Teatro

“Colpi di scena” a Forlì: il teatro ha visto Giorgia con 5 anni di anticipo

12 Ottobre 2023

Forlì, c’era anche Giorgia Meloni a “Colpi di Scena”. Sì, la premier d’Italia, interpretata in modo perfetto in una caricatura frutto di un meticoloso lavoro di studio del dinamico collettivo campano BEstand che ha ricucito con cura le tappe della conquista al potere della bionda dirigente del partito figlio di Alleanza Nazionale, a sua volta erede di quello post fascista della fiamma, il Msi. Sta nello spettacolo “Dov’è la Vittoria” , presentato nella intensa quattro giorni svoltasi giorni fa a Forlì per iniziativa dell‘Accademia Perduta (produzione Teatro di Napoli e Casa del Contemporaneo). L’inizio è da sobbalzo. In controluce, da uno schermo, emerge una silhouette femminile: minigonna e capelli lunghi. La voce -praticamente identica a quella della Giorgia nazionale – è dell’attrice Martina Carpino, nel ruolo della protagonista, Vittoria Benincasa, giovane di destra in rapida ascesa. Ovviamente è un alias, simile all’originale in un modo straordinario. Martina Carpino appare copia conforme della Giorgia nazionale di cui legge a ricalco tic, posture e accento laziale. Tutto simile, tranne il colore dei capelli che è castano. In un’ora e mezzo va in onda la parabola della ragazza di periferia che nei gruppetti di fasci duri e puri inizierà a fare politica, utilizzando le armi della demagogia. Poi un giorno arriva l’incontro con il “presidente” di Arcore che la vorrà nel suo governo e il gioco è fatto. Da allora è una corsa che cambierà il volto e l’anima di quella ragazza di borgata per diventare una leader astuta e determinata, capace di guidare con polso di ferro la sua truppa. Arrivano così il matrimonio e la conquista del Palazzo, infine le insegne di Presidente del Consiglio. La macchina gira senza intoppi, con una interpretazione pulita e senza sbavature degli attori: su tutti naturalmente Martina Carpino sostenuta adeguatamente da Luigi Bignone e Antonio Elia, mentre la regia concreta e senza fronzoli è di Giuseppe Maria Martino. Da vedere assolutamente.

L’attrice Martina Carpino nei panni di Vittoria Benincasa, giovane di destra che scala il potere e diventa premier d’Italia

Da non perdere anche perché parla del nostro tempo, quasi una rarità di questi giorni. Qualcuno probabilmente si chiederà: “ma a che serve oggi uno spettacolo del genere?” solamente a “rileggere il nostro presente, una storia che tutti, o una buona parte, conosce già?”. Forse. Ma il fatto è che non stiamo parlando di uno spettacolo realizzato in questi ultimi mesi di “melonismo” straripante, bensì di un po’ di tempo fa. Risale infatti esattamente a cinque anni fa la prima messa in scena di “Dov’è la Vittoria”. Sì, al 2018. Con incredibile preveggenza _ talvolta a teatro capita _ i giovani di BEstand con spiccato acume politico ebbero la capacità di “vedere” in anticipo la piega che stava prendendo la situazione italiana. Ne fecero un allestimento che però, solo in pochissimi ebbero modo di vedere. Arrivò il lockdown e la chiusura dei teatri. Tuttora, sono solo un pugno le repliche per questo allestimento che, oltre ad avere “indovinato” la svolta di destra in Italia ne preconizza pure l’allargamento a macchia d’olio in Europa, da Spagna a Francia e Germania.

Così nel testo dell’opera teatrale Vittoria Benincasa riflette sul futuro: “Fratelli, Lo vedete? (a voce tonante) Dico, LO VEDETE? Una cortina nera sta coprendo l’Europa. La coprirà fino a soffocarle il cuore malato. E allora noi – non io e voi, no: solo noi – le rifaremo il cuore. Io so che un giorno, un giorno non troppo lontano, potrò mostrare a mia figlia il cantiere di questa nuova Europa – e lì, davanti al filo spinato, le dirò: (indicando il pubblico) “guarda tesoro, un tempo tutti questi erano liberi. E ridevano”.

Più nero di così. Va da sé che non sempre -almeno si spera- le ciambelle escono con il buco e le profezie di sventura si avverino… comunque in ogni caso, spettatore avvisato, mezzo salvato.

Il collettivo campano BeStand di scena a Forlì in “Dove la Vittoria” con Martina Carpino, Luigi Bignone e Antonio Elia

Ma come è stato possibile che un giovane gruppo di teatranti, nonostante avesse inventato uno spettacolo talmente “forte” fosse lasciato solo e abbandonato a sé stesso per così lungo tempo?

Questo è uno dei quesiti a cui sarebbe utile rispondere per meglio comprendere lo stato attuale di molto teatro italiano, soprattutto esordiente, così come è stato messo in evidenza nella intelligente iniziativa, curata in modo professionale dall’Accademia Perduta diretta da Claudio Casadio e Ruggero Sintoni“Colpi di scena” in un tour de force di quattro giorni ha presentato una ventina di lavori, in grande parte novità o allestimenti poco visti di emergenti. Una prima considerazione positiva è che alla faccia di certe campagne di stampa sul “decadimento e crisi del teatro” lanciate da chi la scena contemporanea pare conoscerla poco, e tanto meno la segue dal vivo, e forse neppure in streaming. Sgombrando il campo da questi ballon d’essai utili solo a rimpolpare stanche pagine culturali, va detto invece per quanto mostrato a Forlì che il teatro è  vivo e ben popolato dai più svariati e incredibili interessi.

