Teatro

Sul Pubblico a teatro (note da un convegno)

5 Ottobre 2017

In occasione dell’apertura del Festival dello Spettatore 2017, c’è stato a Firenze un incontro dedicato a “I Pubblici dello spettacolo”. Il seminario, aperto da Monica Barni, vicepresidente della Regione Toscana, Massimo Ferri, presidente della Rete Teatrale Aretina e Beatrice Magnolfi, presidente di Fondazione Toscana Spettacolo, ha visto come relatori Roberto Canziani, Silvia Ranfagni, Rodolfo Sacchettini, Curzio Maltese, Virginie de Crozé, responsabile dei progetti di coinvolgimento del pubblico del Festival di Avignone, Pierluca Donin, direttore di Arteven, Laura Caruso, curatrice di Spettatori Erranti. Patrizia Coletta, direttore di FTS, ha concluso i lavori coordinati dal critico e giornalista Gherardo Vitali Rosati.

Gli oltre 90 spazi teatrali – che insieme formano una sala di 23.000 posti – consentono al circuito della regione Toscana di creare un sistema di relazioni istituzionali vasto e differenziato: il risultato dell’azione si è tradotta nell’attività del 2016-2017 in 44 stagioni di prosa, 27 stagioni e rassegne di teatro ragazzi, 6 rassegne di prosa e multidisciplinari, 5 rassegne di danza, 4 rassegne estive, per un totale di 738 recite, alle quali si aggiungono 133 iniziative di formazione del pubblico. Un impegno che ha consentito di raggiungere 187.330 spettatori, con una percentuale di riempimento delle sale dell’80%. Naturale dunque, vista la mole dell’attività, che ci fosse molta partecipazione al Seminario.

Quel che segue è il mio intervento, forse un po’ lungo (non sono riuscito a riferirlo tutto durante l’incontro, richiamato all’ordine e al rispetto dei tempi dall’amico Gherardo Vitali Rosati). Dunque lo pubblico qui.

Il teatro Guglielmi di Massa

Sul Pubblico.

Trovo sempre interessante quanto viene fatto in Italia nella prospettiva di una formazione del pubblico: scopro ovunque iniziative efficaci, molte davvero geniali. Penso che gli operatori di settore stiano lavorando molto bene, a partire da quelli presenti a questa iniziativa organizzata da Fondazione Toscana Spettacolo.

Siamo tutti d’accordo che il teatro faccia bene: al punto che, oggi, ci sono più persone che il teatro lo fanno di quante lo guardino da spettatori. Le famose parole d’ordine di Giorgio Testa (il decano dei formatori degli spettatori) ovvero quel “Vedere-Fare-Capire” teatro, sulle quali ci siamo formati tutti, sembrano oggi sbilanciate più sul “fare” che non sul “vedere”.

Ma è bene non accomodarsi sugli allori, e continuare a interrogarsi su quanto si può fare ancora. Chiedersi, insomma, di cosa parliamo quando parliamo di pubblico.

Pensiamo alla storica battaglia dell’Hernani, di Victor Hugo, nella Parigi del 1839. E pensiamo a Grotowski.

La “battaglia” fu scientemente preparata: il barone Taylor, direttore della Comédie, distribuì biglietti omaggio ai sostenitori del Romanticismo. Fu un tutto esaurito, un sold out, come si dice oggi. Ma Hernani chi se lo ricorda? Chi lo mette più in scena? Il lavoro fu un pretesto: un successo di botteghino senza pari, ma oggi del tutto dimenticato.

Al contrario, Jerzy Grotowski ricorda che alle prime uscite del suo gruppo, nel teatrino delle 13 file, ad Opole, c’erano 7-8 spettatore al massimo.

Teniamo fermi questi due estremi e proviamo a interrogarci sull’esperienza di spettatore. Cosa cerca lo spettatore?

