Teatro
Teatro a Campsirago, una finestra verde affacciata sul mondo
“Si voltò e disse: — Si va? Riprese a condurmi su per quei pianori. Di tanto in tanto si guardava intorno, cercava una strada. Io pensavo com’è tutto lo stesso, tutto ritorna sempre uguale – vedevo Nuto su un biroccio condurre Santa per quei bricchi alla festa, come avevo fatto io con le sorelle. Nei tufi sopra le vigne vidi il primo grottino, una di quelle cavernette dove si tengono le zappe, oppure, se fanno sorgente, c’è nell’ombra, sull’acqua, il capelvenere…”. Le parole di Cesare Pavese, dal romanzo “La luna e i falò” , disperse nell’aria accolgono il viandante intento a salire la mezza costa che introduce a Campsirago, frazione del comune di Colle Brianza sulle pendici del monte San Genesio, residenza d’arte e teatro tra le più attive d’Italia e dove, da diciotto anni, organizza con la direzione artistica di Michele Losi il festival “Il Giardino delle Esperidi” con l’intento di unire natura, paesaggio e scena. Le parole di Pavese sono parte di una lettura integrale delle opere dello scrittore piemontese. Per quattro giorni, dalle sette del mattino fino alla mezzanotte, otto attrici e attori si alternano dal vivo al leggìo facendo riemergere pagine preziose di una letteratura spesso dimenticata. Racconti e romanzi di uno scrittore che possedeva una raffinata arte di narrazione assieme alla lucida visione di un tempo difficile, testimone e interprete tra i più importanti del nostro Novecento. Ben vengano così azioni come questa ideata dalla compagnia Lo Stagno di Goethe che punta a ritrovare autori di pregio. Questa maratona ebbe già una importante anteprima nel 2008, quando gli ideatori Marco Gobetti, Ruggero Dondi e Anna Delfina si passarono il testimone durante una settimana no-stop in una collina di Piobesi d’Alba. L’anno successivo la replica proprio a Campsirago dove l’hanno voluta di nuovo in questa edizione arruolando anche giovani attori. Ed è la voce di uno di questi, Sebastiano Sicurezza, che descrive l’incontro tra il protagonista del racconto di Pavese e l’amico Nuto mentre, superato un melo carico di frutti ancora acerbi, si raggiunge il palazzo Gambassi sede della residenza. Protetto dai raggi del sole con un ombrellone l’attore sta ormai avviandosi verso la fine de “La luna e i falò”.
“Traversammo una vigna magra, piena di felce e di quei piccoli fiori gialli dal tronco duro che sembrano di montagna – avevo sempre saputo che si masticano e poi si mettono sulle scorticature per chiuderle. E la collina saliva sempre: avevamo già passato diverse cascine, e adesso eravamo fuori”…
Anche qui la voce di chi legge, come accadde nella collina di Alba, rotola giù dal palco raggiungendo in basso gli antichi terrazzamenti ricchi di frutteti. Gobetti a questo proposito ricorda come rilanciata per casse acustiche disposte nei sentieri e nelle vigne la voce potesse udirsi sino a valle…
Il palco naturale del palazzo Gambassi è una fantastica finestra senza infissi che si affaccia sul mondo. In lontananza si vede Milano dentro una bolla color arancio. Più in là si intuiscono i colli piacentini. Una finestra aperta sull’infinito. Appoggiata al muro dirimpettaio, una gradinata costruita in legno. A sinistra, domina il muro maestro della magione seicentesca -ora interessata da un importante piano di recupero- ingentilito da una vite che corre per tutta la lunghezza fino ad affacciarsi sul panorama. Dentro l’edificio diverse sale, una cucina, un refettorio. Dappertutto i segni del cantiere in via di conclusione. A destra della tribuna, guardando il palco c’è una loggia da cui si diparte una scala di legno che porta al piano superiore, quasi uno spalto elisabettiano. Da lì si ammira il selciato di pietre lucide che segnava l’antico sentiero romanico che, attraversando la corte va via in direzione del bosco. Che è imponente e sovrastante. Una presenza verde rassicurante e solida. Se si seguono i sentieri interni in pochi minuti si può scollinare in direzione nord ovest. Da lì si vede il Resegone e giù in basso il lago di Olgiate, che è una propagine del lago di Como e arriva proprio in quel ramo che volge a mezzogiorno di manzoniana memoria. Da queste parti è ancora così come al tempo dei bravacci e don Abbondio: la pieve, gli orti…
