Teatro

Storie di amori e di vita dall’Australia

8 Febbraio 2019

Prima di parlare di When the rain stops falling, testo dell’australiano Andrew Bovell andato in scena all’Arena del Sole di Bologna, c’è da fare una considerazione.

La regista, e in gran parte gli attori, sono tutti di “scuola romana”: anzi, Lisa Ferlazzo Natoli, che ha diretto lo spettacolo, è una delle eccellenze romane. Figlia d’arte, da sempre attiva nella scena off e non solo della capitale, Lisa Natoli è di fatto una ennesima “sconfitta” per la scena e la produzione di Roma. Mi spiego.

Siamo tutti sostenitori della mobilità degli artisti, per carità: i teatranti, specie quelli italiani, sono storicamente e strutturalmente girovaghi – con buona pace di chi invoca la stanzialità, la tenitura, la permanenza.

Ma da troppo tempo assistiamo a una vera e propria diaspora, una fuga da Roma, città che sta perdendo uno dopo l’altro molti dei suoi talenti. Una generazione intera dissipata: Deflorian e Tagliarini sono più a Parigi che a Roma; Roberto Latini a Milano, al Piccolo, o con la compagnia LombardiTiezzi; Fabrizio Arcuri produce con il Css di Udine; Massimiliano Civica è al Metastasio di Prato; Andrea Cosentino, fresco di Ubu, con Aldes di Lucca; Frosini-Timpano girano ovunque ma raramente hanno spazi in città; Werner Waas da tempo rientrato nella sua Germania; Lucia Calamaro produce a Cagliari e altrove. E ora Lisa Natoli che approda all’Ert-Emilia Romagna Teatro. Ma l’elenco potrebbe continuare.

Nemo profeta in patria? Lo sappiamo bene, ma qui si esagera un tantino.

Non sono pochi quelli che restano, ovviamente: maggiore attenzione meriterebbe ad esempio Ascanio Celestini che con Veronica Cruciani è al Teatro Quarticciolo, ma quasi più per ostinazione e volontariato che altro; così come “resistono” – è il caso di dirlo – tanti artisti, associazioni, spazi che si ostinano a non voler chiudere, nonostante gli sgomberi, a non mollare la città al suo vacillante destino.

Il nuovo direttore del Teatro di Roma, chiunque sarà, se mai sarà qualcuno, non potrà non tenere conto di questa situazione. Richiamare quei talenti che sono fuggiti inascoltati, per ridare slancio alla creatività della capitale, è un dovere. Così come ricominciare a dissodare il terreno, fare nuova semina, aiutare a crescere i nuovi, che pure ci sono (basti pensare all’attività di scouting di Carrozzerie Not oppure agli investimenti di RomaeuropaFestival).

Intanto, comunque, Lisa Natoli ha debuttato all’Arena del Sole, nell’ambito della stagione firmata da Claudio Longhi per Ert (in coproduzione con Teatro di Roma, per fortuna, e Fondazione Teatro Due di Parma).

E lo spettacolo, va detto subito, nella tensione ed emozione della prima, è più che buono. Un affresco arioso e al tempo stesso claustrofobico, un romanzone ottocentesco, che narra le vicende di un piccolo gruppo di persone, legate da diversi gradi di parentela, originaria o acquisita. Un peccato, una violenza si cela, come una tara ereditaria, nelle dinamiche di queste esistenze, una vergogna incancellabile che segna il destino attraverso il tempo.

Foto Sveva Bellucci

Sembrerebbe quasi un impianto da tragedia classica, ma la scrittura di Bovell volge subito al dramma, o addirittura alla commedia amara, con questioni minimali che tornano, frasi che si ripetono immutate attraverso i decenni, situazioni che si rinnovano irrisolte nel loro eterno riproporsi. La storia procede per salti temporali, per slittamenti, in un avanti e indietro che scavalla i decenni e le frontiere, fino a toccare il futuro 2039: gli amori, i dolori, gli errori, sono tutti là, segnati, nelle storie di questi personaggi qualunque. Sono quattro generazioni, soprese in momenti e luoghi diversi, e non ci sono eroi, né malvagi (forse uno, sì, il peccatore, privo di controllo su di sé, nonostante sé, origine e causa di tutto) ma la vita, la continua sorpresa dell’esistenza, non si ferma.

Figli e figlie che fanno i conti con i genitori; padri e madri che cercano di inventarsi in quei ruoli difficili, complessi, a volte ingestibili. E la coppia, certo: questa eterna, buffa, faticosa dimensione in cui (soprav)vivere.

Bovell offre un ventaglio di possibilità in cui – innegabilmente, inesorabilmente – ci si riconosce.

Con la bella traduzione di Margherita Mauro, la regia di Lisa Natoli tiene bene la dimensione corale e narrativa del testo, la storia che avviluppa, avvolge lentamente lo spettatore che segue i personaggi quasi come fossero i protagonisti di una fiction tv di successo.

La platea si divide: c’è chi piange calde lacrime di commozione, chi si appisola un po’ annoiato. Perché poi, in fondo, è tutta qui, la verità: non servono grandi cose, per dire che non c’è via d’uscita dall’esistenza, dal vivace, febbrile, entusiasmante tran tran del quotidiano.

A me è restato un po’ di magone, e un retrogusto di disincantata dolcezza. Nel finale, l’incontro imbarazzato tra un padre in fuga e un figlio che vuole conoscere, dopo anni, chi lo ha messo al mondo, c’è tanta semplicità. Le cose non dette, quelle da dire, le amarezze, i sogni, i gesti trattenuti, le aspirazioni e i fallimenti, i piccoli oggetti: sono tracce, fossili di esistenze, precipitato di memorie che si illuminano un istante, per dire chi siamo.

Foto Sveva Bellucci

Il cast è ben affiato, generoso, e merita di essere citato nella sua interezza: nessun protagonista assoluto, ma tanti spunti, momenti, e altrettanti contributi, per ciascuno. Sono Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano.

Il solo dubbio, per chi vi scrive, è nell’uso dei microfoni, brutti a vedersi e forse inutili per attori e attrici che sanno certo portar la voce. Rischiano di rendere freddo e distante quel che per il testo è intimo e empatico.

La pioggia accompagna tutto e tutti, sin dall’inizio. Ombrelli e impermeabili, lampi e tuoni, alluvioni e allagamenti. Ma alla fine del romanzone, naturalmente, smette di piovere. Non poteva essere altrimenti: è ovvio, è prevedibile, magari stupido. Lo sapevamo dall’inizio, ma tiriamo lo stesso, un sospiro…

(la foto di copertina è di Sveva Bellucci)

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