Teatro
Tracce di drammaturgia contemporanea
Nella più classica tradizione dell’ottobrata romana, con il sole languido che concede una proroga all’estate, il teatro capitolino ricomincia a macinare proposte: dopo il brillante prologo di Short Theatre e la rutilante e rituale esplosione del Romaeuropa Festival, anche i “cartelloni” delle stagioni presentano i primi appuntamenti. Noi, ancora intorpiditi, proviamo a riprendere il ritmo, girovagando – noi chierici itineranti dell’ordine teatrale, intendo – da una sala all’altra. Quando, dopo spettacolo, si esce in strada, capita di avvertire sulla pelle ancora quel tepore delle seratine estive, e ci muoviamo svogliati verso le nostre case, abbracciando ricordi o amori lontani, riflettendo ciascuno sui casi della vita. Perché poi il teatro anche questo fa: regala momenti di pensieri lievi, quasi evanescenti, di vite vissute, passate nella penombra di esistenze comuni e condivisibili. Squarcia il velo, per un istante, e porta in primo piano vicende minori, marginali, stelline appena luminose nell’empireo di galassie infinite.
Due scritture “contemporanee” dunque, due testi italiani diversi tra loro ma interessanti entrambi per rimuginare sulla vita, le storie, le parole dette e quelle non dette, le cose fatte e quelle sfuggite.
Al Piccolo Eliseo, allora, ho visto N.E.R.D.s -Sintomi, commedia caustica come il meccanismo evocato dal titolo: “Non Erosive Reflux Desease”, questo si cela sotto l’acronimo, ossia quel riflusso gastrico fastidiosissimo che ci capita per cose particolarmente indigeste. Nerds, scritto con penna aguzza da Bruno Fornasari (anche regista), con la produzione dei Filodrammatici di Milano, è un affresco rapido e sapido, che sembra appena imbastito ma che ha, invece, risvolti cupi, oscuri, anche dolenti. Si ride, di fronte alla storia di quattro fratelli che si ritrovano alle nozze d’oro dei genitori, si ride per le battute caustiche e salaci, per le dinamiche intricate, per i maneggi di coppie che scoppiano continuamente, per slanci e ritrosie, per il gioco al massacro che non salva ma non uccide nessuno.
È la routine selvaggia di solitudini rumorose, di amori sperati e smollati: non ci sono eroi, tra questi fratelli. Anzi, nello spaccato umano e generazionale, striscia sotterraneo (ma non troppo) il rumore sordo di un fallimento che è sempre presente ma mai conclamato. Il racconto procede per flash brevissimi, quadri di una esposizione umana che non ha morale né pedanterie. Ognuno per sé, con uno straccio di solidarietà residua, un affetto perplesso che non evita tradimenti né frecciate. Sono bravi gli interpreti: con pochi segni raddoppiano i personaggi interpretati, sono i fratelli ma anche le rispettive “storie”, e tengono un ritmo da commedia brillante (seppur con qualche inciampo nella sera in cui abbiamo visto lo spettacolo). Il testo è di qualche anno fa, e il meccanismo dunque oliatissimo anche grazie a una regia semplice e efficace – con inquietanti papere antropomorfe e poco altro – ben sostenuta in scena da un quartetto potente e ben amalgamato composto da Tommaso Amadio, Michele Radice, Umberto Terruso e Riccardo Buffonini (vincitore del Premio Hystrio Mariangela Melato 2019). Nerds è una riflessione sull’amore, sul bisogno d’amore e di sesso, sulla solitudine: per squarci, accenni, è una conversazione continuamente interrotta, che si sposta nello spazio e nel tempo ma resta sempre ferma, inchiodata a se stessa, alla insondabilità e alla mancanza di risposte.