Si esce dal complesso per seguire la guida, come dietro un pifferaio magico, nella via che porta all’”Amleto, una storia personale” della stessa compagnia di Campsirago, regia di Anna Fascendini, Giulietta De Bernardi e Michele Losi. Spettacolo itinerante che ha un preambolo “classico” in un palcoscenico-pedana, anche questo affacciato sul verde. Qui prende corpo il progetto di vendetta di Amleto. Si celebrano le nozze tra la madre Gertrude e lo zio Claudio, che ha preso il posto del padre scomparso due mesi prima. Una decina d’attori danno vita a una danza sabbatica attorno a una prigione di ferro. E’ il tempo per il cambiamento di Amleto. Il momento in cui i veri fantasmi non sono quelli del padre che compare sugli spalti del castello di Elsinore, bensì gli interiori. E’ l’inizio anche per lo spettatore, munito di cuffie in cui filtrano colonne sonore e voci di un intrigante viaggio immersivo nella natura e, specularmente, nel groviglio di sentimenti che agitano l’animo del principe, alle prese con “una questione personale” immensa. Avrà modo di trovare la forza necessaria per vendicarsi?
Quello a cui si assiste è un “Amleto” destrutturato: non c’è uno svolgimento lineare del dramma, tranne l’emergere di visioni e l’arrovellarsi dei dubbi. Lungo il percorso nel bosco, via via si viene accolti da stazioni, da corpi in esposizione, pezzi di una tragedia solitaria e senza vie d’uscita. Pubblico e privato coincidono spiazzando il giovane e disperato principe. Amleto vede l’ingiustizia di quelle nozze, illegittime ai suoi occhi, sentendo così come un peso schiacciante la responsabilità di dovere dare una risposta al padre defunto e al Paese privato di governo. Liberato pubblicamente l’eroe tragico si concentra sull’apparire, sulla dimensione del non essere, cercando di celare nel profondo la sua intimità nel tentativo di salvaguardarne la purezza.
Qui sta anche la grandezza di un personaggio come Amleto. Emerge infatti in questo modo l’umanità di un eroe-non eroe che desidera liberarsi dai dubbi, risolvendo lo scontro interiore tra pubblico e privato, facendo giustizia e prendendo il potere. Nel bosco il pubblico, diviso in due gruppi, cammina per sentieri diversi, sperimentando incontri differenti fino a ritrovarsi assieme, all’ora del tramonto, nella suggestiva scena del funerale di Ofelia, in un’oasi verde del bosco davanti a un orizzonte dai colori tenui, quasi evanescenti. E poi si riparte nuovamente immergendosi nei sentieri dove il buio avanza, testimoni di tempeste del cuore e i rimpianti per una vita, fino a raggiungere la stazione di partenza dove l’attore Sebastiano Sicurezza regala una interpretazione finale, intensa e sofferta del principe perduto.
Lo stesso format, ma con una evoluzione nella parte tecnologica viene presentato la stessa sera, in ore notturne nel bosco nell’allestimento di “Hansel e Gretel” , regia di Michele Losi, con il coinvolgimento di dodici artisti tra attori, costumisti, registi e sound designer. Tre attori raccontano la celebre fiaba accompagnando il pubblico fino alla casa di marzapane, in un viaggio tra piccole tappe, oggetti e immagini mentre nelle cuffie si segue il dialogo interiore dei due fratelli.
