Teatro
Teatro e identità al centro della Biennale 2015
Identità: che parola difficile. È una di quelle classiche metanarrazioni esemplificative del postmoderno, quelle parole-mondo che inglobano tutto e il contrario.
In nome dell’identità (vera o presunta) si uccide, si combatte, ci si impone all’Altro. Eppure mai come oggi, identità appare un termine debole, fragile, evanescente, quanto meno di complessa definizione.
Una delle domande che gira di più, negli spettacoli della Biennale teatro 2015, è proprio “chi sono io”, declinata in tutte le sue possibilità. Dal “Chi è là” dell’Amleto di Shakespeare, sembra siamo passati – non senza fatica – a un “chi è qua”, da chiedersi senza o con lo specchio davanti (come accade per gli interpreti di Oskaras Korsunovas, che del capolavoro scespiriano danno una versione formato camerino d’attore, tutta davanti allo specchio per il trucco).
Dunque, l’indagine si muta in scavo introiettato, in analisi – stanislavskiana? – del sé.
Romeo Castellucci, dal par suo, letteralizza, sublima e fa esplodere lo sguardo interiore, ficcando una telecamera nell’esofago dell’attore Simone Toni nel Giulio Cesare. Pezzi Staccati presentato dentro il chiostro del conservatorio veneziano. Nella carne viva della gola, nella trachea parlante, l’identità si fa (anche) realtà concreta: siamo quella cosa lì, quell’insieme di tessuti che ci tengono al mondo.
Carne debole, si sa, e costantemente in cerca di punti d’appoggio: come è per i personaggi creati da Falk Richter in Never/Forever (con la splendida Ilse Ritter) individui fragili e nevrotici, compulsivamente e ossessivamente attaccati ai social, a caccia di conferme sentimentali e sessuali.
Di identità complesse parla anche Jan Lauwers con la sua Needcompany, nello struggente The blind poet: tra biografismo reale e immaginario, il regista belga tesse una serie di ritratti umani, quadri di un esposizione del sentimento, autonarrazioni comiche e drammatiche, in cui ciascuno si assume la responsabilità di ciò che è e di ciò che è stato. Lo spettacolo, forse tra i migliori dell’artista – quanto meno pari allo storico Isabella’s Room – apre anche ad una robusta prospettiva politica: dall’etica individuale, infatti, può derivare la prospettiva sociale. E il naturale e poetico “melting pot” di Needcompany, così aperto e dialettico, l’incrocio di culture, lingue, tradizioni, diventa terreno di creazione comune, di gioco, di resistenza umanissima alle derive nazionaliste, segregazioniste, razziste. Il meticciato incarnato visibilmente dal gruppo belga e declinato nel sincretismo dei costumi, è dunque la prospettiva narrativa da cui ripartire, non senza (auto)ironia, tra genealogie millenarie e immigrazioni continue, anche per costruire una nuova e diversa Europa, guardando magari alla società multietnica e colta del XI secolo. La “festa” scenica imbandita da Lauwers è al tempo stesso un commovente grido di dolore, di chi si ostina a rivendicare la bellezza della vita: non solo di fronte all’ottusità di tanti, ma anche rispetto alle reali minacce che attaccano, quotidianamente, l’esistenza.
Anche in questo caso, come in Castellucci, la metafora, la poesia dichiara la sua limitatezza nello scontro con il reale: se il laringectomizzato Marcantonio di Dalmazio Masini diventa tragica “controfigura” della retorica shakespeariana, in Lauwers una enorme “cellula cancerogena-mina pronta a esplodere” invade il palcoscenico sul finale e riduce al silenzio i racconti. La realtà è dietro l’angolo, pronta a mandare in fumo i nostri faticosi, disperati, folli, inutili, gratificanti tentativi di darci uno straccio di identità.
Smaccatamente politico è il discorso identitario di Milo Rau, al momento la vera sorpresa di questa Biennale 2015. Con Hate Radio ricostruisce millimetricamente una trasmissione della RTLM, la Radio delle Mille colline, tristemente nota per aver dato argomenti e incoraggiato il genocidio in Rwanda. Lo spettacolo lascia senza fiato: non solo per la drammatica e dolorosissima ricostruzione dei fatti, per le parole dei veri testimoni (riprodotti in video), quanto per la intelligente edizione teatrale. Quello di Milo Rau, classe 1977, è un progetto di teatro-documentario che si colloca appieno nella scia del Büchner di La morte di Danton, poi di Weiss de L’Istruttoria, ma lo aggiorna alla temperie di oggi.
Dunque, il discorso identitario nella dinamica Hutu-Tusti è diventato odio etnico, violenza, massacro, crimine contro l’umanità. Milo Rau lo mostra in tutta la sua evidenza, ne coglie il fermento in stato nascente, sbatte in faccia agli spettatori l’allucinante possibilità del genocidio. È un teatro iperpolitico, quello di Rau, tagliente proprio nel momento in cui costringe lo spettatore a prendere posizione. Non è facile assistere a uno spettacolo come Hate Radio, non è facile ascoltare certe parole: è una spirale che avviluppa sempre più, che lascia senza fiato, che costringe lo spettatore nello scomodo ruolo di testimone. E non si può certo far finta di nulla. Il nuovo teatro politico che si assume le responsabilità delle scelte drammaturgiche, dunque tematiche e sceniche, ma senza retorica, senza dare indicazioni, senza cercare il facile consenso di chi è già d’accordo come ha fatto (e fa) tanto teatro “politico” d’oggi.
Dopo Christoph Marthaler e Thomas Ostermeier, che hanno fatto i conti con l’identità in divenire o in fallimento della borghesia tedesca, sbarca a Venezia anche Antonio Latella, con la sua compagnia Stabile/Mobile, che propone un trittico dedicato ad altrettante scomode personalità. A.H. , in cui investiga la figura di Adolf Hitler e il rapporto dell’uomo con il potere; poi Caro George, che mette in scena Francis Bacon e la tensione tra l’uomo e l’arte, infine l’atteso MA, spettacolo dedicato alla madre di Pier Paolo Pasolini, in cui nodale è il legame filiale.
Ma in questa scintillante edizione della Biennale Teatro c’è ancora posto per altre, articolate, indagini sulla questione identitaria: dalla “paura di non essere” di Fabrice Murgia (Notre peur de n’etre è il titolo dello spettacolo del 32enne regista belga Leone d’argento 2014); all’aspra versione di La signorina Julia di Strindberg virata a scontro di coppia dalla brasiliana Christiane Jatahy, fino al racconto multimediale A house in Asia, un “western teatrale” firmato Agrupaciòn Señor Serrano, che ha al centro la caccia ad un uomo particolare: Osama Bin Laden.
Nella prassi (auto)narrativa, diaristica o meno, si compongono i tasselli del frastagliato puzzle identitario ma, sembrano dirci questi artisti, il problema è ben lungi dall’essere risolto. Slittando continuamente dal piano privato a quello pubblico, la spinosa questione ha respiro urgente, soprattutto in prospettiva europea e internazionale. Nel continuo e ovviamente inarrestabile flusso migratorio, tra quanti proclamano la “purezza” del “noi” e la stigmatizzazione del “loro”, non è più rinviabile trovare modi meno brutalmente semplificativi per affrontare la questione identità. Dobbiamo semmai, sembra dire il teatro, riflettere, suggerire possibilità e domande ulteriori, senza mai – per fortuna – dare risposte all’eterno interrogativo: “chi è là?”
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