Teatro

Sicilia, la poesia degli ultimi

3 Marzo 2016

Ancora belle prove creative dalla Sicilia.

Mi piace metterne assieme due, pur nel diverso afflato e nella diversa matrice, perché accostante non tanto e non solo dal dolce suono del dialetto palermitano quanto da una tensione alla marginalità e alla miseria che scaturisce dai bassifondi, da un microcosmo – una volta si sarebbe detto sottoproletariato – cui però spetta ancora il peso di farsi portavoce di verità, talmente immediate e dirette da esplodere in poesia.

Ed è poesia davvero quella scritta da Franco Scaldati, uno dei giganti della scena palermitana, scomparso nel 2013. Scaldati, poeta burbero, orso buono, cupo nel suo struggente lirismo, osservava cauto il mondo attorno a lui.

E sapeva descriverlo con pennellate veloci e feroci, notturne e sulfuree, ma sempre con commovente empatia. All’opera di Scaldati si è dedicato un altro maestro, appartato forse come lui, certo altrettanto intransigente e radicale: Franco Maresco.

Ne è scaturito Tre di Coppie, “fantasia” da vari testi di Scaldati, con la produzione del Teatro Biondo, il teatro Stabile di Palermo.

Il risultato è incantevole, per delicatezza, poesia, ironia. Maresco, che è uomo di cinema, aveva già prodotto un bel documentario su Scaldati, che molti affettuosamente chiamavano il “Sarto” perché tale era, dal titolo significativo di “Gli uomini di questa città io non li conosco”. E mi sembra che anche la ricerca per Tre di Coppie parta dallo stesso slancio: nel clima “bianco e nero” di CinicoTv, si tratta di conoscere gli uomini di quella città anomala e straordinaria che è Palermo.

La scena è una scatola nera, rotta in alto da una specie di oblò dove scorrono veloci nitide immagini di nubi o – più avanti, in corso d’opera – videoritratti o un teatrino d’ombre. Il nero, il buio totale dell’ambiente scenico si rompe, però, grazie a concretissime e fisiche apparizioni che fendono la parte di fondo, uomini che mostrando la testa attraverso fenditure, tagli alle altezze le più diverse, come in un bello spettacolo di Denis Marleau di qualche anno fa. Poi, lentamente, quelle figure acquisteranno lo spazio vuoto, e faticosamente il proscenio, salvo poi impossessarsene come in una festa disperata e stanca.

PALERMO 22.02.2016 - TEATRO BIONDO SPETTACOLO "TRE DI COPPIE" CON LA REGIA DI FRANCO MARESCO CON GINO CARISTA, MELINO IMPARATO E GIACOMO CIVILETTI. © FRANCO LANNINO/STUDIO CAMERA
  Carista, Imparato, Civilletti   © Franco Lannino/STUDIO CAMERA

Sono in tre, a dar voce, volto, carne alle mille possibilità create dai personaggi scaldatiani.

In una lingua bellissima, pastosa, semplice, aguzza e morbida al tempo stesso, quei tre corpi si fanno concrezione delle visioni poetiche del Sarto. A tratti è incomprensibile, quella lingua, nella sua letteralità, ma forse non importa: si perde (per chi non è palermitano) qualche battuta, qualche parola. Ma non è la “trama” importante: questi personaggi evocano quel mondo, non lo dicono. Arrivano le loro gag, colpiscono gli sfottò, si intuisce il senso, e soprattutto si svela – o si smaschera – il sottotesto, il mistero profondo che anima queste figurette sospese nel nulla.

C’è il “muto”, che un altro sbeffeggia parlandogli continuamente della propria “minchia” o delle sue corna; ci sono Totò e Vicè, poi Aspanu e Birinittu, ancora Fortunato e Squardaquasette, a reiterare la litania dei santi, a giocare tra loro, come topi e gatti, come figurine bechettiane che sfruttano la schermaglia verbale forse solo per passare il tempo, per continuare a sopravvivere. Vien da chiedersi se queste figure siano vive o morte, se siano evocazioni o maschere di una farsa aristofanesca – appaiono con quelle “minchie” lunghissime – o di una commedia dell’arte troppo povera e vera per essere solo teatrale.

