Teatro
Teatro digitale, le meraviglie possibili dai cyborg ad Artemisia Gentileschi
E il teatro va. Anche in una stagione piena di insidie e difficoltà come l’attuale, l’arte non disarma ma affina strategie e strumenti, come quelli digitali che chiedono una rinnovata attenzione nei rapporti tra scena e tecnologie. Segnali confortanti in questa direzione arrivano sia da progetti in gestazione che da festival appena conclusi, vedi “Le meraviglie del possibile”, svoltosi con diversi appuntamenti a Cagliari, nei mesi di novembre e dicembre per iniziativa di Kyberteatro con spettacoli presentati in prima assoluta o seconda visione, work in progress incontri e performance che hanno spostato in avanti questo tipo di spettacolarizzazioni. Un fatto importante da leggere come segnale positivo in un momento come l’attuale. La pandemia infatti, con i contagi in crescita è ancora tra noi, così il ricordo della chiusura temporanea dei teatri e il conseguente calo di spettacoli in presenza è ancora vivo e avvertito come una minaccia. Il mondo della scena infatti ha ancora fresche le cicatrici del lockdown di un anno e mezzo fa, allorché attori e registi si interrogavano con ansia riguardo al futuro della professione. In quei frangenti quanto antistoriche e inconsistenti apparvero le polemiche sul teatro digitale. Agitate nel bel mezzo del furore del virus vengono attualmente riproposte qua e là un po’ in sordina: vedi ad esempio al festival degli spettatori di Arezzo a ottobre dove sono spuntate alcune posizioni ammantate di scetticismo riguardo alle potenzialità di una scena digitale.
Arrivano spesso da chi confonde il teatro videoregistrato o in streaming con chi utilizza le nuove tecnologie, dalla realtà virtuale all’intelligenza artificiale. Questo, nonostante ci sia stato chi, in piena chiusura dei teatri, ha sperimentato linguaggi e strumenti compatibili e ausiliari alla messa in scena. Ricucendo nei fatti la trama dei rapporti con una tradizione che in campo internazionale da Bob Wilson giunge a Robert Lepage mentre in Italia ha visto protagonisti come Falso Movimento e Magazzini, artisti visionari come il compianto Giacomo Verde. Adesso chi punta sulle possibilità e fruibilità di software e mezzi lo fa grazie ad un approccio fatto di understatement e curiosità. Superando incomprensibili ritardi anche di una parte della critica. Come è accaduto in parte anche al Premio Ubu, _ la manifestazione che indica ogni anno i migliori spettacoli della stagione _, dove questo tipo di nuovi fermenti non ha ricevuto la giusta considerazione, né si sono visti confronti e riflessioni dedicati al tema.
Sgombriamo subito il campo a chi crede che rassegne di teatro digitale siano solamente una sequenza di proiezioni su schermi video, allestimenti di scene fredde e iper tecnologiche, un luogo indicato soprattutto ai geek o appassionati di computer e informatica. Niente di tutto ciò. Non ci sono solo hardware e software innovativi ma anche e soprattutto della buona, cara vecchia teatralità. E si finisce pure per ricevere anche qualche sorpresa.
