Teatro
Teatro, la distanza del cuore e quella del dancefloor
Da quindici a quarantacinque centimetri. E’ la distanza tra due che si amano. Quella del cuore. Gli spazi tra i corpi definiscono le relazioni delle persone. Almeno un metro e mezzo in tempi pandemici: il minimo di distanziamento per non essere preda del virus. Da osservare nei posti di lavoro, nella strada, al bar. Distanza di sicurezza. Il Covid 19 sta cambiando il modo di vivere e rimodella i rapporti. Sta dentro “Lo spazio delle relazioni”, performance del gruppo pugliese Sonenalè di Riccardo Fusiello in collaborazione con Agostino Riola, riproposta qualche giorno fa nel terrazzo all’aperto del teatro Massimo di Cagliari, ospite della stagione di Sardegna Teatro. Il living act mostra con perfetto tempismo le variazioni comportamentali maturate all’interno della nostra società. Un’azione tra danza e teatro concepita nel 2017, incredibilmente profetica di questi tempi _ come spesso accade agli artisti _ che prende come oggetto di indagine lo stato attuale della Prossemica. Scienza che dai primi Sessanta si occupa dell’uso dello spazio da parte dell’uomo e di come questo cambi il modo di comunicare con i propri simili, in grande parte elaborata dall’antropologo americano Edward Hall in due libri, “Il linguaggio silenzioso” e “La dimensione nascosta”. Soprattutto in questo ultimo saggio del 1968, che ha ispirato il lavoro dei Sonenalè, vengono indagati i rapporti sulla correlazione tra distanza relazionale e fisica. Hall ha osservato nelle sue ricerche come i sistemi culturali influenzano l’uso dello spazio e di conseguenza la comunicazione. Spazio e comportamento sono strettamente connessi l’uno all’altro.
Da qui la prima parte della performance al teatro Massimo. In scena dieci persone selezionate sul posto che eseguono spostamenti e azioni guidate dallo stesso regista Fusiello intento a misurare con metro alla mano la distanza reale tra le persone in scena. Che sono poi, oltre quella intima: lla seconda da 45 centimetri a 120 indicata come personale; la terza da 120 centimetri a 3 metri e 60; e infine la zona destinata alla socialità: da 360 centimetri in poi quella pubblica. La prima indica il rapporto fisico tra due persone implicando il contatto. La seconda e la terza modulano quello tra amici, conoscenti ma anche colleghi di lavoro. L’ultima è formale e di protezione. Tra tutte queste ci possono essere sia paletti rigidi che flessibili. E’ il cuore di ogni habitat, dove si definisce l’appartenenza territoriale e la relazione tra uomo e cultura. I Sonenalè, inizialmente, assegnano in modo geometrico gli spazi agli attori che poi li percorrono secondo linee immaginarie, segnate da fili invisibili. A introdurre il composito cast di attori/danzatori è la nostalgica canzone di Charles Trenet “Que reste-t-il de nos amours?”con ricordi tra passato e presente, densa di vissuto emozionale. Che sono poi le assi dentro cui è allestito l’atto spettacolare, tra balli scatenati sulle note di “Let’s Twist again” hit di una estate degli anni sessanta cantata da Chubby Checker o movenze lente come in una balera, seguendo la voce vellutata di Frank Sinatra in “Stranger’s in the night” dove ciascuno dei protagonisti danza da solo, tranne una coppia, marito e moglie, abbracciati e check to cheek. E’ un calcolato alternarsi di stop and go che induce gli attori pure a ballare all’improvviso in girotondo al tempo di un reel scozzese (e rigorosamente senza tenersi la mano). La temperatura sale nella seconda parte, virando in bella e intensa teatralità, quando ciascuno dei partecipanti mostra un oggetto legato a un ricordo personale.
. Siano questi un quadro dipinto a quattro mani con la scritta “per sempre”, souvenir di un amore finito (e una donna mai più rivista), una tromba dorata regalo della madre: non si sa suonare ma è conservata gelosamente come icona di libertà. E’ un’altra madre a lanciare invece un commovente messaggio d’amore pubblico indirizzato alla figlia. “Ti sosteniamo: staremo accanto a te, qualunque siano le tue scelte” dice agitando una bandiera del movimento LGBT. Un calice vuoto riporta invece a una calda sera d’amore. Parla di una relazione forse impossibile con un uomo di trenta anni più giovane. Ma lo è davvero? Così si interroga una civettuola signora mentre ammicca sorridente… Storie di gente che ama, brandelli di vite fotografate nella loro quotidianità, superando le distanze imposte dalle convenzioni, liberate ed esibite in scena poeticamente e senza pudori. Forza di un teatro che, liberato, diventa atto di cittadinanza. Segnato appena da una percettibile nuance grigia, dalle note del brano iniziale di Trenet ripreso alla fine in italiano da Franco Battiato: una versione che fa calare un leggero velo di tristezza.
