Teatro
Troia brucia ancora! Il teatro dei Motus sotto il cielo stellato dei Sardi
Tremila anni dopo, trecento passi al buio. Ci vogliono un po’ più di trecento metri in realtà, per raggiungere la città che cadde per mano degli Achei. Nel centro della Sardegna, ad Orroli, le ciclopiche mura del Nuraghe Rosso, “Arrubiu”, dove in una notte di mezza estate un centinaio e passa di spettatori fortunati e intimoriti ha assistito all’evento unico e assoluto del Nuracheofestival diretto da Rita Atzeri: “Tutto brucia”, versione site specific dell’opera dei Motus con la regia di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, tratta da “Le Troiane” di Euripide.
Avanzare circondati dal buio della notte è come addentrarsi in un cuore di tenebra fino a vivere un doppio salto nel tempo. Secondo la mitologia greca il conflitto dell’Asia minore risalirebbe al 1250 a.C. I nuraghi, originali costruzioni in pietra possedevano torri alte anche 25-30 metri. Quello di Orroli ne aveva ventuno inserite in una pianta con mura interne che si chiudevano ad anello. Il complesso risale al 1500 a.C. Contemporaneo quindi ai fatti di Troia. Un castello così è perfetto per fare da quinte e fondale ad un dramma. Si erge davanti al campo che vide le gesta di Ettore e la furia di Achille Piè Veloce. E le cento battaglie di una guerra durata dieci anni. Lunga, estenuante, come rischia di diventare quella che si combatte in terra di Ucraina contro l’aggressore russoVladimir Putin. A dare corpo ai personaggi, da Ecuba a Cassandra, tre performer unite da un filo d’acciaio. Domina la scena, nei panni di Ecuba, l’immensa Silvia Calderoni, attrice talismano dei Motus, straniamento poetico e furore sturm und drang. Stefania Tansini è invece la talentosa danzatrice-attrice: con una danza sbilenca e disperata costruisce una superba Cassandra. Francesca Morello, in arte R.F.Y è infine la musicista autrice della colonna sonora eseguita dal vivo. Terza performer a pieno titolo sta in un angolo della scena aggrappata alla sua chitarra rosso fuoco da cui rovescia un cocktail acido di umori post punk, sensibilità blues ed elettronica cantando con una voce che è un gioiello di espressività: ruvida e ricca di pathos, in grado di accarezzare ed esplodere improvvisa: il timer perfetto in ogni variazione dell’opera (ha pubblicato un imperdibile album, “Everything Burns”, contenente le tracce dello spettacolo). Con la sua presenza il paesaggio diventa sonoro.
La città, l’arenile e il mare. Plumbeo. A tratti giunge l’eco della risacca delle onde mentre si infrangono sulla battigia. Il tutto è avvolto da un silenzio sinistro e un’oscurità profonda. Oscuro come il cielo di una notte con poche stelle che si riflettono dentro pozze ed acquitrini; poco lontano baluginano le fiamme che stanno avvolgendo il castello costruito dagli uomini di Nur, popolo di danzatori delle stelle che parlava una lingua secca e tagliente come le loro spade.
Al lato della costruzione, ironia del destino, incombe una gru meccanica: evoca il cavallo di Odisseo, stratagemma per conquistare Troia, ma segnala pure il carattere postmoderno di un affresco che mette assieme mito, contemporaneità ed emergenze del nostro tempo: immigrazione e crisi climatica, lezioni del passato e paura del presente. Ma scruta anche i segni di cambiamento del nostro futuro.
Ed è subito palpabile dramma del dolore. Morello indossa le vesti del coro intonando alla chitarra una nenia che sa di pianto amaro mentre nella penombra una figura indistinta cala con forza un coltellaccio facendo a pezzi un ammasso informe. E’ una sorta di facocero che con le zanne fa rotolare in terra neon incandescenti.