Fitto il programma del festival che alterna studi e progetti in progress accanto a lavori inediti. Come è il caso del claustrofobico ma potente “Abito” della coppia formata da Agnese Bocchi e Tobia Scarrocchia, resoconto al cardiopalmo di un menage paranoico vissuto dentro le quattro mura, visivamente delineate da una stretta parete di legno bianco dove c’è tutto: dagli armadi alle dispense con le stoviglie (il riferimento è naturalmente al lockdown). Due porte collegano la casa al mondo esterno e accentuano un diffuso senso di soffocamento. E’ un amore malato quello vissuto dai due concubini, giocato sul filo di una follia sempre in bilico, sul punto di esplodere. Lo spettacolo va avanti per scarti di tempo e accumuli. La coppia gioca ad inventare luoghi e situazioni, cambiando spesso il ritmo per esplodere in una danza furibonda, spezzata e nervosa come la relazione tra loro. Una dimostrazione di energia e carattere interpretativo che si riversa con forza sul pubblico (l’ambiente dove si rappresenta è assai ridotto) stordendolo e lasciandolo sorpreso.
Nella restituzione finale del laboratorio “Almeno nevicasse” Francesca Sarteanesi, ha guidato un gruppo di attori nella ricerca di un tempo più dolce, cercando di riflettere sulle parole usate nel quotidiano per ricercare sensazioni sfuggite. Ogni attore sfoggia un golfino contenente una o due parole ricamate. Alla fine allineati assieme sui loro pullover si leggerà una frase intera.
Oltre alle camminate performative nei boschi a contatto con la natura il festival è uscito dalla residenza per incontrare i pubblici di altri comuni della provincia di Lecco. A Sirtori, in una grande struttura di legno in mezzo a un boschetto di castagni secolari è stato presentato “Alfredino” di e con Fabio Banfo, regia di Serena Piazza. Un ennesimo esempio di teatro di narrazione (che in Italia sembra diventato un po’ come la musica andina di Lucio Dalla…) con al centro il primo dramma nazionale vissuto in prima persona da milioni di persone incollate davanti alla tivù, per seguire le telecronache degli inviati davanti al pozzo di Vermicino dove un bambino, Alfredino Rampi, precipitò e perse la vita. L’allestimento racconta per una buona parte quell’evento alla maniera del docuteatro, ricordando il disastro dei soccorsi e l’incapacità di gestire l’emergenza. Procedendo verso la fine il pezzo teatrale diventa però confuso, aggiungendo troppi elementi e situazioni. Dalle tremolanti ombre cinesi ai personaggi da stereotipo con panino e coca a rappresentare l’uomo della strada, con tanto di accento romanesco. Decisamente stonato poi un ritratto del Presidente Sandro Pertini apparso fuori contesto.
A Valgreghentino, altro borgo circondato dal verde del Monte Brianza, in una corte ricca di verde e quasi congelata in un tempo lontano è andato in scena l’elegante pezzo di teatro di figura “Lear e il suo matto” con Luca Redaelli gran cucitore di trame, da quella shakespiriana al racconto popolare che poi nella baracca sarà interpretata da splendidi burattini animati da un maestro come Walter Broggini. Nella vicenda tragica che oppone il Re Lear alle due terribili figlie Regana e Gonerilla (preferite a Cordelia che non aveva voluto partecipare alla gara di adulazioni), al centro si colloca il jolly, il Fool o Matto che accompagnerà Lear nel viaggio della sua follia fino a diventare saggio. Così come Gloucester solo grazie alla cecità riuscirà a vedere davvero.
Tornando ai work in progress da segnalare, di nuovo a Campsirago, “Vertigine della Lista”, delizioso lavoro in gestazione di Qui e ora residenza teatrale con la presenza sul palco di tre signore attrici-danzatrici (Francesca Albanese, Silvia Baldini e Laura Valli) e il giovane danzatore Lorenzo De Simone. Dietro una danza fatta di incontri e rimandi alla vita quotidiana c’è il marchio di fabbrica dei Sosta Palmizi, in particolare quella di Giorgio Rossi, e si vede. Figure coreografiche precise valorizzate dall’impegno encomiabile delle attrici-danzatrici non più ragazze. E’ uno spettacolo fatto di attenzione, precisione nei movimenti e soprattutto godibile coralità. In questo quadro l’inserimento del giovane e talentuoso danzatore è perfetto. De Simone apporta velocità e senso del ritmo, movimenti sciolti e bella energia. Giusto l’energia è la qualità che non difetta per nulla all’intero cast in un lavoro soggetto a una sicura crescita.