“Lo Spazio delle relazioni” di Sonenalè era tra i primi appuntamenti del cartellone di Sardegna Teatro a Cagliari che prevedeva tra gli altri, spettacoli di David Espinosa con il suo “Mi Gran Obra (un projecto ambicioso)”, “Fratto X” di Rezza e Mastrella, “Will you marry me?” di Sara Laghissa (penalizzati dalla nuova stretta anti Covid). Il progetto di Nunzio Caponio e Davide Iodice “Enbody_ enciclopedia delle emozioni” verrà riproposto invece, molto probabilmente, sulla Rete via Zoom e ripreso dal vivo dopo il semi lockdown. Un’altra programmazione, quella del festival di “Autunno Danza” che si svolgeva parallelamente nello stesso spazio del teatro Massimo ha dovuto chiudere in anticipo il cartellone tagliando “Harleking” di Panzetti e Ticconi e Lucia Guarino con “Superstite” e “Retiro”.Curiosamente, gli ultimi lavori mostrati in rassegna (dopo l’interessante “Alcune fotografie” di Jacopo Jenna), “Forecasting” di Giuseppe Chico e Barbara Matijevic e “Beat” di Igor e Moreno, nel riprendere incidentalmente uno dei motivi della performance dei Sonenalè, la distanza relazionale tra gli uomini e il loro habitat, ne declinano però in modo più postmoderno l’essenza concettuale, portando ad estreme latitudini quello tra corpo e media, suggerendo riflessioni più algide sullo stato della nostra contemporaneità e la sua percezione a livello espressivo. La sensazione, al di là del valore delle prove stesse sul piano artistico, è che ci si trovi davanti a una deflagrazione dei principi di messa in scena e scrittura, un affastellarsi di emozioni e percezione dei propri ambiti narrativi a cui non corrisponde sufficiente capacità analitica e sapienza di sintesi.
Quello che urge raccontare per questi performer _ soprattutto quelli più giovani _ appare essere proprio la deflagrazione, lo sgretolamento, la scomposizione in tanti pezzi di una realtà percepita con evidente sensazione di malessere. Non c’è critica né visione strategica, solo voglia di fermare l’attimo e riprodurlo in loop: congelato per scatti fotografici simili a impressioni rimaste immagazzinate nella memoria della retina mentre il mondo corre veloce verso il precipizio. Sono visioni figlie di questi tempi, suggerite da una generale insoddisfazione celata appena sotto la pelle e che spesso conducono a desolanti solitudini. Sensazioni emerse nella visione di “Forecasting” di Giuseppe Chico e della performer croata Barbara Matijevic. Quest’ultima, solitaria in scena, aggiunge in circa un’ora la sua presenza a quelle di corpi digitali che fanno capolino da un laptop. Immagini parziali di volti o di arti, fino a costruire in presa diretta dei “misunderstanding”, cioè dei malintesi fatti di un mix di reale e virtuale assieme. Universi bidimensionali e in presa diretta generano costruzioni paradossali, assurde ma credibili perchè determinate dal sovrapporsi di parti del corpo della Matijevic alle videate in onda nel pc portatile, protesi ideale della performer. I filmati sono attinti da quel sterminato catalogo di memoria che è You Tube: specchio deformante e deformato in cui si riflette l’umanità contemporanea. Sono frames in movimento che scorrendo e ibridandosi con parti del corpo dell’artista costruiscono altre cellule narrative. Distanze che si annullano in un secondo senza creare alcun effetto di vicinanza. Il meccanismo è affascinante e, dal punto di vista spettacolare, produce anche attimi di indiscutibile glamour, ma a lungo andare la ripetizione induce alla noia e dopo lo stupore dei primi momenti rilascia effetti soporiferi.
Cosa che non accade invece a “Beat”, nel senso che ritmo, luci e movimento sono per antonomasia i codici di riferimento del dance floor dei night club, luogo prescelto dai coreografi Igor e Moreno per immaginare “lo spettacolo come una celebrazione della fatica, del dolore e dell’incertezza di decidere giorno per giorno _ momento per momento _ chi siamo”. Così per processo di mimesi è stata allestita sul palcoscenico una pedana bianca dove si riflette quasi a specchio il telone chiaro che fa da fondale. Bianco su bianco. Un effetto abbacinante come un flash e le luci strobo che il light designer (Seth Rook Williams) dispensa continuamente dal vivo miscelandole con colori dai toni forti combinate ad effetti di contrasto continuo. Tutta sta luce si concentra sulla danzatrice, Margherita Elliot, quasi sempre al centro della pedana come una cubista, talvolta un po’ in affanno, come d’altra parte può accadere a danzatori che nella pista da ballo di un disco difficilmente riescono a separare, come il grano dal miglio, la dance dalla danza. Il momento ludico da quello performativo. La Elliot ce la mette tutta provando per cinquanta minuti a inventare altre figure, costruendo per scarti pose e gestualità non solamente riconducibili al rito della club culture, movenze e passi da consumare nel buio di una sala con la luce che rimbalza sparata a mille.
Il problema è la povertà coreografica complessiva di un progetto che si limita a fotografare una parte del tutto. “Beat” in pratica non riesce ad andare a fondo ma esplora solo la superficie dei comportamenti della club culture: quelli che poi, apparentemente, dovrebbero generare la sensazione di “liberazione”. Elliot incrocia così momenti da danzatrice con altri quasi robotici, ripetuti ad libitum, fino a perdersi come una eco sulla scia di una musica ad alto volume fatta di bassi profondi e ritmo vertiginoso. La stessa musica che seleziona dal vivo la dj Martha _ la vera top player di questa performance _ capace di disegnare un paesaggio sonoro di alto livello, molto “clubbing” tra ritmi dubstep e techno, mixando in diretta e con intrigante “touch”. Si va dalle conturbanti e iterative note di “Tell me” della producer belga Sky H1 alla elegante “Ormai” della dj tedesca Silvia Kastel, un’artista che esplora i confini della no wave con interessante background industrial. Non disdegna citare la jungle, l’inglese Pearson Sound nel martellante “Rubble” . E poi scorre il dubstep della dj londinese Ikonika (“Love Games”), la ritmica techno di Laksa (“Fwd Ghosts”), l’elettronica di Kingdom, gli adrenalinici And (“Fierce”)… un flusso elettronico di bella grana, sicuramente una delle migliori colonne sonore di spettacoli di danza degli ultimi tempi.
Devi fare login per commentare
Accedi