Il critico come spettatore professionista e allenato, è in fin dei conti parte del pubblico. Allora possiamo usare la nostra figura spuria, per costatare un cambiamento simbolico: in epoche recenti siamo passati, nelle recensioni, dall’uso del “noi” a quello dell’“io”. Il cambiamento non è solo stilistico, e dovuto ai codici del web e dei blog, ma anche significativo perché spinge sempre a chiedersi a nome di chi parliamo. L’artificio retorico del “noi”, che presupporrebbe un comune sentire, una condivisione reale della percezione, un pubblico di cui il critico si fa (faceva) portavoce, è oggi impossibile.

Ecco dunque un altro tassello da mettere in conto, su cui torneremo: formiamo il pubblico o il singolo spettatore? E che fa lo spettatore?

Oggi, sulla scia di Jacques Rancière, si dice che lo spettatore è “attivo”, addirittura “emancipato”. Benissimo, per carità: però vale la pena ricordare che il nome deriva, si sa, dal latino “Spectare”, e indica l’attività di colui che osserva, che guarda, e che non prende parte. Qualcuno che è, semmai, testimone di un avvenimento. (Poi sarebbe da chiedersi con che sguardo guarda, se innocente o prevenuto, se spia o sonnecchia, ma qui andiamo troppo lontano). E guardare era il compito dello spettatore greco (lo sappiamo, Theatron: da Thestai, luogo in cui si guarda). Curioso, invece, che in inglese Audience derivi dal latino “audire”, ossia ascoltare. Insomma, o guarda o ascolta, ma raramente la platea era chiamata a agire.

L’esperienza del pubblico è, comunque, nodale per definire il teatro: non si può dare teatro senza pubblico. Lo ribadiscono sempre i maestri in qualsiasi epoca. Grotowski diceva che «il teatro è qualcosa che accade tra l’attore e lo spettatore»; Peter Handke, in un’opera come Insulti al pubblico (del 1966) parlava di «relazione indispensabile» e Tim Etchells, di Forced Entertainment dice che il teatro è «gli attori e il pubblico cui devono parlare» (1999).

Allora, il “pubblico” non dipende dall’edificio, dalla sala, dalla posizione in platea o nei palchi: ma è teatro esso stesso. Ce lo ricorda Brook, è possibile togliere tutto al teatro, tranne l’attore e lo spettatore. Eppure: il pubblico non mai stato trattato con deferenza come oggi. Omaggiato, inseguito, coccolato.

E se la relazione e il modo in cui si tratta il pubblico è un tema ricorrente, nodale, fondante, in tutto il novecento dobbiamo dire, a chiare lettere, che tutto ciò che è stato “avanguardia”, cambiamento, innovazione ha spesso operato delle rotture aspre con la platea. Gli scossoni dell’Avanguardia sono privi di consenso e dunque dei “grandi numeri”. Allora, dobbiamo avere molto chiaro cosa ci interessa, oggi, nella relazione scena-platea. L’innovazione spesso non va d’accordo con il botteghino.

 

Al Metropolitan di Piombino

Detto tutto ciò, restano le domande, i nodi irrisolti, le questioni che mi piace porre a quanti operano nel settore.

1) Della prima si è detto: parliamo di pubblico e ci interessa il singolo spettatore. Cerchiamo risposte collettive o individuali? L’audience è fatta di singolarità, e non è detto che la risposta del pubblico sia quella dello spettatore. La singolarità è complessa, molteplice, sovrastrutturale (io sono uomo, professore, laureato, figlio, padre, bianco, eterosessuale, piccoloborghese: tante identità diverse cui corrispondono risposte e formazioni diverse). E c’è, diametralmente opposta, la percezione collettiva della condivisione, ossia l’osmosi, la suggestione contagiosa di comunità temporanee, provvisorie, spesso superficiali, dove l’io si annulla nell’entusiasmo o nel rifiuto collettivo. Abbiamo studiato tanto le teorie della ricezione: già Marvin Carlson parlava nel 1989 di un teatro creato pensando a un pubblico passivo, tentativo presto fallito, a fronte del contributo che invece il pubblico può dare all’evento. E poi Jauss, Iser, Eco, Stanley Fish, Barthes, fino a Rancière, con lo spettatore emancipato del 2007, che spinge a ripensare completamente il rapporto tra performance e spettatore, superando le storiche dicotomie che hanno connotato questo rapporto (attività/passività; parola/ascolto etc). Ma già Peggy Phelan, nel 2000, compiva una analisi della ricezione di una performance come atto creativo, suggeriva una narrazione della ricezione in tutte le sue sfumature emotive e interpretative (che si può pure criticare, essendo così tanto “egoriferita”). Di questo siamo consapevoli da tempo: il Wooster Group realizzava dei lavori “parziali”, non perché non finiti, ma perché chiedevano al pubblico di attuare la moltitudine di possibilità che si potevano aprire. L’atto di interpretaazione diventa performance: al punto che Romeo Castellucci parla di percezione corticale del singolo spettatore, la cui mente è il palcoscenico definitivo. Come “formare” la percezione corticale?