E’ il tempo di Ecuba regina senza più regno, madre senza più figli che saluta Troia lanciando anatemi contro gli Achei. “Addio mia città! Addio belle mura. Addio belle torri, bei palazzi. Addio anche agli animali vicini”. Aggiungendo un’implacabile accusa di sterminio e genocidio: “Hanno abbattuto tutti i cani randagi, i gatti, gli uccelli, i pavoni nei giardini. Le capre da latte non belano più. Tutto è fermo e silenzio” . Ma ormai è “troppo tardi per commuoversi. Guarda, dietro la città brucia, davanti il mare. La flotta dei vincitori è pronta a partire” sospira con voce distaccata Calderoni/Ecuba.
Contro le mura di pietra vulcanica e il dormiente mostro d’acciaio vanno a sbattere i sogni di fuga. Memento di un presente di guerra, di ingiustizie e genti in fuga. Dall’Africa all’Afghanistan. Sabbia mista a cenere. La luce gelida di torce conficcate sul terreno. Qui è l’accampamento, le tende dove sono state condotte le troiane, bottino di guerra degli Achei vincitori. Ed è simile a uno dei tanti campi dove si arena l’onda impetuosa della immigrazione. In Libia come a Lesbo, campi di detenzione senza umanità. Paradise. Così potrebbe chiamarsi anche questo. “E’ tutta lamiera che si allunga al sole come una pelle di pecora bagnata e inchiodata a terra ad asciugare. Come in ogni campo è fango e acqua che entrano da tutte le parti. Polvere e sete. Paradise è una merda, ma è l’unica casa che c’è. Benvenuti a Paradise”.
Brucia Troia! Troia Brucia! Le lacrime sfumano i contorni della città nel momento in cui salgono le urla contro il cielo. Donne sole in una striscia di sabbia mista a fuliggine. Sporca e oscura come il presente dalla linea incerta.
Non c’è azione, non c’è contrasto. Solo un possente drammatico oratorio sulla scena disegnata da Euripide per le sue “Troiane”, rappresentata per la prima volta ad Atene nel 415 a.C., quando era ancora fresco il ricordo dell’eccidio perpetrato l’anno precedente dagli ateniesi nell’isola di Milo perchè la popolazione aveva rifiutato di aderire alla Lega Delio-attica. In quei giorni si preparavano a inviare una spedizione in Sicilia (sarà una catastrofe e segnerà il crollo di Atene). L’opera dà voce ai sentimenti in direzione contraria alla guerra. Ed è un monito ad evitare i conflitti che avranno sempre conseguenze catastrofiche per i vinti come per i vincitori. Euripide si schiera contro l’imperialismo ateniese sfidandolo apertamente in un’opera che mantiene integra la forza di tragedia contro le guerre di aggressione e conquista determinate da cupidigia di potere e profitto. Un atto non certo consolatorio per il pubblico del suo tempo.
Già nei primi versi il dialogo tra Poseidone e Atena si preannunciano le sofferenze degli Achei che faranno rotta verso casa. Il primo, protettore della città oggi distrutta e la seconda, che pur aveva aiutato gli Achei a conquistarla con la determinazione a vendicarsi per l’affronto subito da Aiace che aveva portato via con la forza Cassandra dal suo tempio. Questi decidono di unire le loro forze. Dice Atena: “Quando faranno vela verso casa, da Ilio. Zeus rovescerà su di loro torrenti di pioggia e grandine, cupe raffiche di vento. E mi metterà a disposizione, me lo ha promesso, il fuoco delle sue folgori per colpire gli Achei e incendiare le navi. E tu, da parte tua, prepara per loro un Egeo mugghiante di onde gigantesche, furioso di vortici, riempi di cadaveri il golfo di Eubea: devono imparare, gli Achei, a rispettare in futuro i miei templi, a onorare gli dèi” (traduzione U. Albini, Garzanti, 1993).
Da queste considerazioni partirà Jean Paul Sartre nel riprendere in mano la tragedia curandone un nuovo adattamento. Scritto a Roma nell’estate del 1964 è destinato al Théâtre National Populaire. Allestito al Palais de Chaillot di Parigi nel marzo del 1965, coincide con la definitiva scesa in campo dello scrittore che, dicendo addio alla letteratura, dopo la guerra d’Algeria, da lui battezzata “la sale guerre”, vuole denunciare le ingiustizie nel mondo. Il 1964 è gravido di eventi. Nell’agosto di quell’anno il Congresso americano da l’okay all’intervento nel Vietnam. Pochi mesi dopo i primi soldati stelle e strisce sbarcheranno in quella che fu l’Indocina. E’ anche un mondo diviso in blocchi, tra guerra fredda e minaccia nucleare.
