centro-nord. Ma in questione, qui, non è solo il grave stato di crisi economica, quanto, piuttosto, il valore simbolico, sociale, culturale del teatro stesso. Allora, mi domando, non sarebbe meglio rompere la catena del capitalismo applicato alla scena e provare, se possibile, a suggerire anche modelli diversi, a tentare una strada diversa?

il Teatro Sociale di Camogli, vuoto.

Stare sul palcoscenico del Teatro Sociale di Camogli di fronte a una platea vuota, mi ha fatto chiedere di chi fosse quel teatro. Quello, come tutti gli altri.

Di chi è un teatro? Di chi lo possiede o di chi lo usa? Di chi lo finanzia o di chi lo frequenta?

Molti di voi ricorderanno la tanto contestata occupazione del Teatro Valle di Roma: oggi quasi la rimpiangiamo, nel vedere quel meraviglioso teatro del Settecento aperto appena appena, mutato com’è in una sala mostre d’eccezione. Quelli del Valle, accompagnati da Stefano Rodotà e da altri giuristi, ebbero il merito di fare da avanguardia a una discussione ampia, e non ancora risolta, sui Beni Comuni. Ebbero il coraggio di distinguere tra possesso e uso: questione delicata, che tocca beni davvero comuni (che so, l’acqua) ma che abbraccia anche il teatro, non solo l’edificio teatrale, ma anche la pratica teatrale.

I teatranti – attori, attrici, tecnici – sono imprenditori? Devono campare da aziendalisti? Qualche settimana fa, inizio febbraio, L’Espresso ha dedicato alcune pagine ai Beni comuni, a quegli edifici che sono stati reinventati grazie alla cultura. Nella dialettica tra Stato e Società, tra Pubblico e Privato, si possono – scriveva acutamente Emanuele Coen – pensare nuovi assetti urbani. Coen cita a modello, giustamente, il monastero del Carmine di Bergamo ri-creato dal Teatro Tascabile, ma gli esempi (sono miei, in ordine sparso) non mancano: da Luca Ronconi che “recupera” il Lingotto di Torino nel 1990, aiuta la città a elaborare il trauma della fine della produzione automobilistica, e inventa con Gli Ultimi giorni dell’Umanità un nuovo “spazio” culturale. Poi Leo de Berardinis e Perla Peragallo che vanno a Marigliano, negli anni Settanta, a reinventarsi un teatro popolare in quella comunità; e più recente, l’ex Asilo Filangieri di Napoli, restituito alla città come officina culturale, spazio di “uso civico” e ancora molti altri si potrebbero chiamare in causa. In un altro articolo sullo stesso giornale, poi, Roberto Esposito evocava il dettato del diritto romano, laddove distingueva tra Beni Pubblici, quelli dello Stato, e Beni Comuni che non appartenendo a nessuno, appartengono a tutti: le strade, le piazze. E i teatri.

In questo clima d’assedio e di crescente crisi, il teatro può, potrebbe, sarebbe bello se ribaltasse le regole dell’appartenenza. Se desse una risposta viva, se provasse a rispondere con (simboliche) nuove aperture alle concrete chiusure. Altrimenti si rischia di perdere davvero il senso di comunità, di condivisione, di civiltà condivisa. La paura (e il fascismo) vieta gli “assembramenti”.

Torniamo alla chiusura dei teatri. Ovviamente rispettiamo le decisioni prese, sicuramente possiamo pensare che lo streaming sia una possibilità fantastica e ringraziamo chi lo ha reso possibile, ma mi piace follemente pensare che i teatranti – ossia tutti noi – vogliano finalmente tornare a essere Turpi, Vani e Girovaghi.

Turpi, rispetto a questo mondo “levigato”, per usare un termine caro al filosofo Byung-Chul Han, tutto omologato, tutto rispettoso, igienico-sanitario, meccanico, perbene, un mondo che teme la differenza e sfugge la ferita. Turpi, invece perché non allineati, non modaioli, ma aspri, coerenti, coraggiosi nell’affrontare le ipocrisie e gli opportunismi.

Vani, per uscire dall’obbligo della produttività, del consumismo, del debutto a raffica, della spremitura del giovane “under 35”, del bando a tutti i costi. Vani perché il teatro è invece tempo, è ricerca, è pazienza, è ascolto mentre tutti gridano.

E vorrei tornassero, tornassimo, girovaghi, scavalcamontagne all’antica, imprendibili briganti del sentimento, inarrestabili untori di poesie, di bellezza, di racconti. Non chiusi in casa, dietro un computer, a dire Amleto su facebook o a far coreografie su Instagram, no: semmai ancora comunità che cercano comunità.

Chissà, è un patetico auspicio, oppure un’ingenua illusione, o alla fine un invito, magari rivolto più a me stesso, nella speranza di non scoraggiarsi troppo. Ma la paura del contagio, lo sappiamo bene, è spesso più pericolosa del contagio stesso. La chiusura più nociva di ogni apertura.

 

 

 

L’immagine di copertina è tratta dal bellissimo libro I cinque continenti del teatro, (EdizioniPagina, 2017) a cura di Eugenio Barba e Nicola Savarese: la compagnia del Vieux Colombier, diretta da Jacques Copeau, in Les Fourberies de Scapin, di Molière, in Place Saint Sulpice di Parigi nel 1922.

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