Teatro
Tempo d’estate: Feltri, i tagli e il Valle
Che fatica. La pausa d’agosto non ci ha aiutato per niente. Bisognerebbe sfoderare la spada, avvolgere la cappa e lanciarsi nel combattimento, come avveniva nel Cavaliere d’Olmedo, con la bella regia di Lluis Pasqual, visto alla Biennale Teatro. Ma chi ha la forza?
La prossima stagione teatrale, che si aprirà con i festival settembrini, si preannuncia faticosissima: non solo per la mole di impegni, quanto per il clima generale di stanchezza e quieta, diffusa disperazione. Sempre più sono quelli affranti, sfranti, demoralizzati, alle prese con un cambio radicale di sistema del teatro italiano.
Bastava dare un’occhiata ai social, in questi giorni di vacanza, per capire l’aria che tira. Ne emergevano tre notizie-prospettiva, ciascuna a suo modo inquietante.
La prima è data dai commenti al pasticciato articolo di Stefano Feltri sul “Fatto Quotidiano” di qualche giorno fa. Il brillante vicedirettore del giornale ha prima pubblicato un pezzo raffazzonato sulle università “utili” (riassumo così) poi, resosi conto di aver esagerato, ha cercato di metterci una pezza, facendo ancora più danni. Tra le tante baggianate di un’analisi parziale e superficiale (cui risponde molto bene Graziano Graziani qui e ne parla anche Francesco Giubilei su queste pagine), isolo una frase di Feltri: «Se poi volete comunque studiare filologia romanza o teatro, se ve lo potete permettere o se vi attrae un’esistenza da intellettuale bohemien, fate pure. Affari vostri. L’importante è che siate consapevi del costo futuro che dovete pagare. Dal lato delle scelte collettive, cioè delle politiche pubbliche, dovremmo tutti chiederci se ha senso sussidiare pesantemente università che producono disoccupati…».
Ebbene: ecco il trionfo del baricchismo, di quella linea sublime di pensiero che dice: “non finanziamo i teatri, ma finanziamo la tv che tutti guardano”.
È davvero scoraggiante che un “intellettuale-di-sinistra” qual è Feltri, cada in tanti e tali luoghi comuni. Sarebbe forse utile, ancora una volta, stigmatizzare la solita visione produttivistica, utilitaristica, berlusconiana dello studio: quella stessa visione che ha portato a diminuire gli insegnamenti di storia dell’arte, della musica, del teatro ovunque. Poi sarebbe interessante capire il perché si continui nel pregiudizio attore-bohémien, che vale quanto ballerina-poco di buono. Insomma: quella visione medioevale e cattolica per cui l’attore era da seppellire in terra sconsacrata, in quanto “vano, turpe e girovago”.
In più, aggiunge il lungimirante Feltri, se vuoi fare l’artista, cazzi tuoi.
Varrebbe la pena chiede allora a Feltri e ai feltristi come si immaginano un mondo senza poesia, senza musica, senza arte, senza teatro. A meno – e questa è la concessione che fa il giornalista – di lasciare quelle arti ai “figli di papà”, ad una selezione di censo, a ramolli ricchi e annoiati con l’hobby della scena. La prospettiva di Stefano Feltri è insulsa ma, purtroppo, rispecchia un immaginario italiano comune e condiviso, coltivato da anni di berlusconismo e leghismo, secondo i quali arte e cultura sono sinonimi di “perdita di tempo”, di spreco di energie, di tanto con la “cultura non si mangia” (per reiterare il consunto luogo comune)
Il che ci fa passare alla seconda notizia circolata sui social.
Ovvero l’articolata presa di posizione (ultima di una lunga serie) del regista e attore Jurij Ferrini contro i tagli, frutto della farraginosa riforma di settore. Una riforma, voluta dal Mibact di Dario Franceschini e Salvo Nastasi (a proposito: in bocca al lupo per il nuovo incarico alla Presidenza del Consiglio…), partita con le migliori intenzioni e naufragata in una specie di “omicidio preterintenzionale”. Nel codice di procedura penale, si definisce così quell’omicidio che va oltre le intenzioni: volevi far male, e invece ci scappa il morto. La suddetta riforma voleva, doveva tagliare, e invece sta massacrando mezzo teatro.
Rem&Cap, Teatro Elicantropo, Premio Scenario, Compagnia della Fortezza e tante altre compagnie (tra cui Progetto URT di Ferrini, che lavora bene da anni, ma che forse ha la colpa di non aver santi in paradiso), sono state “tagliate” nei contributi del risicato FUS, il Fondo Unico dello Spettacolo. Mille proteste da nord a sud, qualche interrogazione parlamentare, molti mugugni e tanta sfiducia: un elenco delle prese di posizione è stato pubblicato sul sito ateatro.it.
Sembrerebbe davvero un mezzo disastro, su cui occorrerà intervenire strutturalmente (anche al Ministero lo dicono) apportando necessari cambiamenti e correzioni di passo, a partire dalle fantomatiche autocertificazioni numeriche.
Il guaio di quanto sta accadendo, però, al di là di tagli e proteste, è che tutto rimane, nel miglior stile italiano, nebuloso. Non si capisce più (almeno io non capisco) quale sia il progetto culturale, dunque politico, di questa riforma, se non quello di falcidiare un po’ ovunque per risparmiare. Non si capisce più quale sia il senso dei Teatri Nazionali, ad esempio, e delle scuole collegate; né quale sia la prospettiva politico-culturale nei confronti della vera spina dorsale del nostro teatro, ovvero quella miriade di piccole sale e di piccoli gruppi che da sempre hanno dato linfa alla scena nazionale e internazionale. Se la riforma colpisce anche compagnie strutturate (da Tiezzi/Lombardi a Glauco Mauri) le altre dove andranno? Ma davvero possiamo immaginare uno Stato che a quanti vogliono fare, e fanno, teatro risponda – parafrasando il saggio Feltri – cazzi vostri?
E qui arriviamo alla terza notizia apparsa su fb in forma di immagine. Era in realtà composta da due immagini sovrapposte. La prima mostrava l’ingresso del teatro Valle il giorno di ferragosto 2011: affollato di gente festante. La seconda mostrava la stessa porta nel ferragosto 2015: il deserto.
Sul Valle (ex occupato) si sono scritte tante pagine. Adesso non se ne parla quasi più, perso nella memoria di una città che fa fatica a sostenere i propri fermenti culturali. Sembrava, quando fu sgomberato, che i lavori di ristrutturazione dovessero iniziare il giorno dopo: tutto era pronto. Invece, è chiuso e il destino sembra ancora incerto: «Riaprirà a breve» ha detto il sindaco Ignazio Marino nel maggio scorso, e a luglio ha ribadito: «tra sei-dodici mesi riaprirà». Vedremo.
Ma vale la pena chiedersi perché sia stato così a lungo chiuso. E che cosa vogliono fare Roma e il Lazio: in Comune e in Regione non si vivono momenti esaltanti. Le cronache parlano d’altro, di altre criminalità ben diverse dalla gioiosa e creativa anarchia delle occupazioni o dei centri sociali ormai tutti o quasi annichiliti e ridotti al silenzio.
Allora capite perché andiamo con poco entusiasmo all’apertura della nuova stagione. Poi gli spettacoli ci smentiranno: ci faranno tornare entusiasmo, domande, curiosità, passione. Ormai i teatranti vanno in scena più per “tigna” (come dicono a Roma la caparbietà) che non per altro: sfoderano la spada della poesia, come Cyrano, e continuano a regalar sogni. Ma, mi vien da dire, le nozze coi fichi secchi, a lungo andare, stancano.
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