Per una esperienza spettacolare col botto, costruita con passione e dedizione per l’arte della scena, occorre fermarsi alla voce Frosini-Timpano, coppia di teatranti che a Campsirago, nel loro nuovo spettacolo allestito site specific per la Residenza, “Disprezzo della donna- il futurismo della specie”, mette in piazza, caso ormai quasi unico in Italia, un teatro che sveglia le coscienze. Elvira Frosini e Daniele Timpano sono diretti e non fanno sconti. Scavano nei punti oscuri per capire ragioni e motivi di un Paese che ha ancora il mito dell’uomo forte: quello del “quando c’era lui caro lei” e succedanei per capirsi. Scordando magari che quel signore così “forte” in realtà ha consegnato il suo stesso Paese a un destino di sventura e distruzione, diviso il popolo e gettata in guerra una intera generazione. C’è poco da meravigliarsi quindi, se nell’ascoltare questo strepitoso atto unico c’è chi sgrana gli occhi e si stupisce che un certo Marinetti abbia abbondantemente contribuito ad arare quel sostrato fascista che ancora, gratta gratta, esiste nel Belpaese. Solo così si possono spiegare il rifiuto dell’altro e del diverso, l’antisemitismo strisciante mai cancellato, il razzismo verso chi viene da luoghi di fame e povertà, come se l’Italia non avesse mai conosciuto la parola emigrazione. “Disprezzo della donna” è una documentata cantata che va a fondo nei luoghi mentali e ideologici del futurismo. Marinetti, “più fascista” del Duce, naturalmente è il primo ad essere stato studiato e analizzato per i suoi deliri maschilisti, a partire dal famoso “Manifesto del Futurismo” del 1909 e via continuando negli altri scritti. Ma vi figurano anche altri nomi, spesso celebrati per altri motivi, come Fortunato Deppero o Giovanni Papini. Il centro del lavoro è la condizione della donna.
Analizzando i testi che sono serviti a costruirlo si scopre come l’equazione donna uguale oggetto fosse largamente condivisa all’interno di un movimento che proprio partendo da posizioni così retrograde e reazionarie finì per rovinare sul piano politico e culturale. Nello spettacolo dei due attori c’è un distacco quasi brechtiano nel citare affermazioni e sentenze provenienti da quel mondo, per cui acquista maggior forza la lettura che, dopo un opportuno montaggio, enuncia e cita trasformando l’atto scenico in una bomba a miccia corta. Viene fuori in Marinetti e i futuristi una concezione dell’uomo e della donna lontana da qualsiasi idea di convivenza ed eguaglianza. Frosini e Timpano spiegano nelle loro note che “l’immaginario sulla donna che traspare in questi testi ci appare lontanissimo ma ancora riconoscibile ed attuale, quasi sempre fastidioso, se non intollerabile, perché ci son cose che non si possono dire, oggi, per buona educazione o per immaginarci progressisti, ma che ancora ci appartengono e 100 anni dopo sono qui, tra noi, in noi. Ma attorno al tema della donna si addensano anche tutti gli altri temi, altrettanto riconoscibili oggi: pacifismo, interventismo, la politica e la guerra, la marginalità dell’arte e degli artisti, i nazionalismi, il populismo, persino l’omofobia, l’industria del turismo l’individualismo esasperato. Tutte cose che riconosciamo”. Ironico, politico, coinvolgente e femminista, questo “Disprezzo della donna” è un gioiello. Una finestra spalancata sulla nostra storia rimossa, parla e spiega decenni di ideologia repressiva e autoritaria, illuminando nefasti luoghi comuni che molta della nostra società attuale conserva nel profondo. Mette inoltre in guardia sulla precarietà traballante, la fallimentare assenza di valori che segnano attualmente una società con poche speranze di cambiamento. Lo spettacolo è iniziato al tramonto. Elvira e Daniele, uno di fronte all’altro, mentre cala la luce della sera, si rilanciano la palla per un’ora a ritmo serrato. E un po’ come se si fosse al teatro Globe durante un qualsiasi spettacolo shakespiriano: gli attori, in straordinaria e armonica corrispondenza con un pubblico silenzioso, continuano a recitare mentre il buio, invadendo la corte, diventa totale.
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