Naturalmente questo non vuol dire che la rassegna sia stata una marcia trionfale. Nel giovane teatro permangono qua e là difetti, limiti e ingenuità. Ma molto di tutto questo discende direttamente dall’inesistente o quasi, supporto in formazione, assistenza e accompagnamento da parte di strutture pubbliche o semi. La spinta forsennata a produrre ogni stagione nuovi spettacoli ha spesso il sopravvento sulla cura, per cui l’usa e getta è una costante che colpisce gruppi e compagnie poco attrezzate e indifese. D’altro canto il continuo proliferare di premi e targhe non aiuta. Crea un illusorio mercato della gratificazione fine a se stessa che raramente si traduce in denaro o risorse per la formazione: eh sì che ce ne sarebbe bisogno… Ultimi in ordine di arrivo sono i miracolosi bandi europei che nel giro di pochi anni stanno nei fatti desertificando la scena, creando l’illusione che siamo più fighi se becchiamo un po’ di soldi dall’Europa. Molto spesso destinati a progetti improbabili, fatti di grandi enunciati ma alla fine poca sostanza. Incontrare spesso in improbabili riunioni Zoom o anche de visu, partner olandesi o francesi attorno ad aria fritta riassicura sulle nostre capacità: di gente abituata a navigare nel mare della burocrazia. Molto meno in quello della qualità. Il confronto infatti con compagnie d’Oltralpe, tedeschi o dei Paesi Bassi, belgi o spagnoli, francesi e via discorrendo è spesso impietoso per quanto riguarda la nostra giovane scena (in realtà non solo quella). Basta addentrarsi nel campo della formazione e delle tutele per capirlo.

Una veduta dell’Abbazia di San Mercuriale a Forlì la città che ha ospitato il festival “Colpi di scena” (foto Andrea Vitali)

Il rispettabile numero di teatranti giovani presenti a “Colpi di scena” non è stato, ad esempio, esente da problemi e limiti. Dallo stare in scena degli attori, diversi dei quali possiedono scarso controllo del corpo e necessiterebbero più sedute di preparazione fisica (respiro, danza etc… ah il training di una volta). In alcune opere si notano corpi poco reattivi, per non parlare di insufficiente capacità di azione e movimento. Si percepiscono corpi chiusi in gabbia dove è limitata l’espressione artistica. I rimedi naturalmente sono sempre quelli dell’esercizio che dovrebbe andare di pari passo con lo studio. Vedere cosa fanno i loro colleghi in Germania od Olanda, giusto per avere un’idea. Nel Paese che ha inventato la Commedia dell’Arte non dovrebbe essere poi così difficile dare più spazio a questo modo di lavorare. Qualcosa cioè che dovrebbe accompagnare un teatrante per tutta la vita, anche perché, come ricordava Eduardo “Gli esami non finiscono mai” e l’arte del teatro è così intimamente legata alla vita che occorre avere sempre le antenne pronte per ricevere e l’arte a restituire.

Qualcosa non torna anche nelle scelte tematiche e drammaturgiche. Si ha l’impressione che molti emergenti si trovino ancora a metà del guado. La famiglia è molto presente in racconti di personalità spesso avulse dal contesto del quotidiano. Non “liberati” ancora cioè dal nodo ombelicale in diversi si trovano a riversare ansie e indecisioni dentro racconti distopici o curiose rivisitazioni dei classici. Emergono naturalmente gli stress e le insicurezze del nostro tempo, dal lavoro al sesso, alcune raccontate in modo preciso. Le difficoltà nell’amare, quelle di crescere e maturare appartengono ai nostri tempi, difficili come non mai. Molte di queste compagnie però affrontano tutto questo -in un mare di difficoltà- facendo teatro in modo serio e anche ispirato. Questi teatranti hanno bisogno di consigli, di risorse, di teatri dove provare e riprovare i propri spettacoli. E non certo di una settimana. Di più centri di produzioni reali, come Accademia Perduta che produce per davvero e organizza reunion come quella di Forlì dove tutti, teatranti, operatori e critici hanno modo di verificare e conoscere quello che spesso, circuiti fatti di scambi e di interessi, teatri miopi ed organizzatori poco attenti snobbano o non osservano con sufficiente cura.

Il teatro di Bagnacavallo ha ospitato alcuni spettacoli di “Colpi di scena” di Accademia Perduta (Foto Andrea Vitali)

 

Famiglia

Il titolo è emblematico: “Il Grande Vuoto”. Potrebbe essere un po’ la fotografia di questo istituto della società, attraversato da una crisi profonda. Lo spettacolo di Fabiana Jacozzilli indaga infatti sul disfacimento di un nucleo familiare, a partire dalla scomparsa di un padre e la perdita progressiva della memoria di una madre interpretata da una magnifica Giusi Merli nel ruolo di attrice sul viale del tramonto. L’inizio è folgorante. Due anziani al ritorno dal market con la spesa del giorno, discutono seduti dentro una panda sempre sul punto di partire. Una intimità fatta anche di tenerezza, con lui che promette di portarla l’anno successivo a Venezia, quando cambierà l’ auto… Il dramma, a cui non è dato assistere, accade proprio lì. Un malore ed ecco la scomparsa improvvisa del padre (un eccellente Ermanno De Biagi), punto di partenza per condurre una famiglia al capolinea. Iniziando dal progressivo deteriorarsi della salute materna vittima di una malattia neurovegetativa. Dramma in un interno, la grande sala da pranzo dove si assiste a un continua e vertiginosa uscita di scena degli oggetti, una figlia (una ipersensibile Francesca Farcomeni), un figlio (lo sbiadito e lunatico Piero Lanzellotti) e una collaboratrice domestica, Mona Abokhatwa (presenza solida, prima volta in scena) girano come api attorno alla madre con l’intento di fermare il degrado mentale. Anche qui come nei lavori precedenti della Iacozzilli c’è la ricerca di una drammaturgia scenica fatta di oggetti o di figura, in questo caso sono le diverse telecamere che mostrano in modo voyeuristico la madre nella sua intimità nell’intento di carpire forse il segreto della malattia o del passaggio estremo. E infine la vestizione della madre con i panni teatrali di un King Lear con una corona, di re travicello… Nonostante gli sforzi la pièce comunque non decolla – a parte le bravure di singoli attori della vecchia guardia e l’incipit teatrale- davvero notevole_restando confinato in una sorta di limbo tra dramma familiare e un caso di fredda osservazione scientifica.

