Teatro
Trump, il colonialismo e il bordello di Napoli
Ma io invece sono contento: contento che abbia vinto l’orrido Donald Trump. Oltre al fatto di esserci liberati, per un po’, della saga dei Clinton (attendiamo Chelsea) adesso almeno sappiamo con chi abbiamo a che fare, almeno – forse – la smettiamo di accettare passivamente la colonizzazione culturale americana.
Proviamo a procedere per contrasto, pensate che bello potrebbe essere il futuro: meno machismo e più femminismo; niente più cartoni idioti per i nostri figli; niente più film di serie B straviolenti in prima serata; niente più mcdonald; niente più giornate intere vittime delle serie tv (tutte “ben fatte”, per carità); niente più finanziamenti occulti alla P2 o alla Dc: niente più modello americano, insomma, che nelle sue più concrete realizzazioni è, ormai, quella roba là col parrucchino rosso. Ovvero qualcosa di disgustoso.
Mi si dirà: ma dagli Usa arrivano anche tante cose belle. D’accordo, figuriamoci: dal piano Marshall a Don DeLillo dobbiamo molto agli Stati Uniti. Ma è innegabile che la nostra cultura sia ormai nazional-americana: sappiamo tutto di come si vive a Chicago ma non sappiamo niente, che ne so, di come si sta a Matera. E forse ripensare la nostra cultura, finalmente, in una prospettiva europea e mediterranea potrebbe essere più utile e sicuramente più divertente.
Anche a teatro: provate a immaginare una scena dove i nuovi drammaturghi non inseguano spasmodicamente le sceneggiature tv made in Usa; provate a pensare a degli attori che non scimmiottino il “minimalismo”, imitando non tanto gli attori americani quanto i loro doppiatori; che non fanno quelle mossette con il mento o quelle faccette da actor’s studio casareccio; provate a chiudere gli occhi e ripensare a un teatro che non insegua forzatamente le regole del Capitalismo, del botteghino, dei “contest”, del gioco dei potenti. Provate a ritornare a quell’idea di teatro d’arte per tutti, di teatro come servizio pubblico – tanto meneghina, italiana, europea – cui abbiamo abdicato in nome della produttività a tutti i costi, in stile Broadway.
Grazie a Trump ci sarà più chiaro, spero, dove porta l’americanismo sfrenato.
Allora mi piace, in questo giorno segnato dalla svolta presidenziale miliardaria, parlare di uno spettacolo profondamente, radicalmente italiano, anzi napoletano. Non per revanscismo, non per le baggianate identitarie care a Salvini (parente povero di Trump), quanto perché riflettere su quel che siamo stati è medicamento utile per non perdere la bussola nei prossimi mesi e anni.
Sto parlando di Bordello di mare con città, testo che è pietra miliare nella drammaturgia di un gigante quale Enzo Moscato, messo in scena con mano sicura da Carlo Cerciello, con la produzione di EllediEffe (la compagnia del compianto Luca de Filippo, diretta da Carolina Rosi) e Teatro Elicantropo, visto nella scintillante stagione del Bellini di Napoli.
Continua dunque, dopo il capolavoro Scannasurice, la proficua collaborazione tra il regista e l’autore: un incontro che apre squarci non solo sulla magmatica e furiosa scrittura di Moscato, ma anche – e direi soprattutto – sui temi lanciati poco fa. Ovvero l’identità individuale, collettiva e della nostra scena.
Per capire questo Bordello partenopeo, infatti, sono utili dei passi indietro nel tempo. Occorre ricordare Annibale Ruccello, il vibrante autore napoletano scomparso prematuramente 30 anni fa: Bordello di mare con città fu commissionato a Moscato proprio in morte di Ruccello, nel 1986 e da allora è rimasto pressoché inedito. Per questo vediamo – in alto sulla scena di Roberto Crea – un ritratto del giovane Annibale, che è presa da uno dei suoi lavori più noti, quel Ferdinando che gli regalò una certa notorietà. E vi è, nella scrittura di Moscato, una cesura, un doppio binario che esplode e si separa: la prima parte di Bordello è molto “ruccelliana”, strutturata in personaggi chiari, in dinamiche narrative nette, quasi da commedia nera. Poi, dopo l’intervallo, la seconda parte è invece un’esplosione tutta moscatiana, quasi un prologo bellissimo di quella che sarà la sua drammaturgia onirica, sulfurea, visionaria di lì a venire.
La vicenda è intrigante: in un vecchio bordello, appena chiuso dalla Legge Merlin, si celebra paradossalmente la possibile santità della ex tenutaria. Ha fatto, si dice, un qualche miracolo. E a celebrare la presunta santa è un microcosmo al femminile di umanità rarefatte e intensissime, che si confrontano con la curiosità di un giornalista (in scena lo stesso Moscato) osservatore e inquirente. Nelle luci avvolgenti di Cesare Accetta, il bordello si muta in luogo di culto, di atteso miracolo, di speranza, di riscatto.
Mo’, per capire la possibilità di una simile, esplosiva, contraddizione, basterebbe pensare ad esempio che a Napoli il culto popolare per le “anime pezzentelle”, nella chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio, si è interrotto (ufficiosamente) solo nel 1980, con il terremoto, nonostante le precedenti scomuniche della chiesa cattolica. Basti pensare che ogni anno una folla si ammassa ancora in attesa fideistica del “miracolo” del sangue di san Gennaro. Superstizione e fede, illusioni e disperazioni si mescolano continuamente nel mondo antico e eterno che è il cuore di Napoli. Bordello di mare con città ne è allusiva e incisiva evocazione. Chi non ha nulla, si affida al miracolo per tirare avanti.
Ma è anche riflessione possibile sulle possibilità del teatro stesso, di un racconto che non sia solo “testimonianza” o “reportage”, quanto mirabile re-invenzione di paradigmi umani archetipici, che si svelano sulla scena nelle mille contraddizioni care a ciascuno di noi.
Interpretato da un cast eccezionale, lo spettacolo vede infatti la ex prostituta presunta santa Assunta (ottima Fulvia Carotenuto) confrontarsi con il pragmatismo di Titina (incisiva come sempre Imma Villa) nella gestione del bordello diventato sacro. Con loro quelle che erano due lavoranti: Cristina Donadio dà forza spessa e oscura a Madamina, mentre ha toni aguzzi la Cleò di Ivana Maione. In quel gineceo sfatto e sfranto, resta la vergine Betti (una inquieta e inquietante Sefora Russo), da sacrificare sull’altare della santità: e sarà un cardinale, promiscuo e ambiguo (bravo Lello Serao) a diventare causa e motore del crollo di quel mondo rarefatto e appartato.
Travolto dalla folla che attendeva il miracolo, il Bordello si schianterà proprio come Napoli squassata dal terremoto. A far da testimone e narratore, si è accennato, lo stesso Enzo Moscato: l’autore si fa attore e sta là, seduto spesso in disparte, a osservare il dipanarsi della sua opera. E questo, nella efficace regia di Cerciello, rende tutto un grande, collettivo (ancorché non dichiarato) flashback: un livido “come eravamo”, che è anche denuncia, e condanna, del come siamo.
Un prete che si divora una vergine, nel bordello che è Napoli e che è l’Italia: è questa la realtà con cui fare i conti. Senza pietosa commiserazione o prevedibile adesione, piuttosto con necessaria empatia umana, Bordello di mare con città è il canto amaro di un mondo che crollava già venti anni fa. Con buona pace del neopresidente Trump.
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