"Tre di Coppie" © FRANCO LANNINO/STUDIO CAMERA
“Tre di Coppie” © Franco Lannino/STUDIO CAMERA

Maresco tiene benissimo la narrazione, lasciando tempo e spazio agli attori, guidandoli sapientemente e aiutandoli solo con un piano emotivo – per contrasto o contrappunto – affidato alle belle musiche di Salvatore Bonafede. E gli interpreti sono straordinari: spaccati di vita, voci e facce tagliate nella realtà, eppure talmente evocativi da sfumare agilmente su livelli poetici e astratti di grande suggestione, da farsi maschere dell’umana tragedia. Sono Giacomo Civilletti, con la sua prorompente e tenera fisicità; il segaligno Melino Imparato e Gino Carisa, con quel suo viso antico. Bravissimi, pura essenzialità: un distillato di concretezza e consapevole verità. Bisognerebbe studiare la precisione del gesto, il nitore del movimento, il ritmo e la grana delle voci di ciascuno di loro…

Tre di Coppie diverte, fa ridere, ma come una comica di Buster Keaton, con un sorriso amaro che sfuma questo cabaret popolare in una piccola cerimonia della memoria, un compianto – di sé, della città, o forse dell’umanità tutta – che lascia con il groppo in gola.

Ben ha fatto dunque, il Biondo di Palermo a investire su questa bella produzione, che rende un piccolo omaggio ad un maestro come Scaldati, troppo a lungo marginalizzato, e continua nel percorso, avviato da qualche tempo, di dare spazio registico ai talenti locali, rinsaldando il rapporto con la città e la sua creatività.

"Codice Nero", di e con Riccardo Lanzarone, ©goricla
“Codice Nero”, di e con Riccardo Lanzarone, ©goricla

L’altro spettacolo di cui vorrei parlare è Codice Nero, scritto e interpretato dal giovanissimo Riccardo Lanzarone il quale, siciliano – allievo anzi di Michele Perriera e della storica scuola Teates di Palermo – ha trovato casa e sostegno produttivo a Lecce, al Teatro Koreja.

Codice nero è la “qualifica” che al pronto soccorso danno ai deceduti. E il racconto di Lanzarone, affiancato in scena dall’ottima presenza del trombettista Giorgio Distante, si dipana in un lungo flashback, in un vorticoso racconto avanti e indietro nel tempo, fatto per frammenti che abbraccia tutta l’esistenza di Salvatore, un uomo qualunque quasi sorpreso in un qualunque ospedale. È proprio questo il nodo cruciale del lavoro: mettere assieme brandelli di vita felice, di sogni e illusioni, di amori e matrimoni a contrasto con la squallida realtà di un ricovero d’urgenza. Proprio come un cannolo siciliano può tramutarsi in un fuoco pronto a esplodere, anche qui la festa ha il sapore di un dramma, e si muta in tragedia.

È la vita, direte voi: Lanzarone la racconta bene, mostrando sentimenti senza reticenze. Evoca Santa Rosalia e la magia dei fuochi d’artificio che spingeranno il protagonista della storia a diventare fuochista; dipana i ricordi dell’infanzia e del rapporto con il padre; racconta i preparativi per il matrimonio tanto atteso.

Riccardo Lanzarone, ©goricla
Riccardo Lanzarone, ©goricla

Cose così, semplici, addirittura candide: e tanto più forte sarà il dolore, l’assurda consapevolezza della fine vicina, inesorabile. La vicenda suggerisce – ma con garbo, con dignità – quello che potrebbe essere rubricato come l’ennesimo caso di malasanità, fatto di attese troppo lunghe, di domande senza risposta, di medici narcisi e sciatti, di umiliazioni che toccano, appunto, gli umili.

Codice nero denuncia, senza enfasi retorica o ansie “civili”, quel che si vive quotidianamente: la sanità italiana sempre più divisa per censo. E quel Salvatore si trova, semplicemente, come tanti, disarmato di fronte a sua maestà il primario, il dottorone, il luminare di turno.

Lanzarone ha energie da vendere: il racconto si avvantaggia di ritmi vorticosi, di una partitura fisica generosa, feroce e inappuntabile. E Codice Nero resta impresso: è una cosa piccola, fragile, creata con sincera adesione, ma toccante.

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