Teatro
Teatro e poesia all’ombra di Castiglioncello
Ma chi se ne fa carico, della poesia? in questi giorni accaldati e pragmatici, divisivi e competitivi, violenti e ottusi, chi resta con gli occhi incantati? Chi trova parole poetiche, allusive, illusive, gioiosamente vive e ferocemente, crudelmente vere?
Me lo chiedevo, al Festival Inequilibrio di Castiglioncello. Giunta alle 22esima edizione, la manifestazione toscana diretta da Angela Fumarola e Fabio Masi, si pone, sempre più, come luogo di aperture e contaminazioni dei linguaggi, come oasi – direi – in cui inesauribili fonti d’acqua e d’ombra spirituali e sentimentali danno sollievo, ossigeno a teste spesso affaticate, ottenebrate, come la mia. È l’umbratilità, una sorta di protezione, sotto quei pini a ombrello, di un fermento vivo d’arte e, per l’appunto, di poesia. Sarà la vocazione del borgo (qui erano di casa Mastroianni, Pirandello, Suso Cecchi d’Amico, Monicelli e molti altri…), sarà ovviamente la netta direzione artistica di Fumarola e Masi – che sanno di voler e poter rischiare – ma Inequilibrio prova a rispondere a quella domanda inziale, ossia a farsi carico della poesia.
Ne sono prova concreta, materica, umana, tre lavori, visti nel volgere di due giorni. Mi piace darne conto (e tornerò più avanti su altre proposte sceniche), perché questi lavori possiedono non solo la “bellezza terribile” della poesia, ma anche il sapere antico e modernissimo del fare teatro. Di quel teatro che bilancia sapientemente maestria attorale, scrittura scenica, drammaturgia (ovvero poesia), e un sano, non retorico, desiderio di comunicare, di parlare politicamente al mondo e del mondo.
Il primo appuntamento, l’apertura del festival, è stato un sentito (e dovuto) omaggio a un maestro del nostro teatro: Giuliano Scabia. Dovrebbe essere quanto meno senatore a vita, Scabia: considerato che è stato, lui, che non ha mai perso grazia e ironia, in tutti i grandi movimenti rivoluzionari socio-teatrali degli ultimi cinquanta anni. Bambino ultraottantenne, combattente feroce e delicato della scrittura, creatore di immaginari mondi e di liriche, delicate, fantasie, Scabia è stato l’autore di Zip Lap Vip Map… testo dal titolo impronunciabile del 1965, prima vera opera d’Avanguardia del nostro paese. Ma non solo: Giuliano Scabia era con Franco Basaglia nella meravigliosa impresa di Marco Cavallo; era nella pratica politica e democratica del Decentramento degli anni Settanta, è stato “cantastorie” per boschi emiliani e docente universitario; ha scritto e pubblicato o suoi versi e ha dato nutrimento a schiere di allievi. Sempre con il sorriso lieve di chi ama la vita e il gioco, il rito e il sogno: tesse trame di creature fantastiche, evoca lingue “pavane” antiche e stralunate, foreste da incubo e non eroi come il suo “Nane Oca”, personaggino sublime che ha attraversato tempi e composizioni. Scabia è approdato a Castiglioncello avventurandosi in un allestimento dedicato alla “Fantastica Compagnia Dilettantistico Amatoriale” che mette in scena La commedia della fine del mondo in ben otto atti, per “Dinosauri, Destino, Uccello del Malaugurio e Autore”.
Lui, il poeta, si riserva il Prologo, da imbonitore e sognatore, tratteggia il mondo in cui si ambienta la vicenda, quella “pavante foresta”, in cui si parla naturalmente “pavano antico”, e introduce i vari Dini protagonisti della “immane tragedia”. Insomma, si capisce subito, sin dal titolo di questa opera (tratta dal libro Einaudi Il lato oscuro di Nane Oca) che dietro i rutilanti e divertenti protagonisti vi è una sorniona satira, un affresco allegorico, un morality play dadaista che porta in scena dinosauri umanissimi, piccolo branco alle prese con la fine del loro mondo. Il meteorite Destino, attratto dalla terra, va dritto nel suo compito, non devia la traiettoria, nonostante le domande dell’autore – il doppio del vero autore Scabia – e al popolo dei Dini, così grandi e belli, non resta altro che prepararsi alla fine. Loro, meravigliosi e potenti, non hanno strumenti per arrestare l’inesorabile sasso: proveranno, sì, varie soluzioni, ma invano. Tra tante chiacchiere, molte marce, qualche balletto, canzoni e ritornelli, escogitano l’unica soluzione possibile: nascondersi sotto un mare di merda, una montagna di cacca che dovrebbe – nelle intenzioni dinosauresche – attutire l’urto.
