Teatro
Teatro. 60 anni dopo il caso Mattei in un docudramma
L’autore genovese Ivano Malcotti rievoca la parabola del petroliere di Stato con accuratezza storica, ma senza pretendere di stabilire verità definitive. Il tema del conflitto tra il capitalismo italiano e quello anglosassone in tema di indipendenza energetica suscita riflessioni mai così attuali.
Il sessantesimo anniversario della morte di Enrico Mattei, vulcanico presidente dell’AGIP e poi dell’ENI, assassinato 60 anni fa, il 28 ottobre 1962, mentre sorvolava le campagne pavesi con un aereo aziendale su cui era collocata una carica di esplosivo pronta a esplodere all’azionamento del carrello, cade in un momento storico che rende la ricorrenza particolarmente significativa.
Da quasi un anno il mondo segue col fiato sospeso un conflitto che rischia di trascendere in una nuova guerra mondiale (per alcuni versi già è tale) e in cui gas e petrolio, branditi come un’arma dai paesi coinvolti, giocano un ruolo centrale.
Allo stesso tempo, oggi come allora, la guerra fa emergere in modo ancor più evidente la natura contraddittoria della NATO, che sotto la veste della coalizione militare occidentale a guida americana si rivela più una camera di compensazione segnata da contraddizioni interne abitualmente sopite e imbrigliate dalle diplomazie, ma destinate a emergere quando le tensioni intestine superano la soglia di guardia.
A ricordarcelo è un’opera teatrale di Ivano Malcotti, autore teatrale e poeta genovese da tempo impegnato nel campo del teatro civile e, professionalmente, in quello della teatro terapia. Si intitola “Dalla parte del gatto. Storia di Enrico Mattei” ed è una produzione del Teatro dell’Ortica di Genova che dopo un’anteprima nazionale al Teatro della Tosse debutterà venerdì e sabato, ancora nel capoluogo ligure, con la regia di Mirco Bonomi e gli attori Andrea Benfante e Paolo Drago nel ruolo rispettivamente di Mattei e di un giornalista che lo intervista. Lo spettacolo verrà ripreso l’anno prossimo all’interno della XI edizione del Festival dell’Acquedotto, sempre a Genova. Nella speranza – ci racconta Malcotti – che possa essere acquistato e andare in tournée anche in altre regioni e di “utilizzare il pretesto del sessantennale per suscitare un dibattito che politica e società civile finora mi pare abbiano abbondantemente snobbato”.
“Dalla parte del gatto” è una sorta di docudramma che, partendo dall’epilogo nei cieli di Bascapé e tornando a ritroso ripercorre le vicende della vita di Mattei. L’infanzia trascorsa nelle Marche, dove un giorno il piccolo Mattei assiste a una zuffa tra animali – due cani aggrediscono un “gatto spelacchiato” pur di non dividere con lui la propria ciotola di cibo – episodio che dà il titolo al lavoro di Malcotti. Poi l’esperienza di comandante partigiano nelle file dei resistenti cattolici. Finita la guerra la nomina alla guida dell’AGIP, la società fondata dal fascismo e diventata un rifugio di ex gerarchi, che gli americani vorrebbero chiudere e per le obsolete attrezzature della quale Mattei riceve una generosa offerta di acquisto, che rifiuta. L’ex partigiano, infatti, è venuto a sapere che a Caviaga, vicino a Lodi, nel 1944 le trivelle dell’AGIP si erano imbattute in un giacimento di metano, tenuto segreto dai repubblichini per evitare che cadesse nelle mani degli Alleati sbarcati in Sicilia e ad Anzio e ormai diretti a nord. Dal piccolo centro della Pianura Padana parte la caccia di Mattei a gas e petrolio nei giacimenti del Medio Oriente e del Nord Africa, di gas e di petrolio, dall’Egitto all’Iran all’Algeria.
Nel corso dell’intervista a cui si sottopone sul palcoscenico Mattei racconta di essere stato segnato dall’episodio della zuffa tra animali per un tozzo di cibo e di aver scelto di stare “dalla parte del gatto”. È una dichiarazione che riflette la comprensibile tendenza di Mattei a nobilitare il proprio operato e la politica energetica dell’Italia dipingendoli come un modo per aiutare i paesi più deboli a emanciparsi dallo strapotere del cartello petrolifero anglosassone delle “Sette Sorelle”, da molti considerato mandante della sua uccisione. Se l’ENI, che Mattei guidò dopo l’AGIP, effettivamente scelse una politica basata su una più equa suddivisione dei profitti coi paesi produttori – 25 a 75 contro il fifty-fifty praticato dalle grandi compagnie petrolifere – lo fece per una strategia di mercato dell’imperialismo italiano, non certo per un’attitudine progressista. Del resto si trattò di una più generale strategia dei governi della Prima Repubblica e in particolare della DC, a cui Mattei, pur “usando i partititi come taxi”, restò sempre vicino. Strategia spiegata dalla collocazione geopolitica dell’Italia, lungo la “cortina di Ferro” ma anche al centro di un Mediterraneo attraversato da tensioni e conflitti – si pensi solo a quelli legati alla questione palestinese – e intesa a evitare all’Italia di diventarne, come successe ad altri paesi, uno dei campi di battaglia.
Mattei, insomma, non fu un filantropo. Fu piuttosto esponente di una borghesia italiana che, incoraggiata dal boom economico del dopoguerra, riuscì per un breve periodo a dimenticare la propria vocazione di “capitalismo straccione” e a perseguire un progetto di espansione della propria area di influenza politica, economica e militare anche battendosi per l’indipendenza energetica, vera e propria stella polare della sua ENI, a costo di scontrarsi con altre potenze mondiali, inclusi i “liberatori” americani. Di questa hybris, come in una tragedia greca, Mattei fu vittima sacrificale, probabilmente per mano di chi all’interno dell’ENI e dell’imperialismo italiano era più sensibile alle sirene di Washington.
Ivano Malcotti utilizza il copione teatrale per ricostruire con precisione storica il contesto in cui si sviluppa la vicenda di Mattei e le sue estreme propaggini, fino alla riapertura della vicenda processuale negli anni Novanta e alla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, consulente del regista Francesco Rosi per “Il caso Mattei”. Lo fa senza cadere nella pretesa di spiegare i dettagli di una vicenda di cui è chiaro il significato complessivo, ma i cui dettagli potrebbero rimanere per sempre avvolti nell’oscurità e rinunciando a brandire la clava del cui prodest come chiave interpretativa capace di sbrogliare anche la più intricata matassa. Si limita a citare fatti in qualche modo accertati, testimonianze e ipotesi e lascia allo spettatore il compito di farsi una propria idea. E così facendo traccia l’affresco di un’Italia e di un mondo che non ci sono più e che intere generazioni ignorano, tralasciati anche dai programmi scolastici, un’Italia e un mondo che la fine della Guerra Fredda hanno spazzato via e che tuttavia hanno ancora molto da insegnarci. Cambiano gli assetti geopolitici globali, non i principi fondamentali che li determinano e regolano il funzionamento del capitalismo globale e il conseguente comportamento degli Stati.
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