Una scena de “Il Grande Vuoto” di Cranpi regia di Fabiana Iacozzilli (Foto di Francesco Bondi)

Si respira aria di Off Broadway in “4000 miglia” adattamento del Centro Teatrale Mamimò, per la regia di dell’omonimo “4000 Miles” che una giovane e appena laureata Amy Herzog presentò per la prima volta nel 2011 al Lincoln Center ricevendo l‘Obie Award per la migliore nuova commedia americana e due anni dopo la nomination al Premio Pulitzer, settore teatro. Ispiratasi ad alcuni membri della sua stessa famiglia, conosciuta per le idee liberal e di sinistra. Il testo, una interessante finestra sulla middle class stelle e strisce è tutta sul focus del rapporto tra il nipote Leo (un tormentato Alessio Zirulia) proveniente in bici da Seattle, una sorta di modern hippie e la nonna ottuagenaria Vera (una strepitosa Angela Ruozzi) che vive solitaria a Greenwich dopo la scomparsa dieci anni fa del marito e lentamente vede andare via per sempre gli amici di una volta. Il rapporto tra i due non è semplice e ci mette un po’ a decollare. Leo conserva un grande dolore nel cuore (aver visto in diretta la morte dell’amico che viaggiava con lui in bici da una costa all’altra degli States) e un rapporto complicato con la fidanzata Becca (Lorella Macchia) che vive a NY. Approda nella casa di Vera come un naufrago confuso mentre suonano le note di “Autumn in New York” cantate dalla divina Billie Holiday. Nel centro della casa un salotto sessantottino, il confronto tra la matura intellettuale marxista e il giovane no global e ambientalista a fatica troverà un punto di incontro e che faciliterà il dialogo e la convivenza tra persone così differenti ma in fondo in fondo simili. La commedia è interessante e va vista con gli occhi puntanti sull’altro lato dell’oceano. Ha ancora difficoltà nel trovare il ritmo giusto ottenibile magari superando certe legnosità giovanili. In scena anche Annabella Lu.

Mamimò ha presentato “4000 Miglia” con Lucia Zotti, Alessio Zirulla, Lorena Macchia e Annabella Lu (Foto Andrea Vitali)

Tenero, delicato come un fiore di primavera, brilla di luce propria “Io che amo solo te” di Bluestocking, proprio come la canzone di Sergio Endrigo del 1962 racconta di un amore tra due ragazzi del nostro tempo, sedicenni, Nico e Vale, appassionato, forte, coinvolgente. E impossibile da vivere fino in fondo. Scritto da Lucilla Lupaioli e Alessandro Di Marco -autore anche della regia- e interpretato da due bravi attori come Riccardo D’Alessandro e Andrea Lintozzi è un esempio di buona scrittura drammaturgica espressa in scena in un ottimo allestimento. Quello di Vale e Nico è un rapporto di sguardi e carezze, di abbracci ed effusioni improvvise, nato, quasi per caso una notte in casa di Vale, assenti i genitori. Tra i due liceali esplode improvviso l’amore gay. Desiderio e paura di essere scoperti dal branco. Dai compagni di classe o gli amici di ogni giorno per i quali essere gay è un affronto alla normalità machista. Il cerchio si chiude attorno e non lascia scampo. L’impossibilità di dichiarare al mondo il proprio amore, il bisogno di difendersi da una realtà normativa che non accetta e respinge l’omosessualità fino a perdersi nel buio del dramma. Doloroso ma necessario. Uno spettacolo da non perdere.

“Io che amo solo te” di Bluestocking con Riccardo D’Alessandro e Andrea Lintozzi. Regia di Alessandro di Marco

C’è chi aspira ad essere famiglia e per l’istante è solo una coppia di precari che insegue il sogno di poter avere un giorno il posto fisso. Nel frattempo si passa da un contratto a scadenza all’altro, nonostante, lauree e master, anni di sacrifici di famiglie che per sostenere i figli allo studio hanno dato fondo a tutti i loro risparmi e ora si trova con un pugno di mosche in mano. “Tu (non) sei il tuo lavoro” di Rossella Pastorino, regia di Sandro Mabellini con gli attori Maria Lomurno e Francesco Patanè che, ben immedesimati tra attimi di profonda amarezza ma anche di graffiante ironia, illustrano bene i conflitti a cui sono sottoposti molti giovani del Paese. Contratti a progetto, ricatti per eventuali maternità che farebbero perdere i posti di lavoro. Ecco il rischio maternità. Basterebbe il sospetto di una gravidanza in arrivo per vedere il mondo crollare e i sogni di una futura famiglia evaporare al vento.

