Teatro
Spettatori ad Arezzo, la sfida è far rinascere il teatro
Ma gli spettatori riusciranno a salvare il teatro? E’ qui dopo tutto che, guardandosi allo specchio, si scoprono il proprio malessere e quello di un mondo che va a rotoli. Cresce con urgenza il bisogno di sostenibilità mentre le nuove tecnologie spingono per una rinascita della scena. Scrollati di dosso apatia e sfiducia ora si combatte. Il problema è d’altra parte comune a tanta Cultura che, dopo la pandemia, è giunta ad un bivio con la necessità urgente di rilanciarsi cambiando anche i numeri di risorse e occupazione. Se ne è discusso in modo partecipato ad Arezzo nei giorni di fine ottobre (dal 20 al 25 compreso) al Festival dello Spettatore: un evento che continua ad essere una mosca rara tra le rassegne del dopo estate perché, con ostinazione, cerca di capire e cogliere i cambiamenti fotografandoli nel loro divenire. Non solo sulla scena con gli spettacoli di Carrozzeria Orfeo, Kanterstrasse, Zaches Teatro, Pindoc, Mulino ad Arte, Giallo Mare, Nata teatro, Stivalaccio e Famiglia Mirabella, installazioni, mostre e performance varie. Ma soprattutto con un confronto a tutto tondo che d’abitudine coinvolge, sin dalla nascita, sei anni fa, e sempre ad opera della ReteTeatrale Aretina, i diversi segmenti di un comparto vivace, ma quanto delicato, quale è il teatro. Sui temi presi in esame si attiva così una chiamata a raccolta di teatranti, attori e tecnici, produttori e organizzatori, amministratori, locali e nazionali, esperti di comunicazione e studiosi di mercato, figure di esperti e docenti provenienti dal mondo accademico e, naturalmente giornalisti, critici e spettatori. Soprattutto questi ultimi _ è o no il loro festival? _sempre più preparati e presenti dentro i meccanismi di molte realtà produttive. Organizzati in gruppi autonomi o no, capaci di elaborare un punto di vista per niente scontato. Anzi.
Attualmente, dopo la lunga fase di incertezza vissuta nella pandemia _ che non è finita e serpeggia ancora come peste di antica memoria _ non è strano che si rilevi un senso di smarrimento. Per tanti poi, l’assenza di riferimenti può generare confusione e stanchezza mentale. La sensazione, un po’ generale, è di essersi infilati dentro un tunnel in cui l’uscita sembra lontana. E che, nonostante i vaccini abbiano portato più fiducia, non si possa ripartire esattamente da dove si è lasciato. Nulla è, e sarà, uguale a prima. Di certo non si può far finta che nulla sia accaduto. Da Arezzo però, soprattutto per quanto riguarda l’attività di studio e confronti giungono segnali positivi. Anzi più di uno. Anche chi si è rinchiuso a bozzolo durante il lockdown esce ora dal letargo iniziando a cercare idee e soluzioni per rappresentare in sicurezza rivitalizzando così la filiera produttiva. La fabbrica della creatività, lentamente, e con qualche acciacco si è rimessa in moto. I migliori segnali, quelli più stimolanti, vengono dal pubblico che ha affollato tutti gli appuntamenti spettacolari della rassegna aretina facendo sentire la presenza durante i momenti di dibattito che, per inciso, è stato bello vivace e ha fornito pure qualche utile notizia.