Come accade infatti in “Le meraviglie del possibile” (il titolo è ripreso da quello di un’antologia di culto di fantascienza pubblicata in Italia da Einaudi nel 1959 e curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero, consistente in 29 racconti scritti da autori, quali il precursore H.G.Wells, Fredric Brown, Ray Bradbury, Isaac Asimov e tra gli altri anche Philip K. Dick). Una rassegna dedicata al rapporto tra tecnologia e teatro e permeata di uno spirito filosofico post Donna Haraway, la studiosa americana autrice di “Manifesto Cyborg” e “Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto” (2019). Uno spazio dedicato cioè a cyborg e ciberpunk tranne che ci si può imbattere d’amblais anche su un attore vero. Nel senso autentico del termine. Un attore fatto di carne ed ossa, con le posture e l’esprit recitante giusto per un artista capace di calcare la scena dando gli accenti giusti a un personaggio complesso e ricco di sfumature. L’attore è Riccardo Lai protagonista unico di “Fiori per”, allestimento in prima nazionale curato dalla regista e drammaturga di Kyberteatro, Nina Ilaria Zedda, direttrice artistica di questo festival nato nel 2014, primo esempio a livello nazionale di rassegna tematica dedicata all’interazione tra teatro, arte e nuove tecnologie. L’allestimento – regia tecnica e tecnologica di Marco Quondamatteo con l’ausilio del visual artist Simone Murtas e il tecnico audio Elvio Corona – riprende liberamente un’opera di culto come “Fiori per Algernon” scritto nel 1959 dall’americano Daniel Keyes, prima come racconto e in seguito ampliato come romanzo nel 1966. Il libro è l’appassionata vicenda di un uomo, il trentunenne Charlie Gordon, disabile mentale che “voleva essere soltanto come gli altri”. Scelto per un esperimento scientifico finalizzato a fornirgli un quoziente intellettivo molto alto Charlie vedrà la sua storia intrecciarsi con quella di un’altra cavia, il topolino Algernon che ha subito lo stesso tipo di intervento al quale è destinato il giovane disabile. Entrambi finiranno vittime di quel labirinto nel quale hanno appreso ad uscire una volta diventati intelligenti. Diventato un genio Charlie è testimone impotente dello sdoppiamento della sua stessa personalità.
Il giovane del “prima” e l’uomo del “dopo”. In questo “vede”lucidamente anche la propria fine segnata come un congegno ad orologeria. Ed è attorno a questo nocciolo che la regista ha costruito il suo dramma. Charlie rivede se stesso vittima delle angherie della madre Rose che non vuole riconoscere la disabilità del figlio e lo perseguita, preferendogli la sorella Norma a sua volta piccola tiranna del fratello, mentre il padre Matt succube della moglie cerca suo malgrado di salvare il figlio per consegnarlo ad un istituto per disabili affidandolo al suo amico proprietario di una panetteria che nell’allestimento teatrale è diventato un campo da tennis dove Charlie presta la sua opera di inserviente. “Fiori per” sondando la zona grigia dei ricordi e della memoria, mette a nudo i limiti intercorrenti tra ricerca scientifica e problemi etici, scandaglia la solitudine contemporanea di chi ogni giorno corre per raggiungere quei successi effimeri che scompaiono ad un battito di ciglia. Il protagonista è così un eroe senza fortuna di un destino più grande di lui. Riccardo Lai interpreta con sapienza un personaggio scisso in due, via via tormentato dal contatto con una realtà sfuggente e che non gli appartiene. Schiavo di nuove e incredibili scoperte che accrescono il genio ma contemporaneamente lo allontanano dagli altri e testimone, al tempo stesso di un progressivo deterioramento mentale. Dopo una irresistibile ascesa rovinerà in modo burrascoso in una rapida regressione che lo ricondurrà allo stato iniziale. Un game over disperato e senza via di scampo. L’attore si muove solitario all’interno di scenografie e spazi virtuali che indicano anche stati mentali. Tutto questo avviene con un uso non invasivo della tecnologia. Le scene si materializzano per incanto delineate da agili pennellate di colore. Linee e disegni per un’architettura di immagini che ispira visioni folgoranti da un incombente e grigio labirinto alle gocce sospese nel cielo fino al moltiplicarsi di decine di palline gialle da tennis che punteggiano lo spazio scuro come stelle di un firmamento pop. Quadri che suggeriscono nodi filosofici da sciogliere. Come il tema della caverna di Platone che lo scrittore cita a inizio del suo libro riprendendolo da “Repubblica” e che nell’allestimento di Kyberteatro è uno dei suoi archetipi strutturali.