Stiamo lì, pare dire Fornasari, goffi, uguali a noi stessi, con gli errori di sempre, i desideri di sempre, incapaci di cambiarci, molto tolleranti con noi stessi e meno con gli altri. Nerds, con il suo clima guascone da risate anche sguaiate di una festa poco riuscita, in realtà ci mette a nudo, ci fa confessare – intimamente, per carità! – malefatte e ambizioni, meschinità e paure, ansie di fuga e vigliacche ritirate, finte malattie e fugaci amplessi. Niente di superlativo, figuriamoci, niente di tragico: è solo un po’ di vita che se ne va.
Altro tenore di storie al Teatro Argot con Neve di carta, testo affascinante che la brava dramaturg Letizia Russo ha scritto pensando al libro “Ammalò di testa-Storie dal manicomio di Teramo” di Annacarla Valeriano. Anche in questo caso un ritratto di vite (non) vissute, marginalità umane segnate da un’ipotetica follia e della certa miseria, esistenze contadine che si scontrano con superstizioni e pregiudizi. Storie raccolte dalla memoria dell’Ospedale teramano, dunque concretezza e aspra verità, a ricordare che la realtà è quella, povera e umiliata, disperata, sofferente di incomprensioni e ignoranza. Quanto era facile, allora come oggi, esser bollati con lo stigma della follia.
Neve di carta è la storia di una coppia semplice, che vediamo subito felice e appena sposata, ma l’abito di nozze è tanto simile a una camicia di forza. Una coppia, Gemma e Bernardino, che si perde nei meandri di un ricovero coatto, dovuto forse alle eccessive “smanie” sessuali, e colpevolmente sterili, della giovane moglie, e al tirare a campare dell’uomo, buono ma ottuso, vittima anche lui dell’ignoranza. Travolti come granelli di sabbia dalla marea della Guerra, la coppia si perde, e rimarranno solo tracce di lettere, miracolosamente scampate all’incendio del manicomio, frammenti che volano nell’aria come la “neve di carta” del titolo. Sono loro, quei resti che raccontano, quasi a episodi, a flashback allucinati la degenza di lei.
Lui, l’uomo, il marito, sorpreso dalla magica “nevicata” di quei francobolli di carta, riscotruisce – forse solo nella sua fantasia – il ritorno dalla moglie troppo in fretta abbandonata. La vicenda si intreccia con il mito: deve tornare a prenderla, come Orfeo la sua Euridice, deve andare nell’inferno del manicomio. La lingua, impastata di suoni di un dialetto (che evoca l’abruzzese) è il marchio, il segno della misera terrigna, perennemente abusata, vittima, di altro o di altri: dall’autorità materna – è matriarcato qui, non ancora patriarcato – alle ingiustizie di un sistema sociale e religioso che non lascia spazio a chi non possiede, a chi non ha.
Ottimamente intepretato, direi addirittura assunto, da Elisa Di Eusanio e Andrea Lolli, lo spettacolo ha momenti commoventi, quando i due bravissimi interpreti si lasciano andare alle loro capacità attoriali, contenendole, senza strafare. Risulta invece più farraginoso (almeno per me, è una scelta che non ho capito bene) per certi interventi inutili della regia – firmata dalla stessa Di Eusanio con Daniele Muratore –, e soprattutto per quella musica electronics con tanto di live dj, di Stefano De Angelis, che finisce per lavorare contro la storia e lo spettacolo, senza per questo attualizzarlo né vivificarlo, anzi. Con qualcosa di meno, Neve di carta acquisterebbe nella sua valenza esistenziale e politica, nella sua efficacia, nel suo dipingere poeticamente un quadro sociale su cui dovremmo riflettere. La misera, lo sfruttamento della povera gente è passato anche attraverso i “certificati di buona salute”. Prodotto da Florian Metateatro di Pescara con altri partner, lo spettacolo resta dunque a memoria di una, di tante storie: nel manicomio di Teramo come in tanti altri luoghi in cui la diversità è stata umiliata.
Devi fare login per commentare
Accedi