Teatro
Tra Dino Campana e Antonin Artaud
Ascoltavo Dino Campana e pensavo a Antonin Artaud.
Che cosa lega il poeta e il folle visionario del teatro? Concretamente nulla, verrebbe da dire a caldo. Ma, a ben guardare, ci sono strani e affascinanti punti di contatto tra i due.
Ci pensavo assistendo al coinvolgente spettacolo di Vinicio Marchioni, visto al Piccolo Eliseo di Roma, dal titolo La più lunga ora. Il lavoro è un omaggio, un’evocazione, o forse un attraversamento critico della vita e dell’opera del poeta di Marradi.
Marchioni, giustamente, fa piazza pulita di tutto il coté melenso – quello ingabbiato, ad esempio, in un film mediocre come Un viaggio chiamato amore – e spinge su un versante aspro, crudele appunto. Il suo Campana è un “suppliziato che fa cenni dal patibolo”, come avrebbe detto Artaud: è un violento, maniaco, matto, umanissimo, lirico, febbrile sperimentatore di parole, di linguaggi, di tecniche e colori. Disperato parla di sé.
Incollato su una sedia – forse per una concreta necessità (abbiamo visto l’attore claudicante) che si fa scelta artistica – Vinicio Marchioni impersona, ricorda, evoca: impreca, il suo Campana, vivo e ferito, contro il mondo, contro gli editori, contro le donne, contro l’Italia. Scrive, sogna, spreca tempo e sentimenti. Ma resta là, seduto, ingabbiato, senza vie di fuga. Un teatro della crudeltà, appunto.
A far da tramite (o da medium) tra Campana e Artaud è l’altro grande folle di inizi Novecento, ripensato in uno spettacolo visto mille anni fa – forse il 1993 o 94 – una produzione del Festival di Avignon e della Comedie Française dedicata ai Diari di Vaslav Nijinskij, che vidi al Teatro Valle per una bella edizione autunnale del Romaeuropa Festival. Il protagonista di allora, Redjep Mitrovitsa, per interpretare Nijinskij, il ballerino e coreografo russo che cambiò la storia della danza, restava a lungo assolutamente immobile su una sedia.
Proprio quella costrizione fisica contorta e bloccata, associata al delirio verbale, alle ossessioni, all’eterno ritorno di alcuni temi, che Marchioni ha impastato il suo Campana, fanno pensare ad Artaud.
Lo spettacolo, a dire il vero, non inizia benissimo, almeno per me: un prologo musicale troppo lungo (con la pur evocativa Sognando di Don Bucky), troppi effetti luce, troppe percussioni – del bravo multistrumentista Ruben Rigillo, che si rivelerà poi presenza sofisticata e calibrata.
Ma pian piano il lavoro si compone, si centra. E il racconto si dipana tra flashback e illusioni, tra ricordi e visionarietà. Acquista quell’identità artaudiana, antiretorica, che lo rende stringente, che avvolge lo spettatore in una feroce e violenta narrazione. Quando apparirà, finalmente, Sibilla Aleramo, sarà un’ombra, un fantasma, uno squarcio al pari di un elettroshock. È l’elegante Milena Mancini ad affrontare, in un crescendo struggente, il monologo-ritratto della Aleramo: scrittrice, donna fiera e libera, Sibilla si confessa senza reticenze, invadendo l’immaginario – o la mente – di Campana. Davvero, nel breve tempo a sua disposizione, in quell’ulteriore flusso di coscienza che si insinua dolente nel monologo di Marchioni-Campana, la Mancini si ricava lo spazio per illuminare un’altra storia di dolore e passione, di vita e poesia.
Ecco, la poesia: l’eterna musa. Evocata, detta (non recitata, ma detta in modo vibrante e puro), infangata, inseguita, condannata, insultata. La poesia è la vita di Campana. O di Artaud. È la spinta del delirio, è il bisogno, la spasmodica ricerca di una esistenza possibile.
Questo resta, dopo la visione di La più lunga ora. Un doloroso rimpianto, il feroce ricordo della poesia. C’era, c’è: il teatro ne ha bisogno, oggi più che mai. Parole che siano rivoluzione e contatto, empatia e, diciamolo pure, utopia. Dallo spettacolo si esce con la voglia di leggere ancora di nuovo Campana, di ascoltarlo, di farlo vivere sfogliando le pagine dei Canti Orfici.
Ed è divertente, forse, anche provare a intrecciare di più le vicende dei due grandi folli, quasi coetanei – quando Artaud nasceva, Campana aveva da poco festeggiato gli undici anni: i manoscritti, i quaderni, i rimandi nietzschiani, quei viaggi in America, i ricoveri, le fissazioni, quelle paure, quelle feroci rivolte dell’animo, l’onirico e il notturno….
È di fatto la relazione Vita/Teatro oppure – se preferite – Vita/Opera, che esplode smaccata: come far pulsare di vita il teatro o come rendere teatro (e qui poesia) la vita?
Vinicio Marchioni conferma le sue qualità interpretative: con coerenza e generosa empatia si impegna in un percorso non scontato. Forse una maggiore pulizia gioverebbe allo spettacolo, rendendolo ancora più asciutto e tagliente. Ma questo è il parere di un vecchio critico barboso: il pubblico del Piccolo Eliseo applaudiva generosamente, felice e commosso.
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