Teatro
Sul palcoscenico per salvare il mondo
I grandi attori nelle loro solitudini disegnano l’icona segreta e oscura del mondo, quella che gli umani non riescono a vedere. Se non a brandelli e per indizi fuggitivi. Solo il grande attore, ultimo dei vedenti in un mondo di ciechi, può farlo. Sulle tavole di un palcoscenico, avvolto nel buio totale, vaga quasi fosse una monade solitaria nel cosmo, liberando pensieri e sentimenti come parole in libertà che poi lasciano il segno per i posteri a venire. E’ una solitudine speciale, leonina e ironica, ma così dentro questi tempi fuggenti e precari quella che disegnano Claudio Morganti, uno dei nostri principi della scena assieme a una lady unica e ammaliante come Elena Bucci in “La recita dell’attore Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto”, spettacolo straordinario e unico, presentato all’interno di un cartellone autunnale orgogliosamente indipendente come è quello degli Intrepidi Monelli di Cagliari. Una piccola compagnia che opera in un quartiere urbano periferico dentro uno spazio costato sacrifici e anima, poco calcolato dalle istituzioni, forse più interessate a seguire chi dà risonanza e visibilità elettorali. Da otto anni monta una rassegna dove si alternano big e debuttanti, mostri sacri e giovani promesse.
Nei giorni precedenti al duo Morganti-Bucci ha conosciuto l’arte di Joseph Clark e visto allestimenti stimolanti come “L’uomo che sognava gli struzzi” di Giuseppe Vigna, regia di Giulia D’Agostini e il sorprendente corpo a corpo, tutto femminile di due brave attrici, Anna Antonini e Meri Bracalente in “Gin Gin. Commedia con dramma in penombra”, un testo efficace e nervoso di Rita Frongia punteggiato da imprevedibili colpi di scena. A ottobre sono attesi la rivisitazione di “Mistero buffo” di Elisa Pistis, “Pseudolo” da Plauto, di e con Francesco Pennacchia. A novembre in lista Actores Alidos, Pietro Sparacino, “Arenera” degli stessi Intrepidi Monelli, regia di Sergio Piano e gli inglesi The Waltzing Matilda Players. A dicembre infine Marta Proietti, Pierluigi Tortora, Velia Lalli e ancora i padroni di casa con “Mudu”.
Spettacolo di grande forza, purtroppo poco visto, “La recita dell’attore Vecchiatto” invece dovrebbe essere obbligatorio per i giovani attori _ soprattutto quelli ancora non troppo intontiti dalla tivù o imbambolati dalle sirene dei circuiti _ e gli spettatori che intendessero riprendere la voglia di osare a teatro.“La recita” è infatti uno di quei testi talismano senza età, buoni per tutte le stagioni, ma guarda caso soprattutto per l’ultima, quella in cui il “mostro” rischia concretamente di “essere risvegliato”. E quale possa essere questo “mostro”, anche di questi tempi lo ricorda proprio il teatro del piccolo comune in provincia di Reggio Emilia dove una lapide recita: “Rio Saliceto che cacciò il mostro nazifascista – da queste terre da queste case – da questo pane da questo sangue – giura – ai sette figli annientati nei lager – ai ventuno caduti combattendo – per la certezza dello splendido aprile – di lottare unito come ieri come sempre – perché il mostro non torni”. Lo spettacolo è così, anche e soprattutto, un esercizio di autocoscienza collettiva: parla della vita e del tempo, come dei nostri miserabili giorni. E non solo per l’espediente di accomunare tutti, attori e pubblico in una sala da cabaret weimariano: pochi tavoli presi d’assalto attorno al ridotto palcoscenico, bicchieri di vino e grappoli d’uva offerti come viaggio dentro un mondo che sta per scomparire. Il capolavoro di scrittura reinventato da Gianni Celati nel testo, godibile nella lettura e già gravido di segnali obliqui, nella messa in scena di Morganti diventa potente e teatralmente visionario, mettendo al centro due attori sul viale del tramonto. Si mescola pubblico e privato in questa pièce, che spesso sfiora la farsa, agìta e interpretata davanti a un leggio come fosse un’operazione chirurgica o l’esecuzione musicale della partitura di un melodramma.
Carichi di gloria e onori dal Nuovo Mondo, _ Argentina e Venezuela sino agli Stati Uniti _ i coniugi Vecchiatto tornano in una Italia in pieno decadenza culturale. Il ritorno è cioè di quelli con l’amaro in bocca. Forse l’organizzatore ha sbagliato teatro e la coppia di artisti si è trovata in campagna tra maiali e auto che sfrecciano veloci, un luogo sbagliato dove non c’è nessuno ad attenderli. Un pubblico invisibile che arriverà durante la recita a contare sei spettatori, ma cosa importa? E’ qui il redde rationem. Ultimo atto sublime e straziante con due attori che recitano legati precariamente al filo esile della vita. Vecchiatto urla e declama a tratti come Carmelo Bene, ancora in scena a compiere il suo dovere quasi fosse un Lawrence Oliver e/o un Bernhard Minetti, grandissimi attori al cui ricordo il mondo dovrebbe sempre inchinarsi.
Reclama orgogliosamente lo spazio necessario e legittimo per la sua arte, senza risparmiare le critiche ai potenti, vecchi e nuovi, in folgoranti e acide accuse. “Questo Paese, nazione, chiamato Italia, patria? Ma che patria d’Egitto! Stige di putridi governanti! Regno della notte dell’anima!” sferza così Attilio. Durissimo con i giornali. “Le parole dei giornali si sono infiltrate nei pensieri! Sì le parole dei giornali, e noi siamo impantanati nelle parole, non ne usciamo…” dice Vecchiatto rivolgendosi all’unica spettatrice presente in quel momento in sala. E premurosa la moglie Carlotta spiega: “Capisce signora? Quasi tutti ripetono le parole dei giornali senza provare ribrezzo, dice mio marito…”.Procede così, in modo quasi surreale la recita al teatro di Rio Saliceto, tra incipit di farsa e dramma, spettatori che si affacciano per caso. Spettatori che restano e vanno via in silenzio. Volano gli anatemi di Vecchiatto, che non legge i sonetti ma fa a pezzi la propria vita, incassando le frecciate e le accuse di Elena, donna innamorata e fedele, tradita da mille amori garibaldini, ma dall’attore mai abbandonata. Donna, madre e amante con gli occhi attenti alla vita terrena. Che tutto legge, aiutando a decifrare la realtà circostante con premuroso senso materno e necessaria difesa dell’economia familiare, accompagnando e guidando la coppia nel melanconico finale di partita.
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