È un gioco, è tutto un gioco, ma anche un serio monito, l’invito a pensare a un mondo più pulito e vivibile minacciato invece da catastrofi ambientali che sembrano ineluttabili come quel meteorite che schiantò i dinosauri. Insomma, una favola per adulti, nell’incanto di un prestigiatore delle parole. Magari non tutto funziona al meglio, ci sono vuoti e ridondanze, ma che importa? Ché anzi una certa posticcia goffaggine fa parte del gioco. I membri della Fantastica Compagnia (non professionisti locali), con i curiosi e buffi abiti dinosaureschi (ideati da Lia Morandini e realizzati da Carla Sassetti) si divertono tantissimo, il pubblico con loro. La festa si compie. È il gioco eterno del teatro, “facciamo che io ero”, imperfetto fabulativo della vita, il sogno ininterrotto di chi trova ancora magia nella realtà. Magia semplice, umile, che con Scabia – e solo grazie a lui – può mutarsi in donchisciottesca frenesia di vita e di sogno,
Non è un caso che proprio su Don Chisciotte si chiuda il secondo spettacolo di cui vorrei parlare: Tre stanze – i Sovversivi, della compagnia Garbuggino/Ventriglia. È un viaggio a tappe in sogni e incubi, in racconti appena accennati o dilatati, tenuti assieme dalla maestria interpretativa del duo. Gaetano Ventriglia è un attore di straordinaria essenzialità, presenza garbata, delicata e consapevole arte; con lui, astratta e concretissima presenza, è Silvia Garbuggino, viso candido e febbrile, corpo forte e elastico, sulfurea risposta alle derive liriche di Ventriglia. Nelle stanze del castello Pasquini, il pubblico incontra una evocazione di Ofelia e di un Amleto in assenza; poi insegue deliri dostoevskiani di straordinaria forza e cupa amarezza. Ma tutto è detto con un filo di voce, evocato quasi stancamente, con una delicatezza quasi a impedire il risveglio da quei racconti-sogni che Garbuggino/Ventriglia sapientemente evocano in una grande discrezione, con un contegno antico e popolare, con un candore – verrebbe da dire – che è tenera condivisione.
Lei, avvolgente e astrale, sul filo di parole trattenute, sa incantare con delicata lievità. Lui, prima di mutarsi in un figura da barbone vecchio (o la vecchia strappata da Delitto e Castigo), ci tiene per mano in un flusso poetico notturno nel contrappunto drammatico della chitarra suonata dal vivo da Gabrio Baldacci o da cadute e gesti ossessivi della Garbuggino. Allora lo spettatore è come ipnotizzato, ammaliato, da queste evocazioni che si insinuano sottopelle, nell’onirico mondo di tutti e ciascuno. Il flusso lieve delle parole strappa tempo alla realtà, muta quelle stanze in labirintici e astratti spazi in cui perdersi, fino al risveglio brusco e animalesco delle greggi inseguite da Don Chisciotte: belati, urla, grida, gesti, tutto è battaglia in quei sogni. Le pecore del Cavaliere della Mancha sono i refrattari segni di una realtà che torna a imporsi, che ci riporta al mondo e nel mondo. Lui, donchisciottescamente continua a sognare. È il teatro, sembrano volerci dire Garbuggino Ventriglia, è il sogno che si fa vita.
A chiudere questa trilogia poetica, segnalo con grandissimo piacere il ritorno in scena di Marcello Sambati. Non che se ne sia mai allontanato, dal palcoscenico, questo maestro appartato che a lungo è stato – ed è – uno dei riferimenti della ricerca teatrale romana e non solo. Sambati ha dalla sua una storia lunga e testarda, mai compromessa da mode o da interessi, anzi rigorosa e coerente (ma senza retoriche rivendicazioni: semplicemente, con l’essere, lui, sempre se stesso. Poeta raffinato e discreto, soggetto e oggetto scenico di una ricerca che ha saputo fiorire e germogliare in scritture, allestimenti, e discendenze vive e dirette tra cui penso di poter ascrivere, serenamente, anche il percorso di Daria Deflorian). Insomma, un maestro che non vuole essere tale, che anzi si schernisce, nella sua fiera timidezza che è l’eleganza di una tradizione antica. Forse non è un caso che l’incipit del suo folgorante Atlante dell’attore solitario, mi abbia catapultato, in un viaggio temporale, all’inizio di Past Eve and Adam’s, l’ultimo spettacolo di Leo De Berardinis. La voce profonda e calda, il verso poetico, la magnetica presenza di un corpo-strumento musicale, rimandano – senza manierismi – al magistero di Leo. Per Sambati, con l’assistenza alla regia di Elena Rosa, questo poema, breve e febbrile, trova spazio in uno scarno allestimento: una piccola pedana in legno in terra, una sedia in ferro perennemente instabile ma solidissima.
E, sopra, il corpo segnato dal tempo di Marcello Sambati che usando solo due fari, sa evocare atmosfere caravaggesche, schieleriane o addirittura alla Francis Bacon. Corpo trattenuto, e poi esplosivo “direttore” con tanto di bacchetta di fronte a Stravinskij, corpo sospeso di una marionetta che è il tema del primo capitolo di questo Atlante dell’attore solitario. «Accartocciata / intorno alle sue ossa /sogna i movimenti della carne viva / nelle pose disperate, nei disegni / scomposti, labili cuciture di fantasma / cerca l’anima, ma l’anima sfugge…»: si apre così, il poema, che si dipana poi in vertigini verbali e in affondi nell’oscuro malessere di un «legno tarlato», che non è solo della marionetta ma metafora di esistenza umana. Bellissimo, nella sua semplicità, potente nella sua sapienza attorale, struggente nel suo ostinato «cercare parole perdonate / parole lievi o in mancamento / che salvino il dire e l’ascoltare».
A Castiglioncello, al Festival Inequilibrio, lo sanno. Ecco dove risiede il teatro, almeno a me è parso così: nell’ombra della ferita e della parola che feroce, ancora colpisce chi ascolta.
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