Come spesso accade infatti, mentre teatranti e studiosi si accapigliano sui massimi sistemi, o stanno attenti a non sbilanciarsi troppo (non si sa mai…) è proprio dal pubblico che arrivano i messaggi di apertura e maggiore laicità. Questo vale in modo particolare su uno dei focus più caldi di questa edizione: quello sul teatro digitale che incredibilmente sembra dividere ancora il mondo della scena in due. C’è chi considera il ricorso alle tecnologie e le pratiche del digitale come un ripiego e una mera parentesi, sostenendo con perentorietà che il vero teatro è quello agito in presenza e l’unico ad aver diritto di parola. Fortunatamente non tutti assumono posizioni così talebane e c’è invece chi stia cercando di capire quanto, al contrario, il rapporto con il digitale può essere d’aiuto sia nella fase creativa quanto nella diffusione dei contenuti. Uno strumento che potrebbe raggiungere pubblici ora lontani, come è avvenuto ad esempio negli Stati Uniti dove l’attività teatrale durante il lockdown è proseguita in streaming e in diversi casi ha dato vita a nuove produzioni. Fenomeno che in Italia è stato vissuto in modo assai parziale, in poche ma significative occasioni, alcune rassegne dove Internet è servito come veicolo di visione. Proprio Arezzo d’altra parte è stato il centro di un ciclo digitale che ha visto gli Spettatori Erranti capofila di un progetto seguito anche fuori dalla cinta daziaria, coinvolgendo spettatori di altre parti d’Italia. Tangibile esempio di come sia utile questo modo di operare. Utile e necessario anche per artisti e teatranti che sono stati obbligati a pensare modi di rappresentare. Intanto, mentre c’è chi si attarda a giudicare se si tratti di teatro, oppure no, stanno moltiplicandosi le occasioni di sperimentazione e produzione di opere digitali. Proprio in Toscana stanno partendo alcune Residenze digitali che vedono protagonisti giovani teatranti, seguiti da tutor, al centro di nuove opere. Notizia emersa questa, accanto attimi di verve polemica e spunti di riflessione nella seconda giornata di studio intitolata “Spettacolo dal vivo e linguaggi digitali: un nuovo patto spettatoriale’” che schierava gli accademici Laura Gemini, Antonio Pizzo, Giovanni Boccia Artieri, per le Residenze artistiche toscane Massimo Ferri e Renzo Boldrini, Giulia Morelli della Rai, Fabrizio Trisciani di Sonar, e poi critici come Nella Califano (e pure il sottoscritto). Ma è dagli spettatori che sono venute le prese di posizione più chiare. Tra questi, senza fronzoli e giri di parole hanno espresso il loro punto di vista, prezioso e utile per capire dove va il mondo, Stefano Romagnoli e Sara Nocciolini.
Il primo, ormai una star, è un super assiduo frequentatore di eventi (questa estate ne ha visitato trentuno). Nel suo saltellare da una rassegna all’altra un po’ ricorda il Keith Carradine che interpreta il folksinger Tom Frank in “Nashville”, film di Altman: un compulsivo dongiovanni che passa da un amore all’altro senza soluzione di continuità. Romagnoli da Foligno ha sostenuto con decisione ad Arezzo che “Il teatro deve essere fatto in presenza perché solo così può crearsi la relazione più proficua tra chi recita e osserva. E’ assolutamente necessario che si formi questo tipo di rapporto. Se ciò non accade è come se si fosse andati al cinema”. Pur conscio del fatto che con il digitale si può diffondere la conoscenza della scena, questa però non esiste se non è dal vivo. Attualmente è coinvolto in prima persona con gli studiosi Mimma Gallina e Oliviero Ponte di Pino nella diffusione di un “Manifesto dello spettatore” messo a punto dallo stesso trio e che “contiene una serie di diritti e doveri e di scuro potrà aiutare a far tornare la gente dentro le sale”. E a questo proposito Romagnoli ha citato il caso del comune di Narni in Umbria dove si punta a una rivitalizzazione di antichi spazi, finalizzati al ritorno del teatro dal vivo. Per ironica coincidenza sono gli stessi luoghi dove, dal 1985 in poi, prima Giuseppe Bartolucci con “Opera prima” e poi quel vulcanico scout di nuove sensibilità teatrali, Carlo Infante, aveva dato vita alla antesignana rassegna “Scenari dell’immateriale” dove tecnologia e scena teatrale all’epoca in Italia trovavano qui uno dei punti di incontro più proficui.
