Teatro

Sono bravo, me lo ha detto il coach!

20 Settembre 2017

In principio era il regista pedagogo. Poi venne il coach.

Di “motivatori” è pieno il mondo: è una professione sicura, visto quanto siamo tutti depressi. Ma il coach è un’altra cosa. Da tempo hanno invaso la scena. Si muovono sicuri e sapienti, felpati e attesi, padroni delle regole dell’autostima, dell’emozione a comando. Il fenomeno, va detto, è diffuso: dal career coach, all’innovation coach, dal business coach al mental coach ce n’è per tutti i gusti e per tutte le esigenze. Hanno tariffe diverse: da 100 a 250 euro, per un numero limitato di sedute (più o meno, cicli) che variano dalle 3 fino alle 16 o 20. Ce ne sono di molto professionali, ovviamente: basta dare un’occhiata al sito coachfederation.org per capire che la questione è molto seria.

Ma io, adesso, parlo del coach per attori e attrici.

Come lo chiamiamo? Il motivatore della battuta, l’investigatore del personaggio, lo scandaglio dello stato emotivo?

Il fatto è che molti (non tutti) di questi coach che ormai imperversano in Italia sono di formazione “Made in Usa” per quel che riguarda i riferimenti teatrali. Insomma, Actor’s Studio a man bassa: alcuni l’hanno frequentato, altri ci si sono affacciati, altri ancora l’hanno sentito dire. Però il mito condiviso è quello dell’emozione del personaggio, dello scavo interiore, del come raggiungere una “profondità”, una maggiore “verità”, un “sentimento” autentico al proprio stare in scena.

Va benissimo, per carità. Ma da Mejerchol’d a Brecht sono in molti a rivoltarsi nella tomba, non credete? E forse pure il povero Stanislavskij…

Probabilmente mi sbaglio, ma la visione che sta passando, in questi percorsi di “formazione” è la mimesi emotiva, il racconto psicoanalitico del sé attraverso il “carattere” del personaggio, il minimalismo esperenziale. Insomma, ci abbiamo messo un secolo per buttar fuori dalla porta certo naturalismo, e ce lo ritroviamo alla finestra. Così anche il performer ricomincia a essere emotivo: farfuglia, piange, parla in dialetto. Perché l’esito, poi, è che stanno tutti lì a simular verità manierate, inseguendo il mito della “sincerità”. Soffrono tanto, ma sono sinceri.

Ma questo passi. Va tutto bene, per carità. La mia è una generalizzazione, dunque alquanto opinabile: anche in Italia sono attivi coach bravissimi, che fanno il proprio mestiere con grande rigore e ottimi risultati. Non sto qui a far nomi, li conosciamo.

La cosa intrigante, invece, è chiedersi perché gli attori e le attrici abbiano bisogno del coach. Stiamo passando dall’era del laboratorio alla stagione del “coachee”, ossia dei clienti del coach? In effetti sembra essere un mondo in espansione, ancora sotterraneo, ma sempre più diffuso.

Sembra quasi che la figura del coach si stia mutando in quella di una sorta di psicoanalista (pagato altrettanto), che si affianca e sovrappone al regista. Ve lo ricordate Palombella rossa di Nanni Moretti? Avevano tutti un maestro, un riferimento, un mentore, un analista. Anche nel settore stiamo arrivando a estremi inquietanti: c’è chi pretende il proprio coach sul set, chi fugge dalle prove non appena ha un istante di pausa. In cerca di risposte, di conferme, di indicazioni su come affrontare questo o quello.

Loro, i coach, sempre scontenti ma incoraggianti, seguono con calma l’evoluzione dell’allievo e rassicurano: ce la puoi fare. Loro lo sanno. Non servono più le Scuole o le Accademie, piazza pulita dei maestri pedagoghi, niente più straniamento o biomeccanica. Quel che conta è l’emozione. O l’emoticon.

(Nella foto di copertina Bertolt Brecht)

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