“Tu (non) sei il tuo Lavoro” di Rossella Pastorino con Maria Lomurno e Francesco Patanè, regia di Sandro Mabellini

E infine le famiglie ancora da venire. Sono quelle disegnate nello stile della compagnia Les Moustaches che ha affidato una rigida partitura a tre donne che esibiscono un grande pancione nel reparto maternità di un ospedale. Lo spettacolo “I cuori che battono nelle uova”, testo di Alberto Fumagalli autore anche della regia con Ludovica D’Auria vede sulla scena le tre donne Elena Ferri, Matilda Farrington e Grazia Nazzaro in compagnia forzata a porsi interrogativi sul futuro. A dominare infatti sono le speranze e le paure iniziando dai minuti successivi alle doglie che daranno via alle nascite. Lo spettacolo è una sorta di musical un po’ fuori schema che sonda teatralmente anche i confini tra commedia e tragico aspettando il domani.

Les Moustaches e il tema della maternità in “I cuori battono nelle uova”, regia di Ludovica D’Auria e Alberto Fumagalli

L’Alzheimer, malattia che colpisce sempre di più le persone in età avanzata è uno dei temi sullo sfondo di “Album” spettacolo di Kepler-452, interprete unico è Nicola Borghesi, una delle personalità più interessanti della nuova scena, autore assieme ad Enrico Baraldi di questo pezzo di narrazione che si apre con la misteriosa storia delle anguille che, partite dal Mar dei Sargassi, lì torneranno stremate dopo un lungo viaggio che le porterà dal Po all’Adriatico e nell‘Oceano Atlantico, fino a depositate le uova laddove sono nate (e moriranno). La memoria e il ricordo sono i fili che uniscono le vite definendo i contorni delle esistenze. Il racconto di Kepler mescola patologia e cronaca diventando teatro del quotidiano. Seducente lo spazio scenico prescelto, le officine dell’ex Atr, ampio e luminoso porta ancora i segni del lavoro, dai graffiti sulle pareti ai cassetti per gli attrezzi, dove ancora sopravvive una targhetta con il nome di uno dei meccanici. Il pubblico siede in poltrone d’epoca, sofà, sedie di risulta, oggetti di modernariato prossimi a finire dall’antiquariato o in qualche bric à brac. Tra questi mirabilia, un giradischi con coperchio, Borghesi, lascia andare un vecchio vinile, recuperato come molte altre suppellettili dai lavori di svuotamento di cantine e case inondate dal fango del terribile alluvione del maggio scorso che ha sconvolto la Romagna lasciando ferite ancora aperte. Quelle non visibili sono nei cuori e nelle menti degli uomini che vedono andare via al macero pezzi della loro vita.

L’attore Nicolò Borghesi di Kepler 452 nello spettacolo “Album” presentato all’Ex Atr di Forlì affronta il tema dell’Alzheimer

Interno casalingo. 21 maggio 2023 a Faenza.

“Una donna guarda alla televisione un servizio su un’alluvione, seduta a tavola insieme a suo figlio: cataste di oggetti pieni di fango accumulati in mezzo alle strade. La signora indica il televisore con la forchetta: «Poverini. Quelli sono ricordi! Come faranno adesso senza tutti i ricordi?»

«Eh.» Il figlio si alza, è turbato: va nell’altra stanza.

Sua madre guarda la televisione, gli oggetti pieni di fango accumulati in mezzo alla strada: «Poverini! Quelli sono ricordi! Come faranno adesso, senza tutti i ricordi?»

La privazione dei ricordi, come la progressiva perdita della memoria sono drammi che possono piombare all’improvviso in un qualsiasi nucleo familiare segnando la vita di chiunque. Lo spazio scenico acquista così spessore di esistenza. Le persone sedute una accanto all’altra in semicerchio contribuiscono anche con la sola presenza alla costruzione di un album dei ricordi in diretta, fatto di immagini in movimento proiettate da vecchie tivù, condivisione di una spazialità che sembra disegnare una inedita agorà. Borghesi l’attraversa continuamente, da un lato all’altro, relazionandosi spesso col pubblico e continuando a narrare da angoli insoliti in cui solletica l’intreccio tra memoria individuale e collettiva nel tentativo di trovare, se esiste, come nel caso delle anguille, una memoria comune che sfida la legge del tempo e dello spazio. Coinvolgente e appassionato. Sulle note di “Dance Me To The End Of Love” di Leonard Cohen:

“…. Possiamo prepararci a una catastrofe, facendoci le domande giuste, facendo le cose giuste, costruendo cose che hanno senso, oppure dovremmo semplicemente affidarci al fatto che, quando la catastrofe arriverà, sentiremo un richiamo, come quello delle anguille verso il Mar dei Sargassi e, semplicemente, faremo quello che è giusto fare? Sapremo semplicemente che dovremo andare. Dovremo vivere. E vivremo”.

Ex Atr di Forlì. Nella foto i cassetti dei meccanici dell’azienda di trasporti (Foto Andrea Vitali)

 

Il Mito

Sono stati ben tre, a Forlì, i testi riferiti al vate Omero, uno ispirato dal mito dell‘Iliade gli altri riconducibili all’Odissea.

