Teatro
Teatro: ancora domande sul tempo presente
Adesso non è che vogliamo essere sempre filofrancesi, ma se è vera la metà delle cose che Emmanuel Macron ha annunciato come “Piano per la Cultura”, noi – noi italiani orgogliosamente patriottici che “tutti insieme rilanciamo il Paese”, come recita lo slogan – dovremmo un po’ vergognarci.
L’idea del presidente francese è facilmente condivisibile: per ripartire serve la cultura. Insisto sugli stessi argomenti, chiedo venia. Ma ieri, per una importante iniziativa di Collettivo Natasha (di cui parlerò prossimamente), sono entrato un attimo al Teatro Vascello di Roma: vuoto e bellissimo. È stato emozionante. E sono tornate subito tutte quelle domande che non mi stanco di porre. Ma che mi sembrano pressanti e quanto mai necessarie.
Se in Francia il governo prende posizione distintamente, qua, anche tra noi critici, ci preoccupiamo di streaming e (anche giustamente) di turismo, rischiando di dimenticare come far vivere non solo il “patrimonio”, l’eterno patrimonio che il passato ci ha lasciato in dono, ma anche la produzione, l’innovazione, la progettualità culturale: dunque l’essenzialità di una azione che dal presente guardi al futuro.
Tappiamo alla meglio i buchi con una manciata di milioni per prosa, danza, lirica, cinema. Poi si vedrà.
E gli “invisibili”?
Questa chiusura ha portato ala luce quello che molti non volevano vedere. Una filiera di professionisti che vive alle soglie di povertà. Chi sono gli artisti oggi? Che fanno? Dove e come sopravvivono in un mondo del lavoro senza lavoro? A chi parlano? Chi li rappresenta? Chi fa sentire la loro voce? Chi li ascolta?
C’è un po’ di fermento, sindacale, di classe: nel deserto del presente, si stanno mobilitando – in modo rissoso, diviso, faticoso – fasce intere di popolazione italiana che vive e fa vivere la nostra cultura, la nostra arte, il nostro teatro. Sottopagati, sfruttati, dimenticati eppure sempre, quando si può, in scena.
Ne avete visti un po’ in una recentissima campagna social: leggono “L’Infinito” di Leopardi senza farsi sentire, a volume zero, tanto nessuno li ascolta. Anche l’Associazione CRESCO, che riunisce oltre 150 soggetti della scena contemporanea, ha appena mandato una lettera al ministro Dario Franceschini, non solo riflettendo sul necessario “senso di comunità”, ma anche rivendicando maggiore chiarezza sui tempi e le modalità della possibile apertura dei teatri, soprattutto pensando alle sale più piccole, quelle al di sotto dei 200 posti.
Nel frattempo, si discute tanto di messe e di calcio: riparte la Serie A? Chi marca Lukaku a due metri di distanza? Si allenano? Dove e come? Se dovesse ripartire il “campionato più bello del mondo”, perché non dovrebbe ripartire “l’Opera più bella del mondo”?
Intanto continuano ad arrivare comunicati che mestamente formalizzano le chiusure o gli slittamenti dei festival. Sarà una estate vuota, senza teatro?
E invece, se tutto va bene, avremo un settembre con 12 spettacoli al giorno, magari replicati due volte. Grande confusione sotto il cielo terso di questa primavera. Chi farà cosa? All’aperto? Al chiuso? E intanto quegli “invisibili” che fine fanno? Di che campano?
Mah.
Allora, restiamo in attesa di capire tre diversi ordini di problemi.
Il primo, collettivo, nazionale, è il piano culturale-artistico nazionale. Quale il senso del teatro oggi (e domani) in Italia, quale il valore che vogliamo dare alla “produzione” – o direi meglio all’attività, che non per forza dobbiamo essere imprenditori – culturale in Italia. Quale identità cerchiamo e favoriamo con l’azione artistica, poetica, musicale, teatrale? In definitiva, che idea di Paese progettiamo? Un’idea che vada oltre quel patriottismo da balcone che appiattisce il riso senza lattosio all’orgoglio patrio, che disegni il futuro e la società per le giovani generazioni, totalmente rimosse e dimenticate, e che stanno patendo la distanza sociale e le chiusure – le scuole, gli allenamenti, le università – più di chiunque altro.
Che ne è e che ne sarà del teatro-scuola? Dell’importante settore del teatro-ragazzi, il teatro per l’infanzia e la gioventù e, in questa prospettiva, di tutte le forme, vicine al volontariato e al terzo settore, di teatro sociale? Che ne è di quegli artisti che hanno scelto di lavorare e confrontarsi con il disagio individuale o collettivo, con la malattia, con i minori, con i meno tutelati, con gli immigrati? Insomma, che teatro avremo da qui a cinque anni? E dunque che società avremo?
Il secondo ordine di problemi è professionale, lavorativo, economico, direi strutturale. È possibile avere, in breve tempo, un progetto di riforma di settore che tenga conto di quanto detto sopra e che scardini, o ridimensioni, l’affanno produttivistico, economico, gestionale, meno quantitativo e più qualitativo di queste ultime stagioni?
Meno alzate di sipario e un po’ più di senso? Non dico una “Legge sul Teatro”, che oramai sono cinquanta anni che aspettiamo, ma almeno dei Decreti un po’ più “umani”, attenti alla qualità e al ruolo civile, sarebbero opportuni. Chiediamo troppo?
Infine, terzo e ultimo punto, la questione brutalmente economica. Siamo in piena recessione, in crisi economica strutturale. E forse, proprio per questo, toccherà seguire Macron e Angela Merkel, e investire realmente in cultura (e turismo, d’accordo), con finanziamenti seri. Il Fus, Fondo Unico dello Spettacolo, allo stato attuale, condannerà sempre il teatro e i teatranti a una guerra tra poveri. Raddoppiare il Fus, fare in modo che il settore viva. Altrimenti la coperta sarà sempre corta. Come il fiato, come lo sguardo, come il futuro.
(nella foto di copertina: Il teatro Vascello di Roma, visitato ieri. La foto è di Dario Aggioli)
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