Dice Platone infatti che chiunque “abbia buon senso ricorderà che le confusioni degli occhi sono di due sorte e derivano da due cause: o perché si proviene dalla luce o perché si è diretti nella luce, il che è valido tanto per l’occhio della mente quanto per quelli del corpo; e chi ricordi questo, quando vede qualcuno la cui visione sia perplessa e debole, non sarà troppo incline a ridere; per prima cosa domanderà se l’anima di quell’uomo sia emersa dalla vita più luminosa e non possa vedere perché non è assuefatta all’oscurità, oppure se, essendo passata dalle tenebre al giorno, sia abbacinata da un eccesso di luce”. Andata e ritorno: dal buio alla luce e viceversa per scoprire e ri/scoprire l’ampiezza del male e il bene fugace. Leggere e scoprire la differenza tra l’atto del conoscere, come esperienza vissuta nel quotidiano e il sapere, frutto invece di studio e ricerca. Attorno a questi due concetti è costruito questo viaggio fulmineo della intelligenza che Charlie annota in un diario quasi quotidiano dove riporta azioni ed eventi tra luce e oscurità e che, parallelamente ai dubbi di codesto novello Frankestein voluto dalla scienza e modellato puntualmente da Riccardo Lai, annota gli stessi del nostro presente. Interrogativi ben presenti sin dall’inizio di questa messa in scena che posiziona una lente di ingrandimento sulle relazioni che regolano scienza e realtà attivando attimi di luce alternati a black out che danno corpo a inquietanti interrogativi sulla nostra stessa esistenza.
E a proposito di corpo, declinato nell’affascinante e futuribile armatura dei cyborg prende il suo spazio dentro il festival, e in modo prepotente, con due diversi appuntamenti: con il collettivo femminile AjaRiot nato tra Torino e Biella nel 2014 e con il ricercatore di nuovi linguaggi Marco Donnaruma. “Dakin (Suite)” è la performance con l’utilizzo di “motion capture”, una tuta che aderisce come seconda pelle ad una performer in scena, punto di snodo della interazione tra corpo in movimento e relative proiezioni virtuali. A scavare nella ricerca di nuove possibili identità sono Ester Fogliano, Giulia Rabozzi, motion designer e Isadora Pei, responsabile della regia (i testi sono di Emanuele Policante e le musiche originali di Carlo Valsesia). Il trio occupa il palcoscenico trasformandolo in un laboratorio aperto, invaso da macchine e computer, centraline di luci e suoni che sembrano dare concretezza di immagine a quanto scrive Donna Haraway nel celebre “Manifesto Cyborg”, opera di riferimento e forza del nuovo movimento femminista e delle poetiche cyborg: “La macchina siamo noi, i nostri processi, un aspetto della nostra incarnazione”. In diretta inizia un corpo a corpo tra immagine fisica e in 3D, movimenti nello spazio e repliche virtuali. Da un grande schermo al centro della palcoscenico, si animano e prendono vita proiezioni e intrecciarsi del doppio reale/virtuale. La tuta restituisce e amplifica infatti i movimenti che vengono replicati in modo virtuale da un avatar in una incessante ed esaltante restituzione crossmediale. Vengono evocati scenari distopici mentre si sondano le possibilità di interazione tra Intelligenza artificiale e pratiche artistiche quotidiane. Scorrono sequenze di storia reale, fotografie di lotte per l’emancipazione femminile e visioni futuribili in cui l’azione di un “biocyborg” può inserire e costruire alternative utili alla convivenza in una società più giusta. I movimenti della performer tra danza e teatro segnano i punti precisi in cui passa la linea di un confronto continuo e non minimale con la tecnologia.
Tra corpo reale e virtuale “Dakin” restituisce così una visione di insieme che è quella di un flusso non interrotto di idee in movimento, uno spazio teatrale inedito che impone allo spettatore alta concentrazione sull’orlo di un inedito coinvolgimento emozionale. In una bella intervista rilasciata a Giulia Sangiorgi della webzine “Theatron” la regista Isadora Pei a proposito dell’incontro tra teatro e IA (intelligenza artificiale) ricorda come “spesso torna l’idea delle macchine che si ribellano ai loro creatori, dal “Frankenstein” di Mary Shelley alla “Superintelligence” di Nick Bostrom, filosofo dell’università di Oxford, che parla dei pericoli legati all’IA avanzata. Noi – dice la regista di AjaRiot – ci proponiamo di “cercarne nuove visioni e figurazioni che portino a trasformazioni e controvalori positivi”. Segue la citazione d’obbligo della studiosa Rosi Braidotti: “cosa conta per umano in questo mondo post-umano? Quale visione del sé diventa operativa nel mondo dell’informatica del dominio? Come ripensare l’unità del soggetto umano, senza fare riferimento ai credo umanistici, senza opposizioni dualistiche, collegando invece mente e corpo in un nuovo flusso di sé?”.
