Teatro
Thorpe, Gassmann e il pregiudizio di conferma
È un “fatto”, un qualcosa di inquietante e urticante lo spettacolo proposto, per due sole sere, al teatro Palladium di Roma e ora a Milano dal regista Jacopo Gassmann.
Una operazione complessa e articolata che lascia un senso come di nervosismo, di destabilizzante sorpresa. Il testo si intitola Confirmation, ed è scritto dall’inglese Chris Thorpe, di cui, sino a che non mi sono seduto in teatro, non sapevo nulla: ora vorrei sapere tutto di lui (all’Elfo organizzano anche un incontro con l’autore! Chi può vada a capire chi è!).
Programmaticamente, anzi esattamente, il titolo è quel che il testo smonta. Ossia toglie in chi ascolta ogni certezza, ogni conferma. E si incentra, si apre, proprio da un affascinante e quanto mai pericoloso “pregiudizio di conferma”. Seguendo un semplice esercizio, basato su una sequenza di numeri, tutto muove da questa teoria, o suggestione.
Cerchiamo sempre e solo la conferma di quel che sappiamo già. Di fronte alle novità, allo sconosciuto, all’altro, tutti noi – chi più chi meno – cerchiamo solo l’ennesima conferma. Purché tutto resti immutato.
Chris Thorpe, sapientemente tradotto dallo stesso Gassmann, affonda il coltello proprio in questa conformità mentale pregiudiziale. E ci rivolta come dei calzini, svelando in ciascuno di noi quanto sia radicato quel pregiudizio.
Ora, la critica ossia il pensiero critico, a qualsiasi livello, è, vorrebbe essere, dovrebbe essere, proprio il contrario: disfare i luoghi comuni, i preconcetti, gli stereotipi. Attivare il dubbio come processore, come metodo di indagine. Non accontentarsi mai, magari mostrare alle persone – lo sosteneva la studiosa Carla Benedetti – che sono molto più libere di quanto credono. Il modo più acre, complesso, difficile per esercitare la critica è guardare con gli occhi dell’altro, provare a pensare con la testa dell’altro. Complesso, difficile, forse impossibile. Ma è quanto fa l’autore di Confirmation.
Lo spettacolo, dal punto di vista scenico, è un monologo affidato all’ottimo Nicola Pannelli, attore di razza, dal timbro incisivo, garbato nel coinvolgere il pubblico nella sua narrazione. Ben illuminato dal piano luci di Gianni Staropoli, Pannelli assume i panni dello scrittore, Chris, che entra in scena disinvolto, vestito sportivo. Comincia a esporre la sua tesi, la sua teoria, spiega di aver voluto incontrare l’assolutamente Altro da sé, la persona più lontana per posizioni politiche e culturali: un suprematista bianco. Un fascista, insomma. Qualcuno con cui l’autore-narratore non potrebbe mai avere confidenza né, tanto meno identità di visione. Così, lentamente, Pannelli/Chris comincia a dar voce all’assurdo mondo ideologico del suprematista. Glen, questo il nome del personaggio. Che non è un mostro, non è un assassino, certo un fanatico. “Un fiero nazionalsocialista” dice di sé. Ma parla pacatamente, spiega, illustra, domanda, insinua il dubbio. Potrebbe essere il nostro vicino di casa.
Portatore di un’assurda visione del mondo: solo che quell’assurdo sembra svelarsi, paradossalmente, non così assurdo. Prima con affermazioni generiche, ampie, facilmente condivisibili; poi, lentamente, il discorso si fa più teso, aspro, tagliente. La retorica non lascia respiro, il ragionamento si fa claustrofobico, duro. L’assurdo, l’osceno, il violento, si fa spazio, lentamente ma inesorabilmente. La follia – se così la vogliamo chiamare – si fa razionale. Il fascismo, e purtroppo lo sappiamo bene, è dietro l’angolo. Tutto quello contro cui abbiamo preso posizione, lottato, ci siamo impegnati diventa sorprendentemente e angosciantemente reale. Siamo ancora qui, ancora a parlare delle visioni distorte di chi crede al concetto e alla supremazia della “razza” bianca.
Gassmann firma una regia elegante, intelligente, rispettosa del dettato del testo, aiuta l’attore in scena a vivere al meglio la difficoltà che possono provarsi nello scalare una montagna impervia come Confimation.
Noi, in platea, siamo prima sorpresi, poi argutamente divertiti, poi sottilmente a disagio, infine profondamente angosciati. Apparentemente non c’è nulla: un ottimo attore, una lavagna, una sedia, qualche microfono, un testo. Ma di colpo c’è il mondo con tutte le sue storture: Utoya e Breivik, i repubblicani e i democratici, la Gran Bretagna e Al Quaeda, la Shoa e David Irving. Proprio sull’olocausto si apre la pagina più cupa e dolorosa di questo spettacolo: il negazionismo e Auschwitz diventano l’ultimo baluardo, l’ultima certezza cui si aggrappa disperato il narratore per non soccombere alla logica stringente e maniacale di Glen. Ognuno pensa di avere ragione, dice il testo. Ma non è così, risponde l’autore, parlando a se stesso e agli spettatori: di fronte alla storia, di fronte ai sei milioni di morti non è così.
Alla fine, in una amara e sconsolata disperazione, non si capisce chi stia parlando. È il narratore? È il suprematista bianco? In un delirio disperato, qualcuno propone di scambiarsi gli occhi, di vedere con gli occhi dell’altro. Chissà, forse i due possono essere amici?
Glen, dice la storia, si darà alla politica, il narratore rimarrà con le sue domande.
Oggi qualcuno fa passare il fascismo come una “opinione” al pari di tante altre, ronde battono le città, un movimento vorrebbe sfilare per Roma celebrando la marcia paramilitare delle camicie nere: a che punto arriveremo in questa Italia perennemente nera e clericale?
Non so, forse non ho capito lo spettacolo, ma questo Confirmation mi ha spiazzato al di là di ogni aspettativa. Mettersi in discussione è tutto, specie di fronte alle granitiche certezze altrui.
Una nota a margine: parte del pubblico, come da volontà dell’autore, è disposto sul palco, addosso all’attore. ma vedere il resto del grande e bel teatro Palladium occupato solo nelle prime due file è stato abbastanza deprimente a fronte di un lavoro così intenso.
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