Sara Nocciolini, aretina degli Spettatori Erranti ha esposto invece con lucidità il passaggio da una visione tradizionale a una digitale, riflettendo su luoghi comuni e nuove potenzialità del mezzo. In particolare ha raccontato in termini di reportage quella che è stata tra i mesi di febbraio e marzo di questo anno l’esperienza di “Spettatori Erranti chiama Italia”, rassegna in streaming con spettatori collegati on line da tutta Italia. Unico momento in cui si sia realizzata una scena e una platea digitale in Italia vissuta in termini di community.
“Tra gli spettacoli mandati in rete in quella occasione hanno funzionato soprattutto quelli in live streaming _ dice Nocciolini _ che sono stati una occasione di creatività perché mi hanno offerto la possibilità di immergermi in un modo completamente diverso. Ho amato particolarmente quelli che si allontanavano maggiormente dal modo classico di proporre il teatro. Quanto più un’opera si allontanava da quei clichè più mi appassionava. Molto coinvolgente ad esempio, l’esperienza di “Genoma scenico” di Nicola Galli, interamente costruita dagli stessi spettatori che, volta per volta, sceglievano i movimenti dei danzatori indicando le figure coreografiche e decidendo persino l’angolo di ripresa delle telecamere. Altre opere digitali rimarcabili, “Il Gatto con gli stivali” , prodotto da Marco Sacco per Kanterstrasse e “In arte son Chisciotta” delle Officine della Cultura. Entrambi mi hanno permesso una lettura inedita di tipo immersiva. Teatro analogico e digitale: se un anno fa li vedevo in opposizione ora ho capito che si tratta di diversi modi di pensare la scena. Per quanto riguarda il digitale penso sia importante costruirsi una propria personale ritualità, erigendo dei paletti nel momento della visione. Molto importante in questo senso la creazione di una comunità dove condividere le opere con altre persone anche con la discussione”.
“Sul teatro digitale _ dice Massimo Ferri, presidente della Rete Aretina che ha curato l’allestimento del festival _ permane una sorta di doppio atteggiamento non solo da parte degli addetti ai lavori ma anche degli spettatori. Chi ha sperimentato il linguaggio innegabilmente si porterà dietro questo tipo di esperienza e in alcuni casi il lavoro futuro potrà conoscere forme ibride, sul piano dell’uso della tecnologia. Molti organizzatori invece non hanno ancora capito le potenzialità del mezzo. E’ comunque un dato di fatto che, almeno in Toscana, per quanto riguarda le opere digitali si sia scelto di investire in mezzi e risorse”.
L’ultima parte dell’intervento di Nocciolini, Spettatrice Errante ha messo l’accento sul ruolo dei gruppi di spettatori, vere community in cui si sperimenta la cittadinanza attiva. Possono giocare un ruolo importante nel rinnovamento e diffusione del teatro come della sua capacità di trasformarsi e crescere in termini di sperimentazione. Ma qui ad Arezzo, nonostante il fenomeno sia cresciuto e nuovi gruppi stiano nascendo in altre parti d’Italia, si è percepito una sorta di rallentamento di quella dirompente energia avvertita due anni fa.
“Questo è vero _ riconosce ancora Ferri _ il rallentamento, anche dopo la pandemia sta nei fatti. E’ indubbio che c’è bisogno di dare gambe a questo movimento con una sorta di coordinamento. A breve ci rimetteremo in moto perché i gruppi di spettatori siano sempre più una realtà attiva della vita culturale”.
L’altro tema messo a fuoco nel festival dello spettatore 2021 è stato quello della sostenibilità della cultura. Di respiro gli interventi che hanno caratterizzato la giornata di dibattito coordinata da Luca Caneschi di Teletruria. Qui si sono confrontati con interessanti riflessioni e ragionevoli imput di notizie e dati, Valentina Montalto di Joint Reserch Centre, Antonio Taormina della Fondazione Symbula (Università di Bologna) che ha curato il libro presentato l’indomani “Lavoro culturale e occupazione” edito da Franco Angeli con gli autori Alessandra Carbonaro e Francesco De Biase. Carbonaro, della Commissione Cultura della Camera ha dato un interessante contributo anche e soprattutto alla discussione sul tema della sostenibilità, aperto in modo brillante da Antonio Taormina che ha illustrato il rapporto “Io sono Cultura 2021: l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi” pubblicato in un quaderno della Fondazione Symbola. Un contributo di idee, riflessioni e analisi per questo che è un momento decisivo per il comparto, per il quale sono attese decisioni e iniziative. Per la Cultura in generale e per lo spettacolo e quindi il teatro in particolare. Necessario quindi riflettere a distanza di un anno cosa è accaduto durante pandemia e lockdown.