Ed è scavando proprio in questa linea tra umano e non umano che il collettivo AjaRiot riesce a stupire in “Dakin” per la potenza degli atti fisici e teatrali che si intrecciano con quelli “tecnologici” e costruiscono nei fatti una nuova sensibilità teatrale. Dedicato a chi ha la memoria corta o non ne ha alcuna: questo allestimento si è nutrito di alcune residenze. Una è stata particolarmente significativa, ed è quella tenutasi in Danimarca ad Hostelbro presso il Nordisk Teaterlaboratorium, cioè la casa dell’Odin Teatret che ha voluto coprodurre lo spettacolo. Tre mesi di residenza in cui il collettivo piemontese ha mostrato il lavoro ricevendo “feedback da Eugenio Barba, dalle attrici e attori dell’Odin Teatret”. Quanto sfocate appaiono così quelle lontane contrapposizioni sorte alla fine degli anni Ottanta sulla postmodernità a teatro…
Introduce a mondi e scenari in formazione la coinvolgente e per certi versi stupefacente performance “Corpus Nil”, per corpo umano e macchina artificialmente intelligente dell’artista, presentata dal regista e ricercatore napoletano Marco Donnaruma da tempo residente a Berlino, collaboratore e ricercatore presso diverse università e assai popolare in ambito internazionale.
Il corpo che in scena si offre alla vista_ e di cui si fa fatica a ricostruirne l’intera visione _ è “contaminato da algoritmi”. Emerge solitario in un palcoscenico avvolto completamente dal buio. E’ solo la porzione di un corpo fisico fatto di muscoli e pelle solcati da un ordito di tatuaggi blu cobalto ad emergere. E’ un reticolo di segni, quasi geroglifici senza tempo, che si muovono, sussultano appena, con il respiro e il movimento poco percettibile scatenato da una serie di sensori biofisici che, attaccati agli arti di Donnarumma, catturano le tensioni elettriche e i suoni del suo corpo alimentando la macchina. A questo punto per un complicato ed elaborato sistema di algoritmi, ogni movimento, anche quelli minimi, instaura un gioco di suoni e luci diretto dalla macchina intelligente. Una sinestesia tra corpo e macchina, con uno scambio reciproco di segnali che trasformano quel corpo quasi amorfo in una inedita creatura aliena. Le luci e i suoni, la visione del corpo che si muove per scarti minimi modificano così la fruizione della performance in un evento di visione radicale. “Corpus Nil” , esempio di raffinata body art, riesce a scuotere gli animi mostrando orizzonti sconosciuti. Una rivelazione ulteriore sulle potenzialità dell’universo cyborg dietro il quale c’è un sapere ricognitivo inedito attorno alla realtà circostante che le tecnologie e l’uomo possono ridefinire e rappresentare in modo postumano.
Contrappunto preciso alla esibizione di Donnaruma è stato, a seguire, lo speech incalzante di Carlo Infante, changemaker, progettista culturale e docente freelance di Performing media nonché fondatore della piattaforma Urban Experience che, prima di confrontarsi pubblicamente con lo stesso performer, ha dedicato il suo concept talk a “I presagi di Artaud”, evocazione e ricognizione sull’opera e la figura di un grande precursore teorico del rapporto tra natura e artificialità. Nella sua appassionata ricostruzione Infante ha tracciato in modo netto la linea che partendo da Artaud raggiunge molta scena contemporanea dal Living Theatre per arrivare ai catalani Fura dels Baus, Antunez e Stelarc.
Di assoluto godimento ludico la proposta dei francesi del Tamanoir Studio di Parigi che hanno proposto una esperienza di teatro immersivo e interattivo per gruppi di tre spettatori alla volta nella divertente azione teatrale “Call me Calamity”. Siamo nel selvaggio West popolato di banditi e gamblers, di saloon e praterie. A guidare gli spettatori muniti di casco virtuale è l’attrice Margherita Bergamo Meneghini nei panni della leggendaria Calamity Jane. Si vivono in simultanea momenti teatrali in cui volta per volta si costruiscono mini pièce sul filo dell’improvvisazione. L’azione è coinvolgente e gli spettatori scoprono il gusto di essere attori per una sera vestendo i panni di uomini e donne del Wild West. L’attrice è brava nell’assecondare le strategie, anche le più imprevedibili, escogitate dai “nuovi attori”, conducendo ogni volta in porto sicuro l’azione ambientata in scenari virtuali che ricostruiscono un vecchio villaggio.