Questi sono anche i motivi che hanno spinto il grande intellettuale a occuparsi de “Le Troiane”. Il cuore dell’opera _ che servirà come base ai Motus _ Sartre lo spiega in una intervista rilasciata a Bernard Pingaud per il mensile “Bref”. “Noi sappiamo cosa significhi oggi la guerra: una guerra atomica non lascerà né vincitori né vinti. Ed è precisamente tutto questo che la pièce dimostra: i Greci hanno distrutto Troia, ma non trarranno alcun beneficio dalla loro vittoria, perché la vendetta degli Dei li farà morire tutti”. Perchè dice Sartre “ogni uomo ragionevole deve evitare la guerra” come afferma Cassandra, non c’è neanche bisogno di dirlo: la situazione degli uni e degli altri lo testimonia in modo chiaro. Preferisco lasciare a Poseidone la parola finale: Voi morirete tutti”.
Da qui il passaggio di testimone ai Motus che aggiornano la tragedia all’epoca dell’Antropocene, tra crisi climatica e possibili catastrofi. Lavorando con la dramaturg Ilenia Caleo passano al setaccio le loro fonti di ispirazione, da “Cassandra” di Christa Wolf all’”Antigone”, raccogliendo stimoli da “Morte e pianto ritual: dal lamento funebre antico al pianto di Maria” di Ernesto De Martino al pensiero di Edoardo Viveiros de Castro, Judith Butler e soprattutto Donna Haraway.
Prime timide luci dell’alba. Ecuba scopre l’uccisione di Polissena. Una troiana: “Ho visto il suo corpo e sono scesa a coprirla con un velo nero. Ho pianto sul suo cadavere. Sgozzata su una tomba. Una capra? Come un bue? Che morte infame…” Ecuba accarezza e ricompone il corpo della giovane figlia. “No. Infame no. E’ morta come è morta.. più felice di me che vivo. No, io non voglio che il tuo volto amato si cancelli dalla mia memoria” urla squarciando la luce incerta del mattino.
Ecuba è la quintessenza del dramma. La troiana che non si dà pace per la fine della sua città, l’uccisione dei figli e delle figlie e ora lo squallido traffico delle donne rimaste senza padri, mariti, figli e fratelli. Dentro di sè anela la vendetta.
“Eccomi vecchia, i capelli rasati. Come è potuto succedere? Non ho più lacrime… Il destino è cambiato e mi trascina come una nave in tempesta e io mi lascio trasportare. Che fare? Parlare? Stare zitta? Devo piangere? Parlo troppo ma non posso tacere e il silenzio non vale più delle parole”.
Sanguina ancora la ferita per la perdita del suo uomo, Priamo. “Ero lì quando l’hanno assassinato sui gradini della nostra casa. L’hanno sgozzato, il sangue sgorgava dappertutto… le mie figlie portate via una a una… ora saranno schiave”.
Nella galleria al femminile del dopo massacro irrompe Cassandra, una appassionata Stefania Tansini a trasmettere spirito di vendetta ed elargire una visione del futuro. E’ una danza ad annunciare il riscatto: il suo sacrificio pareggerà questo insopportabile dolore che lascia gli occhi asciutti. Danza sulle rovine, Cassandra. Danza sulla fine del mondo agitando due neon come fiaccole o spade laser da “Guerre Stellari” e con le quali Cassandra vuole incendiare il futuro degli Achei. Questo è il presagio finale.
“Ecuba, smetti di piangere è arrivato il tempo di ridere. Danza con me. Devi fare festa. Danza con me sul fuoco e sulle fiamme. Tutto Brucia! Oggi vi porterò il fuoco!” . Ed è una danza erotica, vertiginosa come quelle dei dervisci rotanti. Un girotondo per capovolgere il mondo.“E’ nel futuro che si mescola il presente”.