“Il 2020 è nei fatti uno spartiacque _ ha affermato Taormina _ si continua a dire che in futuro nulla sarà come prima ma intanto l’immagine che è emersa dello spettacolo è quella di un settore fragile molto frammentato con grandi problemi: in particolare preoccupano le condizioni dei lavoratori. La ripresa, in questo, si presenta come una opportunità per ripensare le criticità preesistenti al Covid. Quindi non si tratta di tornare alla normalità, cioè come si stava precedentemente. ma di lavorare per un vero rilancio della cultura. In primo luogo dello spettacolo. E per farlo occorre conoscere lo stato dell’arte: quello cioè che ci ha lasciato questa epidemia: quali sono le sue conseguenze e ricadute”.
Ed ecco anche un po’ di numeri su cui riflettere. Un tema che viene spesso sollevato è quello degli effetti del moltiplicatore del Sistema Produttivo Culturale e Creativo (SPCC). Gli investimenti fatti nel settore culturale creativo comportano _ ha spiegato ancora Taormina _ un effetto moltiplicatore sul territorio di 1,8. Nel 2020 abbiamo avuto in questo settore una produzione di valore aggiunto di 84,6 miliardi di euro. Volendo applicare il moltiplicatore al valore aggiunto creato nel resto dell’economia si raggiunge la cifra di 155, 2 miliardi di euro. Stando ai dati sempre del 2020 gli occupati nel settore sono stati circa 1 milione e mezzo. Il lavoro di queste persone ha inciso del 5,7 sul totale dell’economia del Paese. Ma rispetto al 2019 c’è stata una flessione del l8,1 e un calo del 3,5 degli occupati. Nello specifico nel settore del performing arts e arti visive il valore aggiunto è stato di quasi quattro miliardi (pari al 4,7 del totale della cultura) mentre gli occupati stabili nello spettacolo dal vivo sono 95 mila. Tra il 2019 e il 2020 c’è stata infine per lo spettacolo dal vivo una flessione di ben il 26% come valore aggiunto e l’11,9% in meno di occupati: è cioè il settore più colpito all’interno della Cultura. C’è da segnalare come in Parlamento Europeo, in sede di Commissione Cultura, pochi giorni fa, sia stata votata una nuova risoluzione con la richiesta di miglioramento delle condizioni e delle tutele, un miglioramento del rapporto di lavoro a sostegno dei lavoratori dello spettacolo.
A questo proposito, l’indomani, lo stesso Taormina nel presentare il libro di cui è stato il curatore, “Lavoro culturale è occupazione” (Franco Angeli editore), segnalava come forse per la prima volta il Parlamento Europeo avesse messo in evidenza per la prima volta il ruolo sociale della cultura e la dicotomia tra aspetto economico e sociale. Cresce quindi l’attenzione su quanto è importante il ruolo di chi lavora nella cultura “un lavoro in continua trasformazione. Ed in questo la pandemia ne ha messo in discussione molti paradigmi”, ma attenzione anche “alla innovazione nel senso più ampio del lavoro culturale”. A questo va accompagnata anche “la risoluzione delle questioni di forte rilevanza per gli aspetti contrattuali e previdenziali”. Insomma il settore va migliorato anche e soprattutto per “le nuove generazioni che dovranno affrontare nuove sfide”.
E Francesco De Biase, dirigente delle attività culturali del comune di Torino, uno degli autori del volume, ha evidenziato come da ricerche e studi svolti in Europa e Italia da alcuni dei più qualificati istituti “il lavoro culturale è tra le professioni maggiormente in crescita nei prossimi anni. Quello di cui c’è necessità _ ha detto _ è di mettere assieme saperi diversi, non solo quello digitale. Per esempio i musei diventeranno sempre più non solo spazi espositivi ma di tipo interattivo”. Un altro esempio delle prossime sfide si ha proprio nel teatro “che si intreccia sempre più con il digitale sul territorio”.