Altri eventi e spettacoli nel palinsesto de “Le meraviglie del possibile”. Il teatro Alkestis e il Circo Calumet hanno presentato “La crociata dei senza fede” con Andrea Meloni, autore della regia e dei testi assieme a Sabrina Mascia, ultima tappa di un percorso di studio e sperimentazione ispirato al Kabarett tedesco della repubblica di Weimar che denunciava la situazione politica e sociale della Germania degli anni Venti e Trenta. Al centro una coppia di girovaghi intolleranti e radicalizzati che prendono di mira il mondo occidentale.
Costretto ad andare in streaming per via delle restrizioni antiCovid, il portoghese Miguel Azguime e l’ensemble Miso Music, in “Salt Itinerary” riflette sul rapporto tra arte e follia esaminando il significato delle parole in diverse lingue. Solo in una stanza inizialmente concentrato a scrivere su un foglio, l’attore alterna in progress potenti vocalizzi contrappuntati da musica contemporanea. E’ un tourbillon di suoni e voci, musica e teatralità che grazie alla tecnologia digitale prende un ritmo parossistico in cui i confini tra diversi linguaggi e scritture vengono superati per mettere in scena una nuova opera elettroacustica.
Ultimo appuntamento di questo festival che ha saputo mixare tecnologie e saperi teatrali è un’altra sorpresa. Non si tratta ancora di un vero spettacolo, ma di un work in progress dedicato alla figura di una grande artista, femminista ante litteram se si vuole. E’ Artemisia Gentileschi ribelle fuori schema in un secolo particolarmente importante per l’arte in genere come fu il Seicento. L’allestimento intitolato “La mano di Artemisia” viene mostrato al termine di una residenza svoltasi proprio a Cagliari, la seconda di una serie di quattro (la prima si è tenuta a Palermo) e vede assieme la compagnia fondata da Sabino Civilleri e Manuela LoSicco – entrambi provenienti dalle file della compagnia SudCostaOccidentale di Emma Dante (Manuela LoSicco è stata votata questo anno come miglior attrice al Premio Ubu)- e i tipi di Kyberteatro che ne hanno curato la parte tecnologica. La performance mostrata in Sardegna fa parte di un progetto transdisciplinare che vede assieme diversi partners: il Dams di Palermo, il laboratorio multimediale “Michele Mancini”, Sole luna festival, Settimana della cultura e Fondazione Mertz di Torino. Drammaturgia e regia di Sabino Civilleri, regia creativa digitale Nina Ilaria Zedda e Marco Quondamattteo autore anche del disegno luci, Andrea Balzola, drammaturgia multimediale, visual Simone Murtas ed Elvio Corona responsabile audio. Chi era Artemisia Gentileschi? Una donna, un’artista? Civilleri risponde che “Artemisia era donna prima di tutto e il suo corpo, che emerge dalla pittura, ci chiede un atto artistico capace di restituire la profonda essenza del suo essere donna. Nella sua pittura Artemisia è modello, superficie pittorica e metafora. È evidente un processo di identificazione che procede oltre la semplice osmosi.
