Teatro
Tindaro Granata, libertà è cantare Mina in playback
GENOVA_ Il dolore, l’amore, la lotta per i diritti, calpestati e derisi. Bisogna scendere giù fino all’inferno per capire come si oblitera una vita. Chiudere con la speranza e cancellare i sogni. Anzi, non averne più. “Vorrei una voce”, atto teatrale di Tindaro Granata, è quasi un reportage di viaggio da dove i giorni sono uguali e la sofferenza si respira forte, molto forte. E il racconto che ne ha tratto è un distillato di emozioni che scuotono l’intimo e si infilano come lama nelle coscienze. Finalmente, qualcuno ha il coraggio di farsi messaggero, portavoce di un mondo che spesso e volentieri, per comodità o ignoranza, s’ignora e si tiene lontano dalla vita ordinaria e ordinata di quotidiani piccoli borghesi. Non c’è dubbio: occorre sporcarsi le mani per salvare se stessi e gli altri da questo mondo infame che taglia le ali della libertà. Quella di pensiero e di espressione, dei diritti individuali e collettivi. Spezzare le catene di chi è condannato a morire lentamente, espiando colpe nate da un atto maledetto che ne cancella poi l’esistenza.
Dietro le sbarre. Sono quelle della Casa circondariale di Messina dove Granata ha sperimentato -dentro il piccolo Teatro Shakespeare– con un gruppo di detenute ad alta sicurezza. Undici persone con cui l’attore ha dato forma al progetto “Un teatro per sognare”. L’obiettivo per quelle detenute era di “farle rivivere, sognare, ritrovando la femminilità perduta”.
Per quegli accidenti che accadono spesso nelle nostre vite, Granata si è trovato immediatamente in sintonia con quell’universo, riconoscendo in loro quello che anche lui nel suo intimo viveva proprio in quei giorni. “Guardandole -racconta infatti Granata- mi sono sentito recluso, da me stesso, imbruttito da me stesso, impoverito da me stesso. Avevo dissipato, inconsapevolmente, quel bene prezioso che dovrebbe possedere ogni essere umano: la libertà”.
Il teatrante racconta come da ragazzo trovasse energia e slancio nel cantare Mina. In quella voce trovava l’ispirazione e la forza di ripartire. La proposta per quelle donne era così di avere ciascuna due canzoni a scelta tratte dal repertorio della grande cantante, e rifarlo in playback mettendoci dentro tutta l’anima necessaria a liberare se stesse e trasmettere, con giusta energia, le proprie storie. Tutto questo, drammaturgicamente, si sarebbe dovuto costruire replicando il celebre concerto di Mina alla Bussola, quello del 23 agosto 1978. L’ultimo tenuto in pubblico.
Così detenute e Tindaro hanno vissuto dentro una bolla, mettendo in scena se stessi in una porzione di tempo sospeso dove le storie nascoste hanno finalmente lievitato. La voce -e la musica- quindi, come catalizzatore di esistenze. Da sempre, d’altra parte, la musica ha incredibili poteri taumaturgici, consola e ripara, mette in comunicazione e scioglie i conflitti. Andrebbe magari ricordato con forza, oggi, anche ai vari ministri di Istruzione e Scuola che lo ignorano, occupati come sono a tagliare risorse umiliando chi insegna, senza promuovere e incentivare lo studio di musica, danza e teatro, alti momenti di espressione, sicuramente indispensabili alla comunità e a un mondo di pace.
Così brani come “Ricominciare”, “Ancora” e altri compiono il miracolo. Il ghiaccio si scioglie ed emergono i grumi di dolore, ferite di una dimenticata femminilità. Ma anche il riso e la comicità. La voglia di vivere. Dopo tutto.
Tindaro non racconta le vicende di queste donne, ma ne esalta le trame d’esistenza, al modo dei cantastorie e indossando volta per volta abiti e camiciette in lamè dorato, attingendo alla sua stessa femminilità e intrecciando il proprio vissuto con quello delle nuove compagne di viaggio, lasciando in ombra i segreti intimi, ma traendo in superficie una straordinaria umanità fatta di amori dimenticati, tradimenti, gelosie e innamoramenti. Come tutto il male del vivere di chi abita ai margini, outsider di un mondo che con la ricchezza esclude, elevando mura altissime di incomunicabilità e disprezzo.
Ma infine, c’è anche la gioia di ritrovarsi.
“Per noi la libertà -racconta una delle detenute- è stare dentro il teatro. Quando ci svegliamo, facciamo colazione, andiamo al lavoro vediamo solo sbarre. Qui a teatro no. Ci sono solo tende, niente sbarre”.
“Vorrei una voce” è una lezione di vita. Da ascoltare e meditare. E, poco importa se verso la fine il ritmo tende a perdersi per un po’ e indugia in qualche ripetizione: sono piccolezze davanti a quello che è un emozionante e commovente One Man Show in cui Tindaro Granata, narratore come pochi, trasmette una contagiosa energia.