Altri contributi sono giunti anche da Massimo Clemente del CNR, Fausto Ferruzza di Legambiente, Roberto Rampi, Commissione Cultura del Senato, Caterina Gambetta del teatro dei Venti, Daniele Ronco di Mulino ad Arte, Giovanni de Monte di Castel dell’Arte, Andrea Paolucci del teatro dell’Argine e Serena Bavo Earthink festival. Discutendo poi di sostenibilità particolarmente degno di interesse, il contributo portato da Alessandro Fabrizi e Stefania Minciullo di Festa di teatro ecologico di Stromboli. Isola del vulcano ricca di fascino dove in occasione dell’appuntamento di fine giugno “cambia completamente la relazione tra performer e spettatore” osserva Fabrizi. “Non c’è più la quarta parete e lo spettacolo si fa assieme. In questo ci si lascia ispirare dall’ambiente. Siamo veramente nel regno dell’incalcolabile. Gli spettatori entrano ed escono come vogliono. Tutto viene allestito in piccoli ambienti circoscritti, spiagge, piazze, terrazze.. l’unica cosa che possiamo calcolare è l’impatto sull’isola. Nel senso che con il tempo siamo riusciti a portare 300-350 persone in più con tutto l’impatto economico che rappresenta”
E le regole sono chiare: niente elettricità ed effetti speciali. Solo il mare, la terra e le persone per come sono. “Per noi la prima cosa importante davvero è di chiedersi se si è sostenibili per l’isola di Stromboli -dice Stefania Minciullo- una piccola isola dell’arcipelago delle Eolie dove c’è un vulcano attivo. Un luogo che ha necessità e limiti che diventano anche i nostri. Questo vuol dire, ad esempio, che non puoi portare nell’isola più di un certo numero di persone. La nostra attenzione all’ecologia nasce da una chiara richiesta del territorio. Non c’è luce elettrica sulla strada, l’acqua è centellinata… Quindi l’attenzione alla natura nasce da un vero dialogo con quello che c’è attorno a noi. La cosa fondamentale è di non essere ciechi attorno a quello che ci circonda. Più difficile la sostenibilità economica. Per quanto riguarda le nostre risorse queste sono legate solo a fondi privati. Non abbiamo finanziamenti pubblici, anche perché non abbiamo grandi numeri per diventare competitivi. Sarebbe utile che venissero studiati dei parametri a livello qualitativo: solo così potremo entrare nelle griglie per i fondi pubblici. Con gli artisti, a cui paghiamo i contributi, instauriamo una sorta di baratto che permette di regalare per cinque giorni a Stromboli bellezze e dialogo con gli spettatori. Questi vengono nell’isola per seguire le tematiche delle Feste quasi sempre legate all’ambiente e alla contemporaneità. Una volta scelto il tema questo viene declinato nei più diversi aspetti: dal teatro alla scienza o alla danza. Gli abitanti, in grande parte legati al turismo, stanno iniziando a interrogarsi sul loro modo di vivere: a cominciare dal fatto di abitare sotto un vulcano attivo che in caso di eruzione potrebbe avere reazioni anche molto violente. Per cui ci si interroga sul numero di persone da portare sull’isola. E il nostro lavoro _ ha concluso Minciullo _oltre chè culturale è anche quello di educare le persone che arrivano su come si deve vivere nell’isola.
