Teatro
Spaccare il gioco danzando sopra l’abisso
Il sogno di ogni bambino è spaccare il giocattolo per vederne i meccanismi, per svelare quel che c’è dietro, o dentro. Smontare tutto, distruggere e semmai rimontare, elaborando magari un’identità nuova, diversa, una sorpresa. È un’attitudine che ci si porta addosso anche da adulti, con un gusto a volte sadico – a volte masochista – non ci accontentiamo, e cavilliamo, indaghiamo, spiamo, domandiamo il come e il perché fino allo sfinimento. A volte lo svelamento ci sorprende, ci illumina; spesso ci lascia inappagati o amareggiati.
Capita anche a teatro, specie negli ultimi tempi: sono tanti i lavori che demistificano la “magia” del palcoscenico, tanti gli spettacoli che giocano, proprio come i bambini, a rompere il meccanismo, a mostrarlo in tutta la sua evidenza.
E la famosa “sospensione dell’incredulità” di Samuel T. Coleridge si ribalta in un altro sistema: per il poeta inglese, lo spettatore a teatro “sospende” la propria incredulità ed è disposto a credere che un signore in calzamaglia nera sia il principe di Danimarca. Oggi, invece, pare proprio che questa incredulità non sia più possibile, e che al contrario tutto, ogni passaggio, debba essere mostrato per quel che è: ossia teatro, nella forma più aspra e diretta che è la performance.
In questa prospettiva, allora, gli spettacoli diventano sempre più carillon impazziti, che suonano musiche aspre o stonate, che richiamano, ovunque e comunque, alla verità nel suo dipanarsi, nel suo farsi in scena, di fronte al pubblico. Si sta sviluppando, insomma, una drammaturgia diffusa sempre meno allusiva e illusiva e invece più ironica o anti-narrativa. In particolare, poi, è vi è un filone che coinvolge appieno i codici della nuova danza, i cui esiti sono lavori di grande e potente disincanto: giochi wittgensteniani, insomma, che spiattellano in faccia allo spettatore tutta la impossibile retorica della pièce bien faite, e tengono alto il vessillo dadaista di rendere possibile l’impossibile con effetti di grande sagacia.
E se per anni ci siamo dovuti sorbire la “non-danza” francese che, pur espressa da nomi eccellenti, risultava spesso cervellotica e noiosetta soprattutto quando voleva far ridere, oggi il panorama italiano contribuisce non poco a una riflessione concettuale e pratica sulla espansione possibile dei territori coreografici verso una indagine filosofica e strutturale capace di abbracciare temi concreti e urgenti, non solo estetici. Non è un caso che, anche in Italia, sempre più si studi e si ragioni attorno alla drammaturgia della danza: smontando e destrutturando, questi artisti sono capaci di denunciare l’ormai conclamata impossibilità di “fare teatro” a condizioni decenti, ma anche raccontano, furiosamente, l’evoluzione concettuale della perfomance stessa.
Riferimento indubbio di simili tendenze è Aldes di Roberto Castello, artista che elabora spettacoli (e coreografie) dal gusto sempre aspramente politico, sociale, addirittura militante ma al tempo stesso dissacrante, tagliente, acidamente ironico – come racconta bene un bel documentario realizzato da Graziano Graziani e Ilaria Scarpa, Danzare nel presente, disponibile su TeatroeCritica.
Ma tra i nomi che si possono fare, mi piace citare anche Marco Chenevier e la Compagnia TIDA. Intanto perché è forse l’unica compagnia di danza professionale attiva in Val d’Aosta – condizione geografica che, quanto a impossibilità, la dice lunga – poi perché Chenevier è un raffinato e sornione flaneur, dal profumo internazionale, che attraversa mondi osservandoli con gustosa empatia e intelligenza.
Lo avevo notato, con grande divertimento, al Festival Mess di Sarajevo, dove aveva presentato un assurdo “quintetto” tutto da solo: mancando la compagnia per vari motivi, il povero coreografo lasciato solo si trovava costretto a rifare lo spettacolo coinvolgendo persone del pubblico .
Chenevier ha poi intensificato la sua ricerca e, nello spettacolo che ha presentato al pubblico del Teatro Vascello di Roma qualche tempo fa, alza l’obiettivo trasportando l’afflato comico verso un’ampia e sottile riflessione esistenziale che parte dal mistico medievale Meister Eckhart e dalla sua concezione dell’Essere. Il titolo, programmatico, è Saremo bellissimi e giovanissimi sempre e, al di là del rimando immediatamente pop, non è paradossalmente così lontano dalle elucubrazioni del Teologo tedesco. L’assolo inizia in modo serioso, quasi che Chenevier facesse il verso a tanta danza impegnata e emotivamente “sofferente”: poi, di colpo, dichiara lui stesso che in quel modo non può andare avanti. Il fatto è che il tema dello spettacolo gli è stato “commissionato”, dunque è costretto a confrontarsi sul serio con le tesi di Meister Eckhart e tradurle in danza, ma la cosa non è affatto facile.
Inizia così una partita scorretta e grottesca di idee e smentite, di suggerimenti e fallimenti, di slanci e trattenute: battute con e sul testo (o con gli spettatori ben disposti al gioco), che si svelano esecuzioni nel codice fisico dei concetti teologici, per un “work in progress” che acquisisce densità e profondità col passare del tempo. Seppure il pingpong concetto/movimento rischi di standardizzarsi, il danzatore è bravissimo a tenere vivissima l’attenzione, aprendo a piani emotivi e concettuali sempre altri. Così, lo spettacolo diventa presto una amara denuncia della condizione umana, una verifica concreta e attualissima delle eretiche visioni del mistico medioevale: un riportare tutto a sé, ma dando suggerimenti e respiri ampi, coinvolgenti, a tratti drammatici. Marco Chenevier, nel suo stare solo in scena, rompe il meccanismo dello spettacolo, svela il baratro che c’è dietro il gioco. E noi – pesanti, noiosi, faticosi come siamo – ridendo divertiti, ci troviamo sospesi nel vuoto della vita.
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