Teatro

Solo con “Io”, Antonio Rezza nella moltitudine di sé

15 Agosto 2018

Sulle gradinate di una piazzetta corta e sbilenca, in pieno agosto, nel fracasso di paese, assistere a uno spettacolo di Antonio Rezza è un atto espiatorio. E’ solo in scena questa volta, solo con “Io”. E ridi, dopo un po’ di sgomento, ridi, disperatamente,  in sincrono con la sospensione facciale dell’artista, che dura un tempo breve quanto breve è ogni certezza. Se consideri oltre duecento chilometri percorsi in solitaria per raggiungere il cuore di Jesi, qualche domanda in più te la fai. Allora “Io”, questo lavoro presentato pochi giorni fa in Piazza delle Monnighette, ti stordisce di introspezione, inganna quanto basta per subirlo seduto sui gradini di una scalinata che scende verso il palco. Perché oltretutto “Non vedo troppo talento in giro”, come dice il performer prima di sposarsi a se stesso.

Io è un lavoro scritto da Rezza e dalla compagna Mastrella nel 1998, quando non impazzavano né i social, né la loro espressività deformante; la comunicazione era ancora affidata a giornali e riviste, nemmeno il narcisismo (o nerdcisismo) individuale era argomento tanto popolare come oggi. Si era negli anni ’90 ancora ansiosi di ulteriore futuro, di infinito futuro verso il nuovo millennio. Si era evidentemente meno disperati di oggi, nonostante la sconfitta ai Mondiali (non marginale in questo lavoro fatto anche di calcio e di calci).

“Io, io, io”, con la testa dentro un cerchio giallo raggiera di pazzia. Dopo vent’anni ancora quell’Io, davanti a un uomo che invecchia senza storicizzarsi. Che saltella a tempo fuori dal tempo. Un performer, un deformer, un uomo che si è tolto anche la soddisfazione di un Leone d’oro alla carriera senza sgraziarsi troppo. Le ossessioni che lo turbavano quando scrisse questo “Io” variopinto, frazionato in quadri, oblò facciali, sono rimaste le medesime. Tra tutte il centravanti Sandro Mazzola, il rigore dei suoi baffi, l’onanismo tra e sotto le lenzuola, i vecchi e i miti della terza età, i bambini e i mostri che contengono, la morte e i morti viventi, la resurrezione della carne, la scommessa su Dio, il calcio mancato (forse riferimento all’ultimo rigore in Italia-Francia ai Mondiali del ’98), e ancora e sempre, il pubblico, questo instabile cumulo di individui paganti, plaudenti, bersagli molli cui sputare parole, invettive e salivazioni articolate: le gradinate conquistate con un ridotto da dieci euro, per quanto scomode e surriscaldate, mi hanno dispensato dalle materie sputate dalle fauci di Rezza. “Più gli sputo addosso, più loro s’affezionano”.

Invariabilmente spettacolo fisico-fonetico-mnemonico di non bassa specificità e levatura tecnica ben dissimulata, questo “Io” è un chiaro lamento, così straziante da diventare comico, così cattivo da rivelarsi onesto. Le solite facce deformi nelle varie fogge, la testa che entra ed esce a una velocità esperta di lenzuola, pertugi e depistaggi; un telo-doccia che riesce a sedurre con sottile vanità, partendo da un corpo inafferrabile, mai del tutto fermo né del tutto maschile, o femminile; il racconto poi non conta; conta l’evento, il suo verificarsi nella reiterazione ventennale, nella disarmonia razionalmente cercata dall’autore e nell’equivoco insanabile tra questo artista in lotta col reale e i più di noi-pubblico astinenti di umane rivelazioni. Un “Io” tra noi ogni tanto pareggia il conto col ridicolo, sfida l’assurdo delle cose intorno, lancia i dadi di una partita coi signori del sottosuolo. Per questo – oltre allo scaturire di risate (anche le più stitiche si riscattano) – è giusto (è cosa buona e giusta) sostenere i lavori della coppia Rezza-Mastrella.

E ha ragione lui, Rezza, di affermare che nessuno ha ancora superato lo stadio privilegiato a cui sono giunti lui e Flavia Mastrella. Fino a prova contraria la sua “specificità” (parola cara all’autore) resta finora ineguagliata; il suo “io” declinato tra ossessioni escatologiche, sessuali, sociali, resta contemporaneamente un manifesto di repulsione e un mistero di natura spirituale. Se non dubiti di un’anima rara dietro le ossa del satiro, è possibile che tu debba “ricordarti di quando eri intelligente” (cit. dell’autore di Io). In calze rosse e canotta nera, “Io” si sdoppia a ripetizione, riuscendo a moltiplicarsi di senso e di voci, non dando tregua a niente e nessuno, né ai bambini, né ai cani che fuori abbaiano tra i vicoli, né alla signora che puntualmente filma l’intero spettacolo con telefono davanti agli occhi: “Il problema non è che tu filmi, ma che io vedo la tua faccia tutto il tempo”, le grida Rezza dal palco prima di scendere e scapigliarle la testa. Che sollievo, qualcuno che si espone tanto per noi, che ingaggia una polemica a distanza con  un cane che continua ad abbaiare e disturba come spesso ci lasciamo disturbare: “Anche se sei un cane, sta zitto! Non ti mettere in polemica con me”. Sarebbe bastato questo monito al  cane per  non pentirmi del viaggio in autostrada (!). Ma anche la scapigliata a tanti seduti in prima fila ricordando loro di avere usato lo stesso palmo strusciato sui genitali nel box doccia poco prima.

“Io, io, io… Io che ho un solo amico, me stesso, e un solo nemico: te stesso”. “Solo con io – cantava Rino Gaetano  – davanti allo specchio, a tu per tu”, e sì che la formula è sempre vitale.

 

 

 

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