2) La contestazione, le rivolte e il rifiuto: la reazione è un elemento interessante. Chi si rivolta a cosa? Quando gli spettatori prendono posizione, oltre che prendere posto in sala? Ricordo ancora la protesta di una fascia di pubblico del Teatro Goldoni di Venezia di fronte all’Arlecchino di Antonio Latella. Ci si rivolta in nome del classicismo o in nome del nuovo? Anche qui si apre un abisso: cosa è tradizionale o cosa è nuovo? E poi: chi si rivolta più, chi protesta più? Un pubblico ben formato protesterebbe? Inoltre, il fatto che il pubblico sia spesso assuefatto o pronto a tutto denuncia uno stato simbiotico che implica un modello implicito di spettatore. Certo teatro parla solo a chi già sa, o a chi è già d’accordo. Fino al parossismo del pubblico “incestuoso”: attori in platea (momentaneamente disoccupati) che applaudono gli attori in scena. Una situazione non rara nei teatri romani.

3) La retorica della presenza. La preoccupazione della presenza e del coinvolgimento del pubblico sta diventando ossessione, e dunque stilema: dall’aggressione alla compassione, dallo sguardo negli occhi al gioco di gruppo, dalla manipolazione sensoriale al ricatto emotivo. Un numero crescente di spettacoli inizia riaffermando il patto attore-spettatore, con un gioco di captatio benevolentiae spesso stucchevole, mentre apparati scenografici tardo-brechtiani (le luci a vista, lo specchio in scena, etc) denunciano la teatralità e dunque la compresenza di performer e pubblico. I precedenti storici, ovviamente, non mancano: dalle performance e dagli happening anni 60, da Augusto Boal e il teatro dell’Oppresso al mitico Paradise now del Living, dal Faust di Grotowski con gli spettatori al tavolo della mensa, alle provocazioni di Marina Abramovic fino a Rimini Protokoll, Roger Bernat o alla recentissima Medea Sulla Strada per soli sette spettatori chiusi in un furgoncino. È in buona sostanza l’arte relazionale teorizzata da Nicolas Borriaud: la creazione di ambienti in cui la gente può partecipare in attività condivise e interagire. O sono ancora i vecchi schemi dei Boy Scout, come suggerisce quel genio di Stephan Kaegi. Vale la pena interrogarsi, però, sulla qualità del risultato e provare a capire cosa accadrebbe se l’interazione non riuscisse.

4) La frustrazione dei programmatori: il problema è lo scarso interesse del pubblico per quel che loro credono importante e bello. Che fare se il pubblico non risponde? Insomma se preferisce, che so, Enrico Brignano a Jan Fabre? Diciamo agli spettatori che sbagliano? Che fanno male ad applaudire? Che non devono proprio andarci a vedere Brignano? E perché?

Allora, di cosa parliamo quando parliamo di audience development (ma poi perché sempre gli anglismi)?