Il corpo, campo di battaglia donato allo sguardo esterno è la tela stessa, su cui la luce si adagia svelando colore e anatomia. In ogni elemento della composizione è possibile intuire un senso più profondo del dolore e delle passioni, a cui non si può accedere semplicemente considerando la stretta relazione tra i temi pittorici e la vita dell’artista”. Per raccontare questo straordinario personaggio Civilleri ha immaginato l’alternarsi di spazi reali e virtuali e uno dedicato alla “psiche”. In quello virtuale in modo particolare, presentato a Cagliari, per il regista la luce doveva scrivere la drammaturgia. “La luce proiettata dal video riproduce su piani visivi differenti i layers della composizione pittorica, avvolgendo lo spettatore nella visione profonda della pittura di Artemisia. Nel passaggio dallo spazio virtuale a quello della psiche prenderemo in prestito una tecnica molto cara alla pittrice: la prospettiva lineare”. Così Civilleri ha indicato il punto di chiusura e conversione tra reale e virtuale in quello che secondo il teatrante stesso è “lo spazio più profondo dell’opera di Artemisia dove l’atto è infinito di senso e divino perché silenzioso e privo di commento. Episodi di luce, corpi e oggetti che stanno prima della rappresentazione, prima della materia, isolati in un mondo empirico”. Figlia d’arte, il padre Orazio era un famoso pittore di origine pisana, amico di Caravaggio, Artemisia Gentileschi proprio nella bottega paterna a Roma, dove era nata nel 1593, imparò i segreti dell’arte. Aveva diciassette anni quanto un pittore, collaboratore del padre, Agostino Tassi, la violentò, promettendo successivamente alla giovane donna le nozze riparatrici. Promessa mai mantenuta per un anno. Contro di lui (in realtà già maritato) Orazio Gentileschi si appella in giudizio accusandolo di aver stuprato la figlia. Tassi venne condannato per cinque anni all’esilio. Artemisia sposa nel 1612 il pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi da cui ebbe quattro figli. Trasferitasi a Firenze, Artemisia si mise a studiare fino a trasformarsi in una intellettuale frequentando la cerchia di Cosimo II e intrattenendo una corrispondenza epistolare con Galileo Galilei. Ebbe una relazione importante con il nobile fiorentino Francesco Maria Maringhi. Rientrata per lavoro a Roma si trasferisce nel 1630 a Napoli allora una delle più importanti città dell’epoca dove ricevette importanti committenze tra cui anche per il re di Spagna Filippo IV. Sette anni dopo è a Londra dove riprese a collaborare con il padre fino alla scomparsa di costui (1639). Tornò a quel punto a Napoli dove rimase fino alla sua morte avvenuta nel 1652, oberata da problemi economici. Nella sua arte dai richiami caravaggeschi ma dotati di spiccata originalità si rintracciano capolavori di pregio tra realismo e forte sensualità. Vedi opere come l’Allegoria dell’inclinazione, la conversione di Maddalena, un’Annunciazione, Susanna e i vecchioni, Giuditta decapita Oloferne etc…
Artemisia Gentileschi coincide con la pittura stessa, coltivando il segreto miracoloso della creazione. Non a caso dipinge a Londra, tra il 1738 e il 1639 un’opera intitolata “Autoritratto in veste di Pittura” in cui ritrae se stessa con il braccio teso e la mano con un pennello nell’atto di dipingere una tela invisibile. Questo coincidere dell’artista con la pittura è una delle chiavi di lettura della performance mostrata al festival di Cagliari. Un’anteprima questa de “La mano di Artemisia” che merita ampiamente di essere vista e scoperta, magari prodotta da chi è sensibile ai temi dell’arte e alla sua libertà di espressione.
Sulla scena le performer Lila Follia Rongione e Sara Perra rileggono Artemisia confrontandosi fino all’estremo della intimità. Al centro della scena uno specchio che è anche una sorta di Stargate dove si entra per trasformarsi virtualmente, cancellare e trasformare la realtà in materia poetica. Schermo per proiettare fotogrammi di attimi di vita vissuta. Artemisia (Lila Follia Rongione) che impasta il colore che finirà sulla tela. Mentre al lato opposto della stessa scena il corpo dell’altra Artemisia (Sara Perra) in figure da danza butoh rivive il dramma dello stupro, scosso da tremiti mentre la voce esce strozzata per la rabbia in corpo. Torna il doppio. La donna oggetto di violenza, l’artista ribelle, il genio capace di trasferire sulla tela e suscitare sgomento, senso del vuoto. L’azione è incalzante e tutto sulla scena sembra rimettersi in gioco: i movimenti delle due performer compiono drammatiche evoluzioni, mentre la scena si illumina con colori accesi. Gesti di ribellione definitiva, dentro una tavolozza impazzita che trasmette forza e genera sgomento, suggerisce passione e la bellezza dei gesti di chi compone l’arte. Nel tumulto della poesia indica l’infinito.
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