Famiglia
Società senza padri, il j’accuse di Mario Perrotta
Adesso è Odisseo a cercare Telemaco, il figlio dimenticato o abbandonato a Itaca. Riannodare i fili di una perduta paternità è impresa ardua, quanto espugnare Troia. Figurarsi poi in giorni fragili come questi, dove le lunghe crisi economiche si sono sommate a quelle esistenziali: il futuro è una landa sconosciuta e il prossimo è sempre più il tuo nemico. Così i padri evaporano dice, riprendendo Lacan, lo psicanalista Massimo Recalcati complice dell’ultimo progetto di Mario Perrotta, autore e attore di “In nome del padre”, prodotto dallo Stabile di Bolzano, primo passo di una trilogia (dopo i padri, ci saranno le madri, qui completamente assenti, e infine i figli) che intende sondare il pianeta delle ultime aggregazioni familiari. In realtà è proprio la stessa società, in trasformazione continua, a far perdere il senso dell’orientamento. Così si resta costantemente in bilico. Anche in questo spettacolo. Sulla soglia di una possibile catastrofe. Il dramma, evocato sotto traccia, attraversa nervosamente il testo, punteggiandolo di ambiguità. Sono le mezze parole partorite da concetti ossessivamente ripetuti a voce alta, allo scopo di sedare coscienze scosse dall’incomprensibile: c’è una disperata urgenza di dare un nome al non intelligibile rispolverando codici che una volta guidavano, come semafori, le esistenze.
Freud sosteneva che il ruolo del padre cambiasse secondo il sesso del figlio. Se è femmina diventa desiderato e amato, se è maschio, soprattutto nel passaggio adolescenziale, può assumere le vesti antagoniste del nemico in un continuo braccio di ferro. E ora? Non sembrano esserci più molti punti di riferimento, come suggerisce “In nome del Padre”. Moli d’attracco dove riparare quando il mare è in tempesta. Semidei o figure talismano con cui attraversare un lungo deserto, come le installazioni realizzate con il fil di ferro dallo stesso Perrotta, suggestive nello stagliarsi nel buio di un palcoscenico sgombro e povero di oggetti. Sono un lanciatore di discobolo, il Pensatore che richiama quello di Rodin e un Galata morente. Tre icone di una classicità perduta in contrasto simbolico con le altrettante “tranches de vie” indagate dall’attore/autore nella loro quotidianità. Padri e figli dentro lo stesso immobile, un palazzo qualunque delle nostre città d’Italia e d’Europa, esistenze nevrotiche, solo apparentemente al riparo delle mura piccolo borghesi. Dopo aver sondato in “Odissea” il figlio Telemaco, Perrotta, teatrante in cerca che non ama indugiare in percorsi già battuti, per rispondere a questi interrogativi, esplora l’ignoto partendo dal proprio vissuto (è diventato padre di recente). E così, mentre nelle stesse ore a Verona, una eterogenea Vandea vorrebbe rimettere indietro le lancette del tempo a conquiste e diritti, sul nobile palcoscenico genovese del Duse, l’artista salentino fa le pulci alla famiglia indossando e togliendo gli abiti di tre genitori che hanno perduto la bussola del rapporto con i propri figli. In un allestimento dal respiro cinematografico, con piani sequenza, flash e raffinate dissolvenze recitative, Perrotta scolpisce il volto e il carattere degli adulti, colti anche nelle loro originarie carenze dialettali _tutti e tre pure in crisi coniugale_, un intellettuale siciliano giornalista, un operaio milanese, un commerciante partenopeo.
I loro eredi, Virgilio, Alessandro e Giada, tutti rinchiusi in un ostinato muro di non comunicabilità. “Ikikomori” sentenzia il padre giornalista. Cioè quella particolare sindrome che in Giappone negli ultimi anni pare abbia colpito più di mezzo milione di adolescenti sul punto di lasciare le superiori, alla vigilia dell’ingresso all’università o nel mondo del lavoro. I ragazzi stanno nel chiuso delle loro stanze senza uscire per diverso tempo. Non vera depressione ma disturbo d’ansia provocato soprattutto dalle pressioni ricevute da una società tipicamente competitiva come è quella neocapitalistica. Società rappresentata da professori e famiglia. Un auto isolamento, o meglio un ritiro, anche di diversi mesi, da cui si può uscire, secondo i psicologi, con l’aiuto di entrambi i genitori. E’ “ikikomori” comunque, sentenzia il papà di Alessandro che, preoccupato dal mutismo del figlio, cerca di individuarne, anche con scivolate comiche, le cause più disparate, compresa quella di una taciuta omosessualità: ostentando serena comprensione per questa eventualità condivisibile con spiriti eletti come Catullo e Leonardo. Decisamente borderline l’atteggiamento del papà partenopeo malato di giovanilismo: sta addosso a Giada in modo morboso frequentando persino la discoteca dove vanno figlia e amiche. Calza perfetta la riflessione di Recalcati: “I padri smarriti si confondono coi figli: giocano agli stessi giochi, parlano lo stesso linguaggio, si vestono allo stesso modo”. Con la conseguenza che “la differenza simbolica tra le generazioni collassa”.
Il più poetico è il papà operaio con un passato di musicista rock pieno di sensi di colpa, perduto e a disagio culturalmente e psicologicamente davanti al figlio. Tra un cambio di casacca e l’altro Perrotta alterna senza soluzione di continuità i tre personaggi, sciorinando con mimica e gesti una recitazione fatta di sfumature, lineare nel dare corposità d’attore a tre assenze di genitori costretti allo show down. E anche se una vera resa dei conti finale non verrà, se non parzialmente, possibili sono futuri e ignoti sviluppi. Il dramma è aperto, e come in una pièce contemporanea inglese continua a serpeggiare sottotraccia: forse è l’effetto del condominio, delle porte che si aprono e si chiudono sullo stesso pianerottolo celando comuni storie di incomunicabilità. “In nome del padre” non spinge mai sino in fondo l’acceleratore: si ferma un attimo prima, fotografando e mettendo in allarme per situazioni ad alto rischio, come quella della casa di Giada, dove si assiste al fermentare acido della violenza. Per il resto le tensioni si stemperano riportando nell’alveo dei rapporti d’amore, la complessa partita della vita. Così, all’improvviso, la porta della stanza di Virgilio si aprirà. E il padre giornalista resterà con un palmo di naso, osservando con stupore dalla finestra il suo rampollo che sulla via di scuola cammina mano nella mano di Giada. E, Alessandro, dopo aver registrato durante la lunga notte le confessioni del papà, chiederà di poterlo ascoltare ancora, magari in un nuovo assolo blues con la sua mitica chitarra Epiphone Les Paul, promettendogli dal canto suo di insegnargli a chiudere le videate di “Youporn” che il genitore sbadatamente o perchè incapace dimentica aperte nel computer del figlio. Tutto insomma sembra tornare a posto. E niente in ordine. Perrotta ha fatto un coraggioso lavoro di scavo mettendo a nudo contraddizioni e verità di un presente coincidente con esistenze sempre più aride, povere di idee e valori. Proprio laddove tutto prende inizio. Si replica oggi al teatro Corsini di Barberino (Firenze) e domani al teatro Sociale di Gualtieri (Reggio Emilia).
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