Di incoraggiamento a frequentare il teatro. Non basta il teatro scuola? Se la fascia dei ventenni non va a teatro è il fallimento del teatro ragazzi? Eppure vantiamo delle eccellenze mondiali in fatto di teatro per l’infanzia e la gioventù. Ci sono dei festival che funzionano, come il 20/30 di Bologna  che recupera quella fascia di tardoadolescenza restia al teatro o Nessuno Resti Fuori di Matera, che insiste sulle periferie, fatto da giovanissimi per giovanissimi. Sono solo due esempi di tanti. Ma poi? Basta abbassare i prezzi, svendere gli abbonamenti? Forse serve un ricambio “generazionale”, nelle modalità e negli approcci, non solo nel pubblico, ma anche in chi fa promozione e produzione per giovani?

– Di attenzione ai nuovi linguaggi. In fondo è un indottrinamento alle estetiche complesse del contemporaneo. È giusto?

– Di incassi garantiti. Formare gli spettatori significa anche garantirsi un pubblico che il teatro può permetterselo. Ma in questa prassi si rischia di escludere fasce intere di popolazione, di ceti sociali e etnie diverse. Il rischio è di reiterare il sistema borghese livellato sulla preparazione media, una popolazione di bianchi e integrati che va a sostituire la vecchia borghesia agiata di cui scriveva Roberto De Monticelli negli anni Sessanta.

 

Il pubblico dei bambini

Dunque a cosa educhiamo?

Cerchiamo davvero un pubblico volenteroso, partecipe, preparato, comprensivo e rispettoso? Uno spettatore sempre disposto a giocare? Scambiamo la partecipazione con la direzione artistica? Scambiamo la quantità con la qualità?  E una volta formato, il pubblico, che teatro avremo?

Mi ricordo le immagini del Teatrino della Barafonda in Roma di Federico Fellini: la gattata, la pernacchia, lo sberleffo, «l’avanspettacolo come punto di incontro tra il circo massimo e il casino». Era la dimostrazione appassionata di un’adesione coerente e critica, di attenzione viva, di partecipazione reale e non indotta. E ricordo Petrolini quando raccontava che nel baraccone-teatro di piazza Guglielmo Pepe, pieno di lottatori, sirene, sonnambule e donne-serpente, il pubblico «mangiava i lupini rinsaviti nel sale e buttava le bucce sul palcoscenico».

Per ritrovare una simile, sincera, popolare adesione, occorre forse tornare alle manifestazioni di piazza, al teatro in strada, al coinvolgimento interculturale e interclassista di certo teatro sociale. Al rito-gioco-festa che è alla base del teatro. Ai comici dell’arte che facevano spettacolo sul palchetto 4×3 in mezzo a un mercato mentre i comici eruditi stavano a corte.

Oppure rivedere sempre di nuovo il video sul viaggio dell’Odin Teatret in Salento, nel 1974, e osservare attentamente non tanto gli splendidi attori, quanto i volti degli spettatori.

Occorre tornare a quei festival della marginalità e della necessità, ne ho già citati alcuni (di cui certo fa parte il Festival dello Spettatore di Arezzo, che ci ospita con la Fondazione Toscana Spettacolo) che ribaltano il concetto di fruizione. Ritrovare insomma quei riti laici di un gioco collettivo che si fanno festa straordinaria.

Perché qui è il nodo centrale. Il fatto che il pubblico diserti il teatro corrisponde al non andare a votare, alla sempre più scarsa affluenza ai seggi elettorali. Il teatro è luogo di cittadinanza, e di democrazia. Serve formare il pubblico non tanto e non solo per riempire gli spettacoli, quanto per ritrovare il senso della comunità, dello scambio anche dialettico o feroce ma sempre democratico. Si tratterebbe di proporre un nuovo concetto di Catarsi: non solo la purificazione delle passioni attraverso la loro rappresentazione, come voleva Aristotele, ma rinnovamento del concetto stesso di società attraverso la sua rappresentazione. Chiederci che teatro lasceremo da qui a dieci anni, così come dobbiamo chiederci che città, che paese avremo tra dieci anni. Viene quasi da dire che il teatro debba garantire quello Ius Soli che il governo non riesce ad affermare: dare cittadinanza attiva, questa sì, a chi oggi è solo spettatore.

 

 

 

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