Di questi ultimi due, il primo, tratta della moglie di Odisseo che, rimasta ad Itaca, continua a filare la tela. “P. Come Penelope” di Paola Fresa, Christian Di Domenico ed Emiliano Bronzino, in realtà come anticipa il titolo è una presa di distanza dai versi di Omero e delinea una figura di donna meno, molto meno ieratica, bensì più vicina ai nostri tempi, fatti di tic ed ossessioni. L’attrice ricorda che il nome “Penelope” vuol dire “anatroccolo”. E questo è il vulnus di chi da bambina ha rischiato di annegare nella vasca da bagno, probabilmente a causa del padre. E quella paura le resterà incollata addosso tutta la vita. Il racconto delle vicende personali inizia con Penelope adolescente in competizione con la cugina, la bella Elena, che in spiaggia faceva messe di rubacuori, mentre a lei non la filava nessuno.. Beh nessuno no, a qualcuno Penelope era piaciuta. Giunge così il matrimonio con Ulisse. Questi, dopo due anni partì per Troia lasciandola per vent’anni sola con il figlio Telemaco. Fresa impersona con una buona dose di ironia questa singolare rilettura del mito, trasformando Penelope in personaggio dei nostri giorni che, per liberarsi, le basterà indossare un costume da bagno e fare finalmente un “pluff” nell’acqua del mare.

L’attrice Paola Fresa ha curato il testo e interpretato “P come Penelope”, una originale rilettura dell’Odissea

Distante dai versi di Omero è anche “LidOdissea” della compagnia Berardi Casolari, già recensito e visto in occasione del festival di Castrovillari a maggio (leggi qui).

E quindi, giusto per marcare ancora una volta la distanza dal vate cieco ecco “Un’altra Iliade”, testo e regia di Salvatore Arena e Massimo Barilla con Salvatore Arena solitario mattatore intento a raccontare una singolare versione lontana dai clamori guerreschi e dagli eroi cantati da Omero. Arena così veste allo stesso tempo i panni di due anti eroi: di una vedetta troiana e del greco Tersite, artista costretto a portare l’ilarità tra i commilitoni greci mentre dentro arde dalla voglia di fuggire e tornare a casa dalla sua amata. Tra citazioni shakespiriane e riferimenti alle culture popolari mediterranee Arena si concentra in quello che è l’ultimo inganno, quello del cavallo di Ulisse che porterà il sangue e la morte tra i troiani. Un terribile emblema di guerra da cui stare in guardia e fuggire come anche le recenti tragedie del Medio Oriente hanno insegnato e tuttora insegnano.

Una scena dallo spettacolo  “LidOdissea” della compagnia Berardi e Casolari (Foto di Alice Merola)

I Viaggi

Fuori dai confini, per conoscere il mondo. La letteratura e il teatro di ogni tempo è stato sempre attirato dal racconto di mondi e popoli lontani. Accanto ai reportage di giornalisti e libri di scrittori fondamentale è stata molto utile per la diffusione di costumi e usi anche l’opera svolta sulla scena, dal circo al teatro. Una pratica che anche fino a pochi decenni fa, soprattutto in Italia, ma non solo, ha visto alcune compagnie teatrali frequentare in Oriente scuole di danza riportando, talora in modo straordinario (si pensi ad esempio al Tascabile di Bergamo) in spettacoli unici momenti coreografici e spettacolari anche complessi come le danze orissi. Si pensi anche alla diffusione, tra Italia e Francia di spettacoli di teatro Kathakali, una originale forma di teatro danza dello stato indiano del sud di Kerala. Per non parlare dell’enorme successo raccolto dallo straordinario “Mahabharata” del grande Peter Brook, spettacolo teatrale basato sull’omonimo testo in sanscrito (della durata di ben nove ore) che venne presentato per la prima volta nel 1985 ad Avignone. In seguito venne curata una versione per la tivù e un film ridotto di tre ore (1989). Una summa straordinaria dell’arte teatrale universale, dal kathakali alle marionette passando per il visionario Antonin Artaud. A richiamarsi anche nel titolo allo stesso concetto di globalizzazione, ma decisamente lontano, se non addirittura agli antipodi di quello straordinario capolavoro teatrale, è “The Global City. A Journey Beyond Borders” degli Instabili Vaganti, compagnia giramondo ben sostenuta di Nicola Pianzola e Anna Doria Doma che cura la regia. Lo spettacolo seguito a Forlì è una sorta di girandola di danze e rimandi a tradizioni viste con l’occhio un po’ del turista che fa clic con il cellulare e quella del souvenir ben confezionato. Si viaggia dal Sud America, dalla sterminata Città del Messico, emblema di decine di metropoli, pensando al Calvino delle “Città invisibili”, ad altre parti del pianeta Terra in una sequenza di siparietti che disegnano una città globale, con flash e immagini che scorrono come una sequenza di Instagram o un Reel di Facebook. La compagnia alterna la danza al teatro, il rap al canto orientale. Un attraversamento tra colori forti e immagini urbane che si alternano a richiami di rituali che tutto mescola assieme, senza esprimere giudizi, come un giovanile sogno di “Love and peace”.

“The Global City, a Journey beyond Borders” degli Instabili vaganti, regia di Anna Dora Dorno (foto Andrea Vitali)

Onestamente più interessante il solo di Teodori Bonci Del Bene che ha aperto il festival con “Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Russia”. Un resoconto acido di una permanenza in terra slava di un artista che si è caricato il compito di rendere giustizia a molti giovani artisti russi che in patria non possono esprimersi se non a rischio di carcere, considerate le attuali condizioni di repressione del regime di Putin. Bonci del Bene ha vissuto per cinque anni in Russia entrando in contatto con numerosi attori e comici che praticavano la satira, la gran parte dei quali è stata costretta a fuggire via dal proprio Paese. Utilizzando foto e immagini l’attore mette assieme poesie di Ivan Vyrypaev – regista e attore, uno dei più rappresentativi esponenti della nuova scena russa- e quelle di Sergei Puskin interpretando in modo coinvolgente il personaggio di un artista proveniente da un piccolo paese che acquista il successo e la popolarità,rischiando la pelle ogni volta in cui si esibisce in un caffè o in un teatro. Teodoro Bonci dal Bene, mette con efficacia l’indice sul malessere attuale dei giovanti intellettuali russi raccontando per aver vissuto a vicino storie amare come quella di un attore che scappa via da Mosca e poi a Kiev sfuggendo agli agenti del Kgb.

