Teatro

Studi teatrali, a che punto siamo?

15 Luglio 2017

A chiusura di un anno accademico, abbiamo pensato di domandare a Lorenzo Mango, professore ordinario di Storia del Teatro all’Università di Napoli “L’Orientale” e presidente della Consulta Universitaria Teatro, di raccontare quale sia lo stato degli studi di teatro in Italia. Forte di una tradizione che conta nomi illustrissimi – dal lavoro fatto in passato da Giovanni Macchia a Roma, Mario Apollonio a Milano, Giovanni Getto a Torino, e poi da Ludovico Zorzi, Cesare Molinari, Ferruccio Marotti ed altri – lo studio di teatro nelle Università italiane è ormai disciplina di alto livello scientifico. Dai pionieri di allora, passando per una svolta metodologica degli anni Sessanta del Novecento e un’accelerazione nel decennio successivo, il complesso oggetto “teatro” è stato considerato da più prospettive. Allora, chiediamo a Mango, come fare storia del teatro oggi?

«In Italia abbiamo una storia degli studi teatrali particolarmente ricca e stratificata, che viene da lontano, ed è tra le più importanti a livello internazionale. Una storia che ha un momento di snodo attorno agli anni Sessanta, ossia in una fase di studi in cui si voleva mettere in giusto rilievo la specificità del teatro rispetto agli ambiti letterari. Da allora, questo è un tratto caratteristico degli studi teatrali italiani. Ma altri elementi sono rimasti costanti, anche rispetto al panorama internazionale».

Quali?

«Innanzi tutto un forte rapporto con la Storia. Da un certo momento in poi, gli studi di matrice anglosassone, i cosiddetti “performance studies”, ossia quegli studi che tendono a lavorare su un concetto molto dilatato di teatro, hanno in qualche maniera messo in discussione i concetti di specifico teatrale e di storia teatrale. Cosa che, invece, da noi è rimasta molto forte, anche se naturalmente non siamo estranei alle “teorie della performance”. Abbiamo insomma una caratteristica peculiare nella necessità di fare la storia, anche aprendo a prospettive e metodologie diverse, come il rapporto tra teatro e neuroscienze, o gli studi legati alla dimensione performativa».

I non addetti ai lavori si chiederanno se si possa o meno fare storia sul presente…

«In effetti è un tema complicato. Per fare un esempio: con un gruppo di lavoro dell’Università di Napoli “L’Orientale”, abbiamo provato a fare un percorso di storicizzazione del “Nuovo Teatro” italiano. E l’abbiamo fatto rispetto a un lasso di tempo determinato, quello che va dal 1959 al 1985. Se dovessimo invece lavorare su un’effettiva storicizzazione del presente, la ricerca diventerebbe più complessa. La storia ha evoluzioni e modalità che a volte non siamo in grado di cogliere nei fenomeni che ci circondano mentre vi siamo ancora immersi dentro. Ma è importante che, quando entriamo in rapporto con eventi scenici o creativi significativi, facciamo la scommessa di leggerli in relazione al passato recente e meno recente. Invece, mi sembra che questo accada poco: ogni volta che ci troviamo di fronte a uno spettacolo, a una impresa teatrale, si tende a considerarla solo per quello che è, o al massimo tenendo presente il contesto che la circonda, che è indubbiamente importante. Raramente la si mette in rapporto con la storia. Questo non per dire, banalmente, se qualcosa sia stato già fatto meno, oppure per trovare rimandi e similitudini, quanto per cercare di delineare il percorso lungo cui si muovono le esperienze contemporanee. In questo senso, quindi, si può distinguere lo storico dal critico teatrale. Mentre quest’ultimo è chiamato soprattutto a testimoniare e raccontare il presente nel suo accadere, lo storico dovrebbe cimentarsi col contemporaneo per fornirne una interpretazione che lo metta in una prospettiva più allargata in grado di mettere in gioco per l’appunto la storia. Un elemento importantissimo questo in una stagione di passaggio come l’attuale (e non solo per il teatro)».