“Vorrei una voce” prodotto dal Lac di Lugano, sempre attento a cogliere e promuovere il teatro di qualità, è stato scelto giustamente per aprire il Festival dell’Eccellenza Femminile, giunto al suo ventennale con la direzione di Consuelo Barillari. Il programma – che si tiene a Genova anche con il supporto del Teatro Nazionale in modo prevalente nella Sala Mercato– è richissimo e offre, incontri, mostre, poesia, cinema ma soprattutto teatro. “Role Play” o “Ruoli” è il titolo prescelto questa edizione che guarda ai ruoli della donna nella storia e nella società contemporanea e “al gioco di ruolo che il teatro permette di vivere allo spettatore, rompendo le barriere della realtà, del tempo, delle regole sociali, facendolo immedesimare in storie e universi fantastici”.
Dopo Tindaro Granata l’appuntamento è con Elena Arvigo che presenta il 23 ottobre “Elena” del poeta greco Ghiannis Ritsos ispirato al mitivo personaggio della regina di Sparta. La sera dopo Arvigo mettein scena “4:48 Psycosis”, lunga partitura lirica, sospesa tra flusso di coscienza e durissima requisitoria, “rimasta come emblema della drammaturgia di Sarah Kane”, Regia di Valentina Calvani. (Sala Mercato).
La sera successiva va in scena “Una storia al contrario”, progetto di Elena Arvigo dal libro di Francesca De Santis. Il racconto della storia privata di Francesca diventa generazionale “con lo sfondo della complessa vicenda dell’Unità, il giornale fondato quasi 100 anni fa da Antonio Gramsci e che nel 2017 sospende le pubblicazioni. Il racconto della storia personale, la famiglia, gli amori, i figli, la malattia si fonde con le vicissitudini di un mestiere e di una carriera da reiventare e ridefinire ad ogni passo”.
Il 25 e il 26 ottobre, due serate in compagnia di Giulia Musso al Teatro Duse. La prima sera è “Mio eroe” ed è ispirato alle biografie dei 53 militari italiani caduti in Afghanistan durante le missioni Isaf dal 2001 al 2014). l’indomani è “Dentro- una storia vera se volete” che racconta una vicenda aspra di abuso dei minori.
Il 29 ottobre si torna in Sala Mercato per “Uccellini”, progetto di casadargilla, un racconto di “rimossi e fratture, di sguardi discordi nel dare senso al mondo, alle relazioni e alle perdite. E, soprattutto dic osa c’è nel mezzo, sulla sottile linea di confine”. Scritto da Rosalinda Conti. Regia di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni. In scena Emiliano Masala, Petra Valentini, Francesco Villano.
Il 31 ottobre al Duse è la volta di “Preghiera per Cernobyl”, dall’opera di Svetlana Aleksievic, regia di Massimo Luconi, con Mascia Musy e Francesco Argirò. In questo testo è “condensato tutto il dramma, lo smarrimento e il senso di morte di un popolo, e nello stesso tempo la grande forza dell’amore fra due persone, di un uomo che era partito fra i primi volontari a riparare il reattore nucleare senza nessuna preparazione e protezione, e di una donna che continua ad amare, nella quotidianità di un’esistenza senza futuro, se non quella della sublimazione della morte attraverso l’amore”.
Il 19 novembre si torna in Sala Mercato con “Una cosa enorme” di Fabiana Iacozzilli con Marta Meneghetti, Roberto Montosi. Lo spettacolo è un feroce affondo sul tema della maternità, sul desiderio di essere madre e il suo contrario. «Nel primo quadro, in scena – racconta Iacozzilli – una donna con una pancia enorme si muove nel suo spazio fatto di pochi oggetti, tra i quali riesce ancora ad essere se stessa: un frigorifero, una macchina del gas, una poltrona, una pianta morta. È in costante e paranoico ascolto di una minaccia che incombe dall’alto. Presumibilmente delle cicogne”.
Al Duse il 20 novembre va in scena “Corpo vuoto”, storia incestuosa di una madre “surrogata” che incontra in proprio figlio e se ne innamora senza sapere chi sia. Di Emilia Costantini con Gaia Aprea.
Storie di resistenze al femminile in “Nonostante voi” al Teatro dell’Arca il 23 novembre. Un viaggio tra parole e musica che “s’interroga sull’identità individuale e pubblica sull’informazione e la sua reale condivisione” Interpretato da Livia Grossi.
“Alfonsina Alfonsina o il diavolo in gonnella” è la storia della prima donna nella storia del ciclismo italiano che gareggiò con gli uomini. Interprete Laura Curino. Il 27 e 28 novembre al Teatro Duse.
Il 29 novembre al Teatro Gustavo Modena va in scena “Ifigeneia” di Maaike Neuville, performance di Adanna Unigwe, coreografia di Tessa Hall. Una performance di danza in cui parole e movimento siu completano e si interrogano a vicenda si amplificano e si contraddicono.
Quattro spettacoli a dicembre. Sono: “Psycodramma” con Valentino Virando (3 dicembre in Sala Mercato); “L’esperimento” di e con Monica Nappo (4 dicembre in Sala Mercato); “Giorni infelici” di e con Sabrina Scucimarro (5 dicembre in Sala Mercato); “Cuoro” di e con Gioia Salvatori (Il 6 dicembre in Sala Mercato). il 5 dicembre in Sala Mercato.
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