Teatro
Si può vivere (o morire) di teatro?
È difficile scrivere questo articolo. Scrivo di getto, magari sbagliando.
Nel giro di pochi giorni si sono tolti la vita un attore, Pino Misiti, e un’attrice, Monica Samassa.
A queste brutte, bruttissime, notizie, si aggiunge il ricordo del giovane Raphael Schumacher, allievo attore rimasto strangolato – la magistratura indaga su questo incidente – poche settimane fa. E ancora la memoria va al compianto Manrico Gammarota, suicidatosi lo scorso anno.
Perché mettere assieme questi eventi? Mi rendo conto: è un criterio assolutamente opinabile, il mio. Ognuno fa storia a sé, specie in scelte tanto amare. Però c’è qualcosa – al di là del desiderio di compiangere questi artisti – che mi spinge a ragionare oltre il dato emotivo.
Qualche giorno fa, a Milano, in uno spazio suggestivo come l’ex Fonderia Napoleonica, si è tenuto un vivacissimo e affollato convegno: le “Buone Pratiche”, appuntamento annuale, utile a fare il punto sullo stato del teatro in Italia. L’approccio, per volontà degli organizzatori, è sempre “tecnico-gestionale”, e in quest’occasione, in particolare, si parlava della riforma del sistema teatrale, voluta da Mibact di Dario Franceschini. Dopo tanti interventi di amministratori, politici, direttori, manager, organizzatori, addirittura di critici, ha preso delicatamente la parola Natalia Magni, un’attrice, a nome dell’Associazione