Abbiamo chiamato in causa il lavoro fatto dal gruppo di ricerca sul “Nuovo Teatro” – Daniela Visone, Salvatore Margiotta, e Mimma Valentino, che hanno prodotto tre ampi volumi (editi da Titivillus) sulla storia recente della scena italiana, opere importanti dunque anche per capire il presente. Ma ha ancora senso parlare di “Nuovo Teatro”?

«Altra bella domanda. “Nuovo Teatro” è un’espressione utilizzata ormai in maniera condivisa per individuare una “stagione” che copre un lasso di tempo che parte dal 1959 e arriva fino agli anni novanta. Ma negli anni quella definizione si è dovuta confrontare con altre: teatro sperimentale, teatro di ricerca, Avanguardia. Addirittura possiamo dire che negli anni sessanta e ottanta si parlava più spesso di teatro d’avanguardia che di “Nuovo Teatro”, anche se il termine è in quegli anni che viene coniato ed utilizzato per opporsi a teatro cosiddetto ufficiale. Esiste qualcosa oggi che sia catalogabile come Nuovo teatro? Non credo: tenderei anzi a limitarne l’uso a quella pagina storica. Viceversa, ci sono oggi molte esperienze teatrali che usano parametri linguistici richiamabili a quel momento storico. È continuità? È sviluppo? Diciamo che c’è una cosa che distingue la stagione presente dalle passate, ed è una distinzione concettuale: la generazione degli anni sessanta (ma anche quella dei due decenni successivi) ha lavorato per la “fondazione” di un linguaggio. Vi era una sperimentazione che voleva creare un linguaggio espressivo che non si basasse più sui criteri basici della rappresentazione, messainscena e interpretazione. Quel linguaggio si è trasformato oggi in una lingua parlata. Quel che possiamo dire è che il teatro contemporaneo che possiamo ricollegare al Nuovo teatro o all’avanguardia parla la lingua che è stata formata allora. Il che non gli toglie né di importanza né di originalità, è solo una disposizione concettuale. Mi sembra che oggi non ci sia il problema di fondare un linguaggio ma di parlare una lingua e di farlo nella maniera più personale e stimolante possibile. Una lingua che, oltretutto, si confronta con le altre lingue del teatro. Non ci scordiamo che tutte le avanguardie, anche quelle recenti, hanno sempre avuto la pretesa ideologica di abolire le altre lingue del teatro. Oggi invece abbiamo un teatro fatto di tanti e diversi modi di parlarlo e, in questo ambito ampio, esiste una lingua inventata dal “Nuovo Teatro” di allora».

Torniamo a quel gruppo di lavoro: all’Orientale, come ovviamente in altri Atenei, si possono dunque sviluppare delle buone pratiche. Da Presidente della Consulta Universitaria, quali sono i punti di forza e quali le criticità degli studi di teatro in Italia?