Cassandra che darà fuoco al futuro vaticina la propria fine: “Morirò con un’ascia piantata in gola”. Mentre si allontana verso l’imbarco interroga: “E questo ciò che chiamate vincere? E’ questo conquistare? E’ questo morire? Chi ha intelligenza deve evitare la guerra”.
E’ il lungo addio. Ecuba vaga per il campo appoggiandosi a un bastone. “Un relitto in secca, ecco come mi hanno ridotto. Avevo un trono e ora sono qui per terra. Vecchia e senza forze… io regina a fare la puttana in mezzo alla strada. Terra cara che tristezza lasciarti. Porto il lutto per i figli morti in guerra. Per le figlie fatte schiave. Per la libertà perduta. Piango per la mia casa. Piango perché sono sopravvissuta. Piango per mia figlia ammazzata. Oh amate creature, tornate, venite a prenderci! Piango per Edith, per Saira, Rosa, Mariana, Alejandra, per Rosario, Dora, Conception, Ana... Piango per Ayse, Ibrahim, Halil, Alfa Oumar, per Becky, Ganet, Janet, Fadwua, Fahezeh, Samia. Per Joseph, per Kaled… Piango per N.N., N.N., N.N… Amate creature venite dal regno dei morti, venite a prenderci”.
Il tempo è arrivato. “Ci separano, ci portano via. E loro ci guardano. Ora sanno che sono morti per niente. Perché vivere non è come morire. Vivere vuol dire essere ancora possibili”.
Nella notte in cui tutto va a fuoco figure danzano nel buio, ombre fugaci strisciano tra i fuochi accesi. C’è chi corre con un vessillo nero e chi improvvisa antichi balli del falcetto.
Non è solo il destino di Cassandra, ma anche quello delle altre donne in attesa di essere imbarcate via. Di Elena casus belli di una lunga guerra, donna oggetto sessuale e preda del maschio e del cui destino R. F. Y canta in una sua ballad. E poi c’è Andromaca. La fiera consorte di Ettore a cui è rimasto solo il figlio Astianatte che le viene strappato e gettato dalle mura di Troia in fiamme. Non potrà occuparsi di seppellirlo ma questo sarà concesso a Ecuba.
In una tragedia senza azione due atti esecrandi certificano la voglia di esibire la potenza dei vincitori. L’ammazzamento di Polissena e ora quello di Astianatte. L’atto di accusa di Ecuba è una maledizione. “Perché ucciderlo? Che paura vi faceva un bambino?” sussurra ricevendo i resti dell’amato nipote. “Dalla testa spaccata esce sangue, sembra una bocca che ride. E le tue mani? Rotte. Niente può essere riparato ormai. Tutto va al contrario piccolo mio. Sono io a seppellire te. “Qui giace assassinato il bambino che terrorizzava la Grecia”. Due volte maledetti siano i vincitori.
Fiamme dappertutto. Bruciate Troia. È l’ultimo atto. Presto scomparirà anche il nome di questa terra . “Tutto finisce in un modo o nell’altro. E’ davvero così che un mondo finisce? Tutto questo dolore non lascia il mondo inalterato. E’ una ferita aperta che non fa cicatrici”. Ecuba indossa una maschera come portasse un muso di animale, indica una trasformazione del corpo, il passaggio a una dimensione postumana.
“C’è qualcosa che si è impadronita di me. Da dove proviene? Cos’è questo abisso?
Così noi tutte ci siamo trasformate: chi in cagna, chi in tartaruga o in pietra come Niobe, o in ammassi di stelle luminose e lontane, chi in un ragno, un fiume, chi in uno scoglio in mezzo al mare con le onde che s’infrangono contro notte e giorno, ricordando questo lamento infinito, perché la pietra non conosce la morte. Adesso è troppo tardi. Aspettiamo che il futuro arrivi di nuovo. E tra duemila anni ancora il nostro nome sarà su tutte le bocche. E quando non saremo che atomi e fiato voi, maledetti, non potreste fare niente! Niente contro questa memoria che vi divora perché saremo tutto e saremo ovunque, capaci di prendere qualsiasi forma e andare”
Ecuba esce. Vuoto.
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