Teatro
Teatro, “Rubedo” di Affinito, rosso napoletano
CAGLIARI _ La memoria della carne. E della passione. Ma anche il ricordo di chi su quel palcoscenico c’è stato prima dando tutto se stesso. Giuseppe Affinito collega il filo tra passato e presente. Transizione difficile ma necessaria. Una scena importante come quella napoletana che regalò i vari Ruccello, Moscato, Newiller e altri è tornata. E’ qui, e riprende a far battere il cuore vagabondo e i suoi sogni nelle prove generali del giovane “figlio d’arte” della migliore tradizione del contemporaneo partenopeo. Lo testimonia il suo atto unico, scritto a soli 23 anni d’età (oggi ne ha 29): un one man show alla maniera di quei pochi capaci di occupare lo spazio scenico con un teatro di poesia in grado di emozionare chi ascolta. Su tutti, il grande Enzo Moscato scomparso un anno fa lasciando un vuoto enorme in chi l’ha amato e a cui è dedicato questo lavoro. Ecco quindi “Rubedo”- al Teatro Massimo di Cagliari per il ciclo “Questioni di Stile” della Cedac – di Giuseppe Affinito che è come se si riprendesse un discorso interrotto. In questo teatrante venuto su nella bottega teatrale della compagnia Moscato (è figlio di Claudio, braccio destro ed erede artistico di Enzo) c’è la stoffa di quell’arte nobile che è stata grandiosa nel raccontare il ventre di Napoli, da Posillipo ai Quartieri Spagnoli. Erede certo, ma soprattutto in cerca di una propria personale cifra di espressione. E questa è una grande notizia. Un segnale preciso che la nuova scena partenopea sta trovando degni rappresentanti.
“Rubedo” è un’opera impegnativa, densa di significati stratificati, un fiume impetuoso di parole che si accumulano come gli oggetti del retrobottega di un teatro. Uno spazio virtuale dove riavvolgere il film della propria vita e rilanciare fino a intercettare il rosso fuoco e vivo di quella che gli alchemici chiamavano appunto Rubedo, come risultato della trasmutazione dei metalli in oro. Ecco così che il teatro poetico di Affinito, messo in chiaro in questa magnetica prova altro, non è che un viaggio alla ricerca di sé stesso.
Così è svelato nel prologo significativo di alcuni versi di Cesare Pavese: “Anche tu sei l’amore./ Sei di sangue e di terra /come gli altri. Cammini/ come chi non si stacca/ dalla porta di casa./ Guardi come chi attende/ e non vede./ Sei terra che dolora e che tace./ Hai sussulti e stanchezze, / hai parole – cammini in attesa./ L’amore è il tuo sangue – non altro.”
Versi che introducono ad un polveroso e poco illuminato magazzino di carabattole sceniche. Specchi, giornali, uno stereo… Qui inizia il percorso “a ritroso nelle stagioni di un mondo e di un tempo senza confini”. Parte tra voci che arrivano da giorni lontani. Voci registrate che emergono come fantasmi. Affinito si muove tra le cose più intime aprendosi al mondo e mostrando le fragilità di uomo in crescita.“Penso a tutte le volte in cui ho smesso di volermi bene. Tutte le volte in cui ho finto un altro corpo, ho finto un altro cuore …”
Amori e tradimenti, illusioni e passioni. Conoscere e ri-conoscere.“Io neanche ti conosco! E chi sei tu per dire di conoscermi? Chi te lo ha dato questo diritto? Solo perché mi hai sfiorato, così, quasi per caso… “
Accanto al personale, il politico. Scorrono come in un documentario le frasi sessiste, lo specchio della società benpensante che esclude e vuole cacciare il diverso. Affinito sembra volare in punta di piedi sulle miserie del mondo. Si cambia continuamente d’abito e predilige il colore che brucia. E’ marcia trionfale del rosso carminio, avvicinamento progressivo verso quel rubedo che annuncia la pietra filosofale.
Si avvolge in un telo, quasi fosse un mantello, evocando chi dispensa consigli di vita con voce ironica: “Tu vuò fa l’artista, è overo? Tu vulisse scrivere ‘e poesie y ‘e versi appassiunati ‘ncuoll’’a tutte ll’uommenelicche streuze ca te truove ‘mmiez’a via? Uè, piccerì, vid’’e crescere ‘nu poco e ‘a te levà sti fantasie romantiche d’’a capa: ccà ‘a vita nosta è lastricata di solitudini e dilacerazioni, ccà simme tutte quanti inadeguati, in qualche modo, sia all’amore che alla vita. E tu t’hea fa gli anticorpi! Tu t’hea proteggere! Fora, ‘a ggente te disprezza, ‘a ggente è ‘nfame, nun ne vò sapè niente, ‘e te, e tu t’hea salvà “…
Un attimo e Giuseppe Affinito riflette, frugando tra le cianfrusaglie: “E’ solo che a volte c’è sole, c’è tanto sole e fa caldo e sei felice, poi ad un tratto hai paura che torni il freddo, che qualcuno andandosene si porti via anche la luce”.
Canticchia “Vivere” giocando con un mappamondo mentre lentamente sale la musica de “Il Mondo”, la meravigliosa canzone del 1965 cantata da Jimmy Fontana con l’accompagnamento orchestrale diretto da Ennio Morricone: “Gira il mondo gira, nello spazio senza fine, con gli amori appena nati, con gli amori già finiti, con la gioa e col dolore della gente come me…”
La canzone si mescola al soliloquio: “Il tempo guarirà tutto!…ti piacerà dimenticare, ti piacerà sbagliare! Perché l’errore non lo puoi controllare, puoi solo continuare a vivere il tempo, essere il tempo! Ma che succede se il tempo stesso è una malattia?”
Affinito scrive con un pennarello su degli specchi che volta per volta rimandano la sua immagine riflessa e modificata. Coinvolgimento e distacco, concentrazione e straniamento. Servono a identificare e segnare gli spazi come movimenti di una cantata. O di una partitura. “Rubedo” è così: racconto per immagini e nostalgia, ricordi e confessione., mentre irrompono le note di “It’s a Heartache” di Bonnie Tyler e “Sorry, I’m a Lady” delle Baccara entrambi del 1977. Nell’ultimo specchio, la scritta ”Non fate troppi pettegolezzi”. Un tappetto di rose rosse. E poi le vesti e i teli bianchi coprono tutto: come una Quaresima.“Perchè scappo? Credi che scappi? Non so. Non saprei dire”. Gira, il mondo gira in porzioni di vita disordinata, frammentarie emozioni che portano fino all’ultimo appassionante monologo fatto di poesia sbilenca, dolcissima e dolorosa.
“…A storia lloro, ca po’ fosse a storia mia,/ e a toja,/ ‘e tutt’o munno gruosso quanto e comme chesta ntecchia ‘e terra,/ ‘c’appicciamme tutt’e juorne sott’o cielo./ Pur’o cielo, me vulesse magnà, pur’isso,/ m’o vulesse bevere, m’o vulesse seccà,/ pe turnà a nascere, /mò -/ comm’a na rosa ‘e mare,/ ittata mmiez’a ggente… “
“Rubedo”, scritto, diretto e interpretato da Giuseppe Affinito; Suono Teresa di Monaco; allestimento e luci Enrico De Capoa, Simone Picardi; Costumi: Dario Biancullo. Produzione Casa del Contemporaneo. Al Teatro Massimo di Cagliari, organizzazione Cedac.
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