Teodoro Bonci Del Bene in “Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Russia” (Foto diFederico Pitto)

La Storia

Metti la Storia al centro. Il concetto limpido e chiaro sta dentro due spettacoli assai diversi tra loro con un filo comune: quello di raccontare eventi poco conosciuti che hanno vissuto dentro il grande fiume degli avvenimenti. Il primo, “Pigmalione” mette terribilmente davanti all’angosciante dilemma tra amore per l’arte, la sua funzione sociale e il tema della verità. E’ riferito a un fatto veramente accaduto. La richiesta, da parte degli uomini del Terzo Reich al regista ebreo Kurt Gerron detenuto nel campo di Terezin di girare un film in cui i lager dovevano apparire città felici. Lo spettacolo di Giulia Viana e Giacomo Ferraù, quest’ultimo interprete solitario sulla scena, tocca temi come l’arte e la libertà, la verità e la creatività. Gerron strinse l’accordo per girare “Theresienstadt. Ein Dokumentarfilm aus dem jüdischen Siedlungsgebiet” (più conosciuto come “Terezin, la città che Hitler regalò agli ebrei”) e gli stessi internati del campo lavorarono per abbellire i lager, dipingendo le case e curando i giardini. Nel fondo della scena scorrono immagini in bianco e nero e sequenze di vita nazista. Ferraù/Gerron mette in piazza la propria vita, dalle prime esperienze giovanili con il cinema alla partecipazione alla prima guerra mondiale fino all’incontro con l’arte e il successo e progressivamente l’arrivo del nazismo fino all’internamento nel campo di concentramento. Ferraù/Gerron è un punto di gravità perfetto, racconta distaccato osservando anche con ironia le vicissitudini e infine l’avvento ultimo di una ideale linea di resistenza finale che reclama il diritto di fare arte contro chi vuole usare la sua opera a fini di propaganda.

“Pigmalione” di Eco di Fondo. Drammaturgia, regia e interpretazione di Giacomo Ferraù (Foto di Laila Pozzo)

“Negri senza memoria”, Bugie bianche capitolo secondo, è il racconto in forma di recital di Alessandro Berti, un narratore perfetto con o senza chitarra con cui inanella accordi e parole. Sono racconti di gente che ha la memoria corta come gli italiani di quando, come canta il rapper Chuk Nice, erano “negri con la memoria corta”. Tutto vero eppure le associazioni italo americane insorsero contro questo accostamento considerato offensivo. In realtà come ricorda Berti gli italiani per lungo tempo furono vittime di pregiudizi e di razzismo. Dopo lunghi periodi di buoni rapporti tra le due comunità -la solidarietà del movimento anarchico e le alleanze tra gli emigrati siciliani e gli schiavi neri in Lousiana- lentamente gli italiani presero poi progressivamente facendoli propri i pregiudizi e il razzismo della middle e upper class americana.Tanti sono gli episodi, molti dei quali inediti, che il musicista e attore ha scovato nella sua ricerca “americana”. Tra questi anche le posizioni sul razzismo qualunquiste di cantanti come Frank Sinatra. Sono tutti pezzi di Storia consegnati a una memoria che fa spesso cilecca e invece dovrebbe restare viva per non dimenticare quando a milioni i nostri avi si imbarcavano sui piroscafi per andare nelle Americhe a cercare lavoro.

Alessandro Berti, solitario in scena in “Negri senza memoria. Bugie Bianche capitolo secondo” (Foto di Andrea Vitali)

La Poesia

Sono i versi di un autore molto amato dall’avanguardia, Juan Rudolf Wilcock, ad aver incendiato i cuori di una giovane equipe teatrale romana, quelli del Gruppo della Creta che hanno messo insieme uno spettacolo all’ultimo respiro, disordinato ma coinvolgente, nutrito di spirito dada e un impulso a riprodurre dal vivo l’idea del caos delle origini e della creazione artistica e teatrale. Ma chi è Wilcock? Padre inglese, madre argentina di origine piemontese, amico di Bioy Casares e Borges, innamorato dell’Italia tanto da averla eletta a suo Paese di residenza.

Diretti da Alessandro Di Murro gli attori del Gruppo della Creta nell’allestimento che prende il titolo da una poesia di Wilcock, “Beati voi che pensate al successo, noi soli pensiamo alla morte e al sesso”, recupera al proprio interno l’innamoramento per questo straordinario letterato, citando poesie e atmosfere dei suoi romanzi. Lo scrittore, nato nel 1919 a Buenos Aires – morì nel 1978, appena sessantenne: e pochi se ne accorsero perché fu lo stesso giorno in cui sequestrarono Aldo Moro – ma

fu autore prolifico e raffinato, certamente di nicchia, ieri come oggi, anche perché scarsamente compreso dalle case editrici del suo tempo. Il terreno di combattimento dei versi di Wilcock scelto dai giovani della compagnia della Creta è quello dell’irriverenza, del gioco a perdersi iniziando da un veloce e ripetitivo gioco di domande e risposte partendo da un divano. Più che un botta e risposta è una corsa in cui i cinque attori sembrano entrare in un loop che rischia di divenire trance. Il tempo giusto per inserire una nuova variazione, sempre attorno allo stesso divano a forma di ferro di cavallo, centro motore della vita come della sua perdizione. Riparte il gioco e le corse a scaricare adrenalina e a consumare energie. Un po’ come partire e muoversi restando fermi. Gli attori ce l’hanno con l’idea di un progresso “che ci illude di essere tutti protagonisti di una società veramente diversa da quella del passato e in grado di permetterci realizzazione e amore. Ma dove? Ma quando?”.

Ecco così l’outcoming. “Siamo noi gli attori di una generazione che vuole fuggire e rimane seduta nel divano, che vuole mostrarsi e si nasconde, che sogna di gridare e finisce per parlarsi addosso. Siamo cinque ma potremmo essere mille. Siamo l’immagine di una generazione che fra brandelli di intuizioni e baratri di incomprensione, potrebbe ancora farcela.

E se non dovesse farcela? Beviamoci almeno un caffè”.

Il Gruppo della Creta in “Beati voi che pensate al successo noi soli pensiamo alla morte e al sesso” dedicato a Juan Wilcock, regia Alessandro Di Murro (Foto Andrea Vitali)

Distopie

Dopo quello della “famiglia” è quello più popolato. Inevitabile. Non si può fuggire il fascino e la tentazione di raccontare altri universi possibili. Ecco quindi da uno dei libri più letti al mondo, “Frankenstein” di Mary Shelley, diventare oggetto di un allestimento a cura di Elsinor, nell’ambito del progetto europeo”Play-On New Storytelling with immersive technologies”. Cioè rinnovamento dell’arte della narrazione teatrale con l’utilizzo degli strumenti offerti dalle nuove tecnologie. Siamo in un campo già sperimentato timidamente nei mesi scorsi, e in particolare nell’epoca del lockdown, dove qualche teatrante italiano ha deciso finalmente di confrontarsi con i mezzi disponibili e finalizzati all’innovazione dei linguaggi e dell’arte teatrale. In “Frankstein” (a proposito un’altro allestimento curato dai Motus è in arrivo a Bologna nei prossimi giorni), si trovano così le cuffie wireless da destinare agli spettatori, con tecnologia audio binaurale, realtà virtuali, avatar e naturalmente attori in carne ed ossa per mettere in pista una interpretazione inedita che apre a interessanti riflessioni. Lo spettacolo che vede in scena Laura Palmieri (in video invece sono Lara Di Bello e Giuditta Mingucci) è fortemente pittorico e dipana come in un binario la storia parallela che tutti conoscono, ossia quella del dottor Frankestein, che dà la vita una sua Creatura e il rapporto tra la scrittrice Mary Shelley e l’oggetto della sua creazione: cioè il libro. Creazione questa assai scomoda se attribuita ad una donna, nel secolo in cui vive appunto la moglie del poeta Percy B. Shelley. Così le due relazioni si intrecciano strettamente. Da una parte lo sviluppo della storia e dall’altra il viaggio dentro la propria coscienza di donna e scrittrice. E’ interessante la relazione che si costruisce lungo il dipanarsi dell’azione teatrale nel confronto di immagini a diversi livelli, dalle quinte reali a quelle virtuali. Un lavoro che merita attenzione sul piano concettuale e che ha bisogno di affinarsi ulteriormente su quello scenico.

Il centro Elsinor in “Frankenstein” con Laura Palmieri (in video Lara di Bello e Giuditta Mingucci) regia di Ivonne Capece

Si può guardare al futuro anche giocando. Come accade in un divertente game teatrale ideato dal regista e drammaturgo Emanuele Aldovrandi, Ecco“Dieci modi per morire felici”, dove dieci spettatori per volta possono rimettere in gioco la propria vita ideandone un’altra nuova di zecca. La partecipazione avviene per cooptazione volontaria con un conduttore, Luca Mammoli, abbigliato in tunica grigia come un viaggiatore nel tempo di Star Trek . Questi accoglie volta per volta i concorrenti che siedono a semicerchio davanti a una piscinetta d’acqua delimitata da rocce grigio piombo. Lo stimolo e la scintilla teatrale avvengono in diretta, ogni volta in modo casuale regalando emozioni diverse anche per il pubblico che partecipa e fa il tifo a seconda dei personaggi in gara. Si possono fare alleanze o sfidarsi apertamente. Come sopravvivere sino alla fine? Fidarsi del fato oppure rischiare?

“Dieci modi per morire felici” play game teatrale di Emanuele Aldrovandi con Luca Mammoli (Foto Francesco Bondi)

 

E’ in un non luogo, uno spazio post catastrofico dove due operai sono incaricati di compiere dei lavori necessari per tamponare fuoriuscite di gas dalla terra. Scenario apocalittico insomma ,dove si racconta la fiaba di un mondo portato allo sfascio e in cui si percepisce l’assenza della natura. Sono due vite a perdersi quelle di Dan e Balt interpretati da Daniele Amendola e Valerio Malorni, messi lì a guardia di una “Faglia”, testo della francese Adèle Gascuel, regia di Simome Amendola prodotto da Blue Desk, Kilowatt e il sostegno tra gli altri di Ravenna Teatro. Due clown un po’ beckettiani stanno in attesa come in “Godot”. Hanno voglia di andare via, di lasciarsi tutto alle spalle: ma cosa accadrebbe se non fossero attenti che la faglia superasse la linea della catastrofe? Come fare? “Faglia” è un progetto che, tra luci e ombre, racconta un domani possibile e più vicino di quanto si possa immaginare. Si pensi solamente alle conseguenze possibili dell’attuale crisi climatica. Lo spettacolo, almeno per quanto potuto vedere a Forlì, aveva qualche problema tecnico relativo ai volumi dell’audio che rendevano poco comprensibili i dialoghi. Il tema è di sicuro molto importante e necessiterebbe maggiore attenzione anche nella parte drammaturgica.

