Teatro
Storia semplice, verità difficile
CATANIA. Quello della verità è un concetto difficilissimo da maneggiare. Difficilissimo perché complesso e sfuggente sotto ogni profilo, difficilissimo perché, per maneggiarlo coerentemente ed efficacemente, sono richieste virtù altrettanto difficili quali coraggio, passione per l’umano, senso di responsabilità. Un concetto difficilissimo e sfuggente sotto il profilo filosofico ovviamente e sotto quello culturale, sotto il profilo religioso e sotto quello psicologico, sotto il profilo storico e sotto quello giudiziario, quando a cercare la verità nelle pieghe della realtà sono investigatori e giudici. Quasi inutile è poi ricordare quanto su questo concetto si siano interrogati nei secoli artisti e scrittori di ogni tipo e, certo, tra questi c’è Leonardo Sciascia con quel suo meraviglioso atteggiamento di laico e coraggioso pessimismo che rende la sua scrittura riconoscibilissima e il suo stile di pensiero indimenticabile e fecondo per quanto tormentato. Tutto questo si trova certamente nel romanzo breve “Una storia semplice”, pubblicato nel 1989, ovvero stesso anno della morte del grande scrittore di Racalmuto, che lo Stabile di Catania ha voluto affrontare e, avendone affidato l’adattamento teatrale a Giovanni Anfuso, ha produrre come spettacolo e mettere in scena in Sala Verga dall’11 al 16 aprile. La regia è dello stesso Anfuso e in scena ci sono Giuseppe Pambieri, Paolo Giovannucci, Stefano Messina, Davide Sbrogiò, Liliana Randi, Carlo Lizzani, Geppi Di Stasio, Marcello Montalto, Luigi Nicotra, Giovanni Carpani. Contrariamente al titolo si tratta di un thriller tutt’altro che semplice, in cui però la complessità (umana, politica, sociale, culturale) è proposta con quella geometria costruttiva, esatta e potente, che è tipica di Sciascia: un’indagine di polizia sul furto di un’opera d’arte (la “Natività” del Caravaggio, trafugata a Palermo) e su un suicidio/omicidio condotta da poliziotti, da carabinieri, da un magistrato, ed ancora con un commesso viaggiatore sospettato e incolpato da innocente e poi scagionato, con un altro omicidio “per una difesa personale” che potrebbe essere altro e al contempo mettere tutti d’accordo, una ex moglie che sembra preoccuparsi più per l’eredità che per i sentimenti e per il futuro del figlio, un prete che sa il fatto suo e infine un finale aperto che sembra ribaltare, fuori tempo massimo, l’esito dell’inchiesta. Una vicenda intrigata e torbida che s’immagina dispiegarsi in un paese della Sicilia profonda nel secondo novecento ed è raccontata da un anziano professore di provincia (il professor Carmelo Franzò, incarnato in scena da Pambieri), col tono smagato e l’intelligenza sottile e sapiente di chi sa come vanno le cose in Sicilia e (quindi, forse) nel mondo. Lo spettacolo è costruito e condotto con serietà, sia nel disegno registico di rigorosa pulizia, sia nell’impegno degli attori. Ciò che manca è una riflessione realmente percepibile ed artisticamente efficace sul perché attuale di questa messinscena, sulla sua necessità al di là delle idee della committenza, al di là di ogni possibile ricorrenza, al di là della densità magistrale con cui questo romanzo è stato interpretato per il cinema (e quindi per un pubblico ben più grande di quello dei lettori italiani di un romanzo) dal grande Gian Maria Volontè. Uno spettacolo onesto, ma senza alcuno slancio o segno che possano renderlo vitale, urgente, se non proprio necessario. Poi certo, il lavoro artistico va sempre riconosciuto e rispettato, soprattutto quando, come in questo caso, c’è in scena un maestro, come Pambieri, che non si fa mai sovrastare, nemmeno in una sola battuta, dall’automatismo del suo grandissimo mestiere. Il problema semmai è il confronto attuale con Sciascia e con la fecondità del suo magistero che, proprio perché va rispettato e onorato, va letto e ascoltato certo, ma anche sfidato, discusso e ridiscusso con libertà e senza timori di lesa maestà. Una cosa ci pare certa però: utilizzare Sciascia per affermare, nel 2023, l’esistenza in vita di una “identità” siciliana (antropologica, artistica, culturale, letteraria, teatrale, ecc.) è un’operazione in qualche modo tautologica, discutibile se non proprio sbagliata in radice e in ogni caso un’operazione che andrebbe condotta applicando proprio lo spietato rigore intellettuale di Sciascia alla realtà culturale e socio-politica della nostra isola e dell’Italia intera. In tempi cupi di un nuovo nazionalismo che va espandendosi sgomitando in ogni settore, Sciascia non lascia dubbi sull’impossibilità di fruire della sua scrittura senza una chiara curvatura critica e politica; basti pensare alla battuta rivolta da Franzò al Procuratore della Repubblica, suo antico alunno: «L’italiano non è l’italiano: è il ragionare… Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto»). Anfuso mette in risalto questa battuta, tipicamente sciasciana e di sublime ferocia, ma poi non sembra volere o poter calibrare lo spettacolo su questa tonalità polemica.
UNA STORIA SEMPLICE. Teatro verga Catania, dall’ 11 al 16 aprile 2023. Adattamento e regia Giovanni Anfuso, con Giuseppe Pambieri, Paolo Giovannucci, Stefano Messina e con Davide Sbrogiò, Liliana Randi, Carlo Lizzani, Geppi Di Stasio, Marcello Montalto, Luigi Nicotra, Giovanni Carpani. Scene Alessandro Chiti, costumi Isabella Rizza, musiche Paolo Daniele, luci Pietro Sperduti. Produzione Teatro Stabile di Catania, Cooperativa Attori&Tecnici Roma. Crediti fotografici: Manuela Giusto.
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