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Teatro
Teatro, in “Pierrot” e “Teresa” la surreale ironia dei Batisfera
CAGLIARI _ Come si può condurre una buona vita quando stiamo dentro un mondo cattivo? Come possiamo interagire con gli altri se questi appaiono lontani e sfuggenti, vulnerabili e in pericolo come noi stessi, a rischio di impattare la cancellazione con la violenza? Degli uni e degli altri. Questo dà il senso comune e continuo di diffusa “precarietà” della nostra presenza sulla Terra. Più chiaro ed evidente in giorni di guerra come gli attuali in Ucraina o a Gaza, dove i morti si sommano ai morti in conflitti di cui non si riesce a vedere la fine. Ma è tangibile anche e soprattutto nel silenzio e nel segreto di mille esistenze quotidiane. Dove le tante cose che si inceppano o non funzionano mettono a dura prova self control ed emozioni. A farne le spese sono naturalmente coloro che poi dovrebbero certificare la buona vita e la strada verso la felicità. Alla base c’è soprattutto un problema di corpi e riconoscibilità.
La filosofa Judith Butler in “Vite Precarie” a questo proposito afferma che “Il corpo implica mortalità, vulnerabilità, azione: la pelle e la carne ci espongono allo sguardo degli altri, ma anche al contatto e alla violenza, e i corpi ci espongono al rischio di diventare agency e strumenti di tutto ciò. Possiamo combattere per i diritti dei nostri corpi, ma gli stessi corpi per i quali combattiamo non sono quasi mai solo nostri. Il corpo ha una sua imprescindibile dimensione pubblica».
Riflessioni utili per entrare nel mood di “Io Pierrot. Lui Superman”, spettacolo teatrale minimo e intimo della compagnia indipendente Batisfera, a cura di Valentina Fadda, autrice e interprete questi giorni a Quartu presso l’Aula 6, scene di Filippo Grandulli. Spettacolo per pochi. Sette/otto persone alla volta. Spettatori che, una volta introdotti in un ambiente intimo, illuminato da luci basse, prenderanno posto in una tavola addobata con piatti e calici in metallo dorato. Diventeranno progressivamente giudici e partecipi di un raffinato gioco al massacro -intinto di ironia- ma anche complici di un viaggio verso l’ignoto che a tratti sembra assumere i contorni di una gothic story. Capotavola è Valentina Fadda abbigliata come una dama ottocentesca, avvolta in un abito lungo e corsetto, neri, di seta e tulle. All’estremità siede un giovane dai movimenti rattrapiti che emette un continuo, percettibile lamento (Alessio Rundeddu). Un Prometeo incatenato a cui sembra negata la possibilità di esprimersi (anche se, nel preambolo introduttivo costui, che si rivelerà alla fine un danzatore fine ed energico, è mostrato come esemplare vivente di forme perfette). Servo di scena, una distaccata Valentina Puddu, anch’essa in nero, allinea di continuo sulla tavola “portate” e cotillons per una festa di compleanno a cui gli spettatori devono collaborare. Ma niente va come dovrebbe e ogni iniziativa, condotta in modo parossistico alla fine abortisce. “Perchè le cose non funzionano mai?” si chiede nervosamente la dama in nero cercando di instaurare/ripristinare una relazione con il giovane sofferente. Intanto fa votare tutti per decidere come farne tacere il lamento ingombrante (una pistola? ma s’inceppa) e in loop ripete brandelli di una storia, o meglio ne cita ossessivamente l’incipit: “era d’estate, faceva caldo…”,
Tratteggiando la figura di un amante, evoca scenari ameni e maledice stizzita un cane che vorrebbe eliminare….
L’atmosfera è da happening del tempo sospeso: si resta come in un limbo immersi in un game amaro tra infelicità e desiderio, impossibilità di relazione, una maledizione che conduce all’infelicità. Fino all’ultima e catartica danza finale attorno al tavolo che (forse) vuole liberare i sogni per inseguire la vita.