La Compagnia Amnendola/Malorni ha presentato “La Faglia”, di Adèle Gascuel, regia di Simone Amendola

“Odradek”, il titolo dell’ultimo lavoro di Menoventi richiama alla memoria il personaggio del racconto “Il cruccio del padre di famiglia” di Franz Kafka che fa parte della raccolta “Un medico in famiglia”. Wikipedia dice che nel racconto di Kafka l’Odradek è descritto come “un essere con una forma apparentemente priva di senso, anche se completa. L’etimologia del termine è di dubbia provenienza slava o tedesca, in ogni caso non avrebbe significato. Il padre di famiglia racconta che l’Odradek appare e scompare, si trasferisce in altre case e dopo qualche tempo torna nella sua proprietà. A questo essere non possono essere poste domande difficili, e anche se non crea nessun intralcio, il padre di famiglia è addolorato dall’idea che l’Odradek possa sopravvivere dopo la sua dipartita, visto che l’essere, diversamente dagli oggetti, non ha uno scopo e quindi non ha mai usura”.

Descrizione efficace perché in qualche modo coglie una delle peculiarità del racconto minimal ma denso di significato messo in scena dai Menoventi, da un’idea di Consuelo Battiston e Gianni Farina autore anche di drammaturgia, regia e luci, mentre le musiche sono di Andrea Gianessi e le scene di Andrea Montesi e Gianni Farina. Anticipa cioè quella che i Menoventi definiscono come “l’innocenza inconsapevole della vita odierna, ovvero l’incapacità di avvertire il peso della responsabilità del proprio agire”. A volte questa “s’incrina e lascia filtrare i sintomi di un’angoscia singolare, insolita come un’ombra cupa”. Questo è ad esempio “il sentimento di insensatezza della propria esistenza” che si insinua in M. la protagonista femminile della pièce: cioè Consuelo Battiston che, assieme a Francesco Pennacchia, forma un perfetto duo di attori calati in un surreale tête-à-tête dentro uno dei più intriganti spettacoli della stagione. Un vero guazzabuglio scenico e linguistico che solletica, in una generale situazione di apparente no sense, raffinate riflessioni filosofiche, rimandi e citazioni. Tutto senza perdere il “gancio” con l’attualità. Anzi. La pièce è infatti una formidabile finestra aperta sul distopico che esiste nascosto nelle trame della nostra società contemporanea. Tutto accade apparentemente con ordine logico: la consegna a casa o anche delivery.

“Odradek” dei Menoventi con Consuelo Battiston e Francesco Pennacchia (Foto di Marco Parollo)

“Odradek” infatti è un marchio come quelli che si sono affermati nei giorni del lockdown: i vari Glovo, Deliveroo e Just Eat, etc.. Consegna a domicilio. Non solo food, ma “portiamo il mondo a casa tua”. Anzi, le consegne precedono gli ordini, indovinando ed esaudendo magari un non espresso desiderio, anche prima che questo venga enunciato e reso pubblico. Così accade pure nell’innamoramento della coppia. Tutto è inserito in uno schema logico e ripetitivo che inizia con uno squillo di campanello. La casa appunto. Il piccolo flat di M. -un’aria di ragazza anni sessanta con la coda di cavallo e abito curiosamente demodèe, longuette bianco con vistosa cinta rossa- ha le pareti tinte in rosso e blu compatti, un sofà rosso al centro, dove potresti anche essere risucchiato al suo interno, un tavolino e una televisione orwelliana che trasmette programmi incomprensibili e dialoga come fosse un Grande Fratello. Il campanello suona e alla porta c’è il corriere di Odradek. La lampadina fa partire una sorta di corto circuito per cui si sentono strani rumori provenienti dalla televisione mentre la luce diventa intermittente. Un fatto che si ripete ogni volta che suona il campanello. E’ una girandola di pacchi in arrivo sempre più grandi e dei quali non si conosce il mittente. Simile a “Gli Universi di Moran” di Vittorio Catani dove ogni passaggio da un universo all’altro è come un attraversamento di specchi. Salvo poi che avvengano slittamenti progressivi nella conoscenza e così nella percezione dello spazio. Accadono così micro rotture come i calici che esplodono all’improvviso o le lampadine che parlano… piccoli e ironici coup de theatre sulla soglia di una comicità misurata con al fondo l’imbarazzato nervosismo di non comprendere. E’ come stare dentro un labirinto di cui le porte d’uscita appaiono e scompaiono in breve tempo. Quello che si immagina è magari una illusione. O come accade nel romanzo di Philip Dick “Tempo fuori luogo” sono una serie di impercettibili scarti dove il tempo viaggia a velocità variabile. Una condizione che però provoca qui e là delle falle dove è possibile entrare e uscire. Tempi alterati, l’utopia di una vita e una relazione normale in una serie di affascinanti foto d’ambiente rubate a qualche quadro di Edward Hopper.

Un’altra intrigante immagine tratta da “Odradek”, lo spettacolo allestito dai Menoventi (Foto di Marco Parollo)
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