«Occorre dare due risposte. Da un primo punto di vista, la Storia del Teatro si è sufficientemente radicata nell’Università italiana: non è più una disciplina d’eccezione come poteva essere, invece, fino a pochi decenni fa. È diffusa sia geograficamente – siamo presenti in tutto il territorio nazionale – sia in ambiti diversi: a partire dai Dams, attivi più o meno ovunque, grandi o piccoli, storici o nuovi che siano. Dall’altro punto di vista, invece, c’è una criticità legata al sistema culturale e universitario nel suo complesso di cui anche noi storici del teatro paghiamo il prezzo. Assistiamo, infatti, a una grande difficoltà nel valutare adeguatamente l’importanza della cultura umanistica: sembra quasi un lusso che un Paese studi cose diverse da quelle immediatamente applicabili al mondo della produzione e del profitto. Viceversa, la cultura umanistica ha una funzione strategica fondamentale perché attiene all’identità culturale di un popolo. Questo porta a situazioni davvero preoccupanti. L’impressione che si ha è che la classe dirigente del nostro paese non abbia un progetto preciso per l’Università. Voglio dire un progetto di qualsiasi natura, positivo o negativo che sia, ma che, viceversa, navighi a vista e agisca spesso a caso e prendo ad esempio, uno tra i tanti, proprio la vicenda del gruppo di lavoro che hai voluto citare.  Avevamo, all’Università Orientale, un Dottorato di Ricerca in Storia del Teatro, fondato da Claudio Vicentini, in cui convergevano non solo i colleghi di Teatro della nostra Università, ma anche docenti di teatro di altre Università e alcuni colleghi di Letterature straniere con interessi teatrali. Dunque, il nostro era un piccolo corso di Dottorato con interessi multidisciplinari su un tema specifico. Proprio all’interno di quel Dottorato abbiamo dato vita al gruppo di ricerca: i dottorandi hanno lavorato per tre anni su quei temi, facendo libri basati su documenti, frutto di studio e analisi che non si possono fare se non c’è una struttura alle spalle che ti sostiene. Ma non solo: da quel Dottorato sono usciti molti altri libri di livello. Bene, questo Dottorato è stato chiuso, come tanti altri in Italia, non per una scelta politica, né dell’Università né del Ministero, ma per una semplice e banale norma: da una certa data in poi, ogni singolo Dottorato doveva garantire almeno sei borse di studio l’anno. E nessuna Università è in grado di mantenere un tale sforzo economico su tanti Dottorati, i quali, così, sono stati così molto spesso accorpati in un unico Dottorato dipartimentale fatto di tante materie diverse, con poca o nessuna capacità di specializzazione. Ecco una criticità, un solo esempio per chiarire lo stato delle cose: un percorso interessante di studio è stato chiuso per una semplice norma burocratica, senza una ragione progettuale specifica ma basandosi su elementi sono numerici, economici, accidentali, che <z scombussolato la nostra come d’altronde tante altre realtà».

Eppure in Italia c’è tanta domanda di studio e pratica teatrale. Sono molti i giovani che affollano i corsi universitari e quelli di teatro, tante le domande per le Accademie, numerosi i corsi per attori e attrici. Allora, quali prospettive per il teatro “studiato” e per quello “fatto”?

«Beh, intanto noi continuiamo a tenere la posizione! I Dams, i nostri corsi, esistono e resistono. Sono convinto, poi, che ogni corso di laurea in materie umanistiche, sia letterarie che linguistiche, dovrebbe avere un insegnamento obbligatorio di Storia di Teatro, quale complemento fondamentale. Mi rendo conto che questo fa parte più dei desideri, delle “buone intenzioni”, che non di reali prospettive, anche considerando che il personale universitario italiano è diminuito del 20% nel corso degli anni. Allora, sembra difficile parlare di crescita o di sviluppi. Per quel che ci riguarda, teniamo alto il livello di studi e si mantiene alta la soglia d’ingresso per i giovani che vogliono studiare il teatro. Invece, va detto che, generalmente, l’Università italiana non è attrezzata per insegnare il “fare” teatro. C’è però una novità che potrebbe essere considerata. Nella riforma di settore voluta dal Mibact, i nuovi Teatri Nazionali devono obbligatoriamente occuparsi anche di formazione. Questo elemento non è stato ancora affrontato appieno. Non ci sono, tranne forse pochissimi casi, esempi di collaborazione tra quegli importanti teatri e le università per quel che riguarda la formazione storica e teorica. Non dimentichiamo che non si impara a fare gli attori solo recitando. Allora, creare rapporti strutturali tra i Teatri Nazionali e gli Atenei potrebbe essere utile per dare una formazione più ampia, ai giovani attori. Sarebbe un buon punto d’incontro e forse una nuova prospettiva per il futuro».

(Nella foto di copertina, di Nino Ninfa, il Teatro Olimpico di Vicenza: tra poco al via le  Conversazioni 2017 – 70 ° Ciclo di Spettacoli Classici con la direzione artistica di Franco Laera in collaborazione con Adriana Vianello)

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