Teatro
The repetition e la banalità (del male) di Milo Rau
Grande fermento a Milano dopo le tre date di “The Repetition. Histoire(s) du théâtre (I)” di Milo Rau allo Strehler. Era ora che il Piccolo ospitasse il regista svizzero – 42 anni, direttore del nuovo Teatro di Gand e tra i più quotati al mondo secondo tutta la critica nazionale e internazionale, New York Times in testa –, dando in questo modo uno scossone a una stagione che, salvo alcune ospitalità (ad esempio “La scortecata” di Emma Dante) e una sola produzione davvero riuscita (“Il ragazzo dell’ultimo banco” di Jacopo Gassmann), è stata piuttosto fiacca. Si tratta del primo spettacolo di Milo Rau che rispetti scrupolosamente il Decalogo che il regista ha imposto e si è imposto esattamente un anno fa, manifesto con cui intende interrogare pubblico, attori e se stesso sui principi di un nuovo teatro; da qui il progetto che ha chiamato “Histoire(s) du théâtre” e che arriverà, nelle sue intenzioni, a dieci episodi.
Insomma un serial teatrale che vorrebbe inaugurare un nuovo corso della scena contemporanea. Per un teatro aperto, europeo e al di sopra di ogni sospetto di elitismo Milo Rau, più che rappresentare il reale, vuole che sia reale la rappresentazione stessa. E così almeno due degli attori devono essere non professionisti, se possibile testimoni dei fatti messi in scena, si devono parlare due o più lingue diverse e ovviamente si proibiscono tutti i classici, dai Shakespeare alle Orestee, a meno di rielaborarne il testo per l’ottanta per cento. Viene in mente il Dogma di von Trier e Vinterberg del 1995. Che poi, si sa, il miglior modo per infrangere un decalogo è proprio metterlo nero su bianco. Invece il sospetto che viene assistendo allo spettacolo è che il regista, ora che ha canonizzato il suo metodo, rischi di ingabbiarsi da solo.
“The Repetition” è il resoconto a sangue freddo dell’omicidio del giovane Ihsane Jarfi, omosessuale di Liegi che un sabato sera, fuori da un club, entra nella macchina sbagliata. Il regista allestisce il fatto di cronaca nei cinque atti canonici della tragedia, che diviene una messa in scena della banalità del male e casualità della violenza. Passati i cinque atti di disgregazione della morale si arriva all’unico che conta davvero, il sesto, quando i morti si ridestano per ringraziare in proscenio, con citazione della Szymborska e appagamento metateatrale di tutti. Così si capisce che la chiave del lavoro sta proprio nella sua cornice, continuamente ribadita e sottolineata da immagini in presa diretta proiettate su uno schermo in fondo al palco, mentre attori e gente comune si incontrano per la prova (“The repetition”, appunto) di questa storia: uno di loro ha assistito al processo, un altro ha avuto una vita simile a uno degli assassini e tutti conoscono la frustrazione sociale di quei luoghi tipo film dei Dardenne.
Eppure, più che per il pugno nello stomaco della scena del pestaggio, ricostruita con tanto di Polo grigia sul palco, lo spettacolo si ricorderà per i suoi intrecci di verità e finzione, un po’ programmatici e insistiti, oltre che per l’originalità del montaggio drammatico, che è sicuro ma senza affondo. In conclusione, arrivati in fondo all’ultima spiegatissima mezz’ora – con annessa rivelazione sul senso e significato di questa e di ogni rappresentazione –, si può rileggere questo cupo resoconto teatrale come un gioco delle parti tra autore e pubblico, abile ma di maniera, soprattutto se si ripensa agli ultimi, magnifici lavori del regista visti in Italia, “Empire” e “Five easy pieces”. Come se l’aderenza al manifesto avesse trasformato la sottrazione emotiva di quegli spettacoli in una consuetudine meno coinvolgente, tanto che la (finta) testimonianza di due vecchi genitori, nudi ed esposti alla crudeltà del mondo e della scena, appare più ricattatoria che commovente.
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