Batisfera è una compagnia fondata nel 2008 a Cagliari, dove sperimentano e costruiscono con difficoltà e pochi mezzi i loro spettacoli. Lavori sempre ben curati immersi nell’ironia che denotano sapienza e passione per la scena. Tra gli ultimi c’è anche una straordinaria “La grande guerra degli Orsetti Gommosi” da antologia dove il teatro d’attore incontra quello di figura. Spettacolo che è stato mostrato due anni fa con buon successo a New York nell’ambito del festival tricolore “InScena!” Ma ancor di più l’estate scorsa nel prestigioso festival del Fringe theatre che si tiene ad Edimburgo, dove hanno raccolto successo di pubblico e ottime critiche. Batisfera, piccolo ensemble lavora come un pool di artigiani ad ogni spettacolo in collettivo, trovando lo spazio e il tempo per prove in solitario come il “Pierrot” di Valentina Fadda “Teresa, ovvero ciò che il pesce non disse”, presentato al “Family Festival” e scritto in tandem da Valentina Fadda e Angelo Trofa, con le elaborazioni video di Leonardo Tomasi e le maschere di Daniele Pettinau.
Negli allestimenti di Batisfera piccole e spiazzanti sorprese offrono quel plus in grado di attrarre e incontrare il pubblico che non ama le cose facili e ha voglia di scoprire. Solo così potrà godere fino in fondo lo spirito Batisfera. Che si insinua in modo surreale cambiando il colore dell’atto teatrale. Dal sole al buio profondo, dal bianco al nero della notte. Storie di esistenze violate. Come accade in “Teresa, ovvero ciò che il pesce non disse” visto nella programmazione dello spazio Out Off. Intanto a interpretare il personaggio di una stralunata giovane popolana partenopea non è un’attrice bensì un omaccione bello grande (e con tanto di barba) cioè l’attore Angelo Trofa, altro motore della compagnia, strizzato dentro una umile vestaglia da lavoro prendendo i panni di Teresa con fresca naturalezza e bella intensità attorale. Teresa, come fosse la cosa più normale del mondo, vive a contatto di pesci che parlano, tigri che zompano, scimmie che si fanno i fatti loro e tucani libertini. Entra in scena come una specie di tornado, facendo il suo ingresso in un ufficio di legge e guardandosi attorno (“Compermesso. E’ cà chi debbo istare? E’ cà? “) presentandosi come la figlia de “lu verduraro” racconta di sé e della famiglia che ha preso in carico dopo la morte della madre, cioè il padre e il fratello Vincenzo “che tanti vizi a preso a mangiare”… Teresa non parla. E’ un fiume in piena (“Tengo la parola che parlo, parlo, parlo e mi scordo che parlo”). Grande parlatrice e pure cantante in un coro (“putroppamente vaco solo una volta la semana”). Guarda stupita gli scaffali dei libri, lei che ne possiede solo due o tre al massimo: la bibbia l’elenco del telefono…
Teresa deve raccontare “per bene le cose successe, Una a una dal cominciamento”… E Teresa parla. E canta. Del regno di cose belle dove in un fiume incontra un pesce parlante, e poi un luogo di fiori, farfalle e papagalli di tutti i colori, Ma ci sono anche gli altri. Quei maschi che incontra durante le giornate tra la casa a faticare, la chiesa dove c’è il parrocco che la confessa e il maestro di musica. Tre uomini da interpretare con le maschere: quella del lupo per il padre, del maiale per il parrocco, del pavone per il maestro di musica. Tutti vanno matti per la sua torta di visciole… E venne il giorno. A domanda dell’”ufficiale” Teresa risponde: “Si. Conseguenze. Lo cerevello mi ave diciuto mettici le foglie di oleandro nella torta di visciole. Così tutti le mangiano (e ride)”.
Smette di ridere. Conseguenze: “Padre mio. Parroco di Sant’Anna. Maestro di musica. Vincenzo. Per Vincenzo sono spiaciutissima. Ma quello ha messo tanti vizia a mangiare. Quando ha veduto la torta di visciole… non lo sapevo che se la mangiava. (continuando l’elenco) zitellina del maestro di musica. Per essa pure sono spiaciutissima. Era zitellina. Ma forse pure lei faceva le ‘sercitazioni strane”.
“Pierrot” e “Teresa”: due piccoli, ma densi, atti teatrali. Testimoniano una capacità nel fare teatro a buon livello, precisa e curata negli allestimenti e di interessante grana concettuale. Sono anche esempi di quanta creatività nel teatro viene ignorata o snobbata da chi dovrebbe invece farsi talent scout e, soprattutto, produttore, distogliendo qualche volta l’attenzione da giochi di equilibrismo politico. I Batisfera come altri in Italia – ci sono, eccome- invece devono ogni giorno fare i conti con poche risorse e la miopia culturale di tanti che allestiscono festival, gestiscono teatri e circuiti senza pensare seriamente di promuovere nuove realtà e visioni.
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