E poi ci sono naturalmente gli spettacoli, numerosi, dai colori e dagli accenti popolari. In tutte le articolazioni e per tutti. Da quello per gli adulti ai ragazzi fino a quello dedicato ai più piccoli. Proprio negli stessi giorni si teneva ad Arezzo il festival “Meno alti dei pinguini” con cui è stata attivata una stretta collaborazione. E quindi appuntamenti nei due teatri cittadini, lo storico Petrarca e il più ridotto intitolato a Pietro Aretino. Ma anche nel circondario. All’Auditorium le Fornaci di Terranuova Bracciolini riaperto da Kanterstrasse al bellissimo Teatro Verdi nel centro medioevale di Monte San Savino, al circolo delle case popolari nel quartiere aretino di via Malpighi. Un nutrito carnet di appuntamenti. Pochissimi i debutti, sommersi giustamente dalle riprese di spettacoli che con la pandemia hanno circolato pochissimo. E comunque tutti, chi più chi meno, di buon livello.
Il cartello è stato aperto da una realtà consolidata come la Carrozzeria Orfeo che usa i linguaggi del contemporaneo per allestire opere di teatro popolare che rimandano a molta scena inglese degli anni Settanta-Ottanta. Ecco così “Miracoli metropolitani”, drammaturgia di Gabriele Luca che ne ha curato anche la regia con Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi e un bel collaudato cast d’attori (Elsa Bossi, Ambra Chiarella, Federico Gatti, Aleph Viola, Beatriche Schiros, Massimiliano Setti e Federico Vanni). Ambientato in un mondo futuro, ma non troppo, con influenze orwelliane e rimandi persino pinteriani (fuori sta la minaccia: ma non è il tema principale, appare piuttosto come citazione o un omaggio al drammaturgo inglese) con un bel mix eterogeneo di personaggi che vivono dentro un grande e maleodorante scantinato, dove si produce con scarti di alimentazione, cibo da consegnare a domicilio. Una cornice facilmente riconducibile al lockdown dentro cui si intrecciano passioni e amori naufragati, figli disadattati, emigranti in fuga. Un singolare e credibile affresco di una umanità allo sbando a cui non sono riservate molte vie di uscita da una realtà che si indovina autoritaria e minacciosa. Il gruppo è bello compatto, la messa in scena scorre senza sbavature grazie a una intesa molto buona tra gli attori.
Kanterstrasse si lancia in una pièce impegnata politicamente con “Hess”, fotografia degli ultimi giorni di vita del nazista ex sodale di Hitler, da un testo,”I dieci comandamenti secondo Hess” della scrittrice rumena Alina Nelega che i curatori della drammaturgia e regia Simone Martini e Tazio Torrini -quest’ultimo sulla scena a indossare i panni del misterioso gerarca- hanno ripreso per mostrare i tratti inquietanti e spigolosi di una personalità complessa e una mente criminale che ha probabilmente custodito segreti inconfessabili. Segreti che probabilmente ne decretarono la morte proprio quando Hess avrebbe potuto lasciare il carcere di Spandau, a Berlino Ovest. Un luogo sinistro rimesso in sesto appositamente per lui, unico prigioniero guardato a vista, giorno e notte dagli uomini del servizio segreto inglese. Qui il nazista all’età di 93 anni, il 17 agosto del 1987 fu trovato impiccato. Rudolf Hess, al tempo in cui era il numero due del nazismo, alla guida di un Messerschmitt volò nel maggio del 1941 sull’Inghilterra lanciandosi con il paracadute. Lo scopo pare fosse quello di trattare una pace separata con il Regno Unito. Ma Hess venne sconfessato da Hitler che gli diede del pazzo mentre gli inglesi lo internarono. Qualcuno ha recentemente sostenuto che Hess in realtà cascò dentro un geniale tranello ordito dagli agenti di Sua Maestà. Di sicuro quegli episodi restano tuttora avvolti nel mistero. Lo spettacolo più che raccontare i fatti, riflette sulla solitudine e le parti oscure di una personalità come quella di Hess, uno dei padri del nazismo. Interessante il dispositivo scenico collocato al centro del palcoscenico che divide in due gli spettatori, venti per volta. Questi stanno praticamente a contatto con l’attore che si muove nello spazio angusto del luogo di detenzione. Una telecamera inquadra le sue brevi camminate quando sparisce agli occhi del pubblico per entrare nel bagno della cella. Probabilmente con più telecamere, monitor e una regia video parallela a quella teatrale si aumenterebbe l’impatto e crescerebbe il suspence narrativo. Misurato e credibile Tazio Torrini in un ruolo borderline tra lucidità e follia.
E’ nello spazio magico e confortevole del teatro antico di Monte San Savino, il “Verdi” che è stata ospitata la fiaba di “Cenerentola” con l’accattivante allestimento dello Zaches Teatro, regia, drammaturgia e coreografia curati da Luana Gramegna che mette assieme amore per il dettaglio, cura puntigliosa delle scene che si aprono in modo sinistramente sontuoso con richiami shakespiriani alle terribili “sorcières”: tre cornacchie che si trasformano nelle streghe, stranamente simili a quelle inventate dal regista Alessandro Serra per il suo straordinario “Macbettu” prodotto da Sardegna Teatro, premio Ubu del 2017 e tuttora in tournèe (a ottobre è stato replicato a Parigi, San Pietroburgo, Novi Sad, Salamanca…). Qualcosa che per la verità lascia per un attimo interdetti e un po’ spiazzati, anche perchè anche qui esplodono gli stessi suoni improvvisi e metallici dell’opera di Serra. Ma a prescindere da queste cosiddette similitudini, l’opera è davvero affascinante. Al centro della scena troneggia un enorme cammino che sembra con tutti i suoi fumi e polveri di cenere l’ingresso di un antro infernale. Lodevole la maestria e la grazia con cui i tre attori (Enrica Zampetti, Gianluca Gabriele e Amalia Ruocco) muovono Cenerentola, una marionetta che come l’araba fenice risorge principessa autentica dal mondo oscuro dell’antro in cui matrigna e sorellastre l’avevano costretta a stare. Di principi azzurri invece se ne vedono poco, e questo non è una mancanza. Anzi. E’ la rivincita delle anime belle e della bontà contro il male, “Cenerentola” fiaba a più livelli che, pur in un allestimento raffinato come questo, ispirato dai Grimm e da Basile riesce a incatenare all’attenzione facendo tremare i cuori di grandi e piccoli.
“Lo Sbernecchio del Bubbù” è sicuramente uno degli spettacoli che ha commosso ed emozionato di più, grandi e piccoli, grazie a una consumata tecnica di entertainer e di musicisti, di mimi e danzatori come Giuseppe Muscarello (autore di coreografie e regia) e Pino Basile che sanno come toccare il grado zero della musica e del movimento per trasformarlo in crescendo, in atto senza parole che affida ai suoni, agli sguardi, ai gesti, ma anche all’armonia danzata capace di raccontare la meraviglia per le piccole cose. C’è una contagiosa joie de vivre assieme a una furbesca ironia utile per riportare i piedi sulla terra. Il tutto immerso in una atmosfera da ballo e cantata popolare per cuori ballerini. Per chi è disposto all’amicizia e all’incontro e che, attraversando gli stereotipi e i modelli del “principe” e del “povero” abbatte frontiere e ostacoli per ritrovare se stessi. Uno spettacolo che riempie di poesia.
Per un teatro a pedali. “Mi abbatto e sono felice” del Mulino ad arte, che vede in scena lo stesso autore Daniele Ronco con la regia di Marco Cavicchioli, avrebbe tutto per fare innamorare il pubblico. Iniziando della favola moderna di un ragazzo, assolutamente ambientalista ed ecologista e l’amore per il nonno che non c’è più ma gli ha lasciato alcuni pezzi del suo passato, una bicicletta da recuperare, una mitica Bianchi che l’attore pedala per tutto il tempo dello spettacolo, un capello con visiera e soprattutto, tanto amore per la terra.
Un amore viscerale e profondo che Daniele Sacco declina, affannando e pedalando per immaginarie risalite e valli, in un lungo monologo che passa in rassegna nefandezze e mostri del capitale e malvagità umane che hanno distrutto questa magica Terra, condannandola forse a un destino crudele. Il racconto di Daniele, forse alla fine un po’ troppo manifesto da “Friday for future”, percorre così le casematte di un potere che ha ucciso e sta continuando a uccidere lo spazio in cui viviamo: una tragedia in progress come è quella del riscaldamento globale, inquinamento da combustibili fossili e conseguenti drammi di povertà e immigrazione. Continua a pedalare Daniele, mentre in dissolvenza salgono le note della tenerissima canzone di Enrico Nigiotti che in “Nonno Hollywood” canta: ”Sembra un po’ il secondo tempo. Di una finale da scordare. Come un taxi alla stazione che non riesci a prenotare. Siamo ostaggi di una rete che non prende pesci. Ma prende noi. Nonno sogno sempre prima di dormire. Cerco di trovare un modo per capire. Corriamo tra i sorrisi dei colletti “giusti” Ma se cadiamo a terra poi son cazzi nostri…”
Immancabile, come giusto e necessario, è l’omaggio a Dante Alighieri arrivato con uno spettacolo teatrale che utilizza una tecnologia di ritorno, quale è la realtà virtuale. Spettacolo per una sola persona per volta, “Nel mezzo dell’Inferno” , drammaturgia di Fabrizio Pallara e Roberta Ortolano , regia di Fabrizio Pallara – coprodotto da Css di Udine e da Lugano Arte e Cultura– ha avuto un successo oltre ogni previsione, con decine e decine di persone, giovanissimi e adulti a fare la fila per prenotarsi e poter fare in una mezzora il tuffo in un altro mondo. Quello virtualmente possibile immaginato da Dante che varcando il limite dell’Inferno intraprende uno dei viaggi più affascinanti della letteratura di tutti i tempi. Armato solo di un casco lo spettatore stacca il collegamento con il mondo reale e del quotidiano, per intraprendere una inedita avventura immergendosi in una differente realtà. Simile a un esploratore spaziale galleggia sospeso tra scenari immateriali sinistri, mostri e incubi. Un viaggio nell’aldilà che minuto dopo minuto sembra diventare reale e quasi familiare. Si segue il Sommo Poeta all’Inferno: si percorrono gli stessi suoi passi, calandosi nelle oscurità più profonde per ritrovare Ugolino che solleva la testa “dal fiero pasto” rimirando paesaggi e scenari che mai umano aveva visto prima d’ora. Fino a “riveder le stelle”. E tornare tra gli uomini.
Tra i ragazzi e i bambini ci sono invece il Giallo Mare Minimal Teatro che indaga come rivolgersi a una platea di ragazzi per inscenare un viaggio nella Commedia dantesca in “Bambini all’Inferno” di Renzo Boldrini con Tommaso Taddei. Il plot viene rispettato e al pubblico di giovanissimi spettatori viene racontato il viaggio tra i miti di Paolo e Francesca, Farinata degli Uberti e Ulisse guidati da un attore nei panni di Virgilio che si servirà di un magico libro da cui verranno fuori suoni, scenografie e personaggi.
Per tutta la durata del lockdown hanno escogitato un sistema per poter portare i loro racconti ai bambini che stavano nelle case e negli asili: fare gli spettacoli da dietro la finestra per poter salvare teatro e profilassi sanitaria assieme. E così i Nata Teatro di Bibbiena anche ad Arezzo sulla pubblica via per la gioia di giovani spettatori di ogni età hanno portato il loro “Teatro alla finestra” popolato di lupi, capuccetti rossi, clown stralunati e tanto amore per le storie narrabili anche da dietro una finestra.
E infine c’è l’incredibile, coinvolgente famiglia Mirabella. Ovvero acrobazie, clownerie e arte circense che diventano teatro di strada a un livello molto alto. Umorismo e comicità irresistibile così come i loro numeri sui monocicli, i salti mortali, le figure a piramide che coinvolgono, Edoardo Mirabella il padre, Elisabetta Cavana, la madre e i tre figli di differente età, Martin, Matilde e Mael. Teatranti di strada, teatranti girovaghi che sanno come conquistare il cuore depositari di un’arte antica, quasi come il nostro mondo. Si prendono un angolo di strada, un pezzo di piazza e lo trasformano in arena, palcoscenico scatola di sogni, zona franca per dimenticare per un po’ gli affanni e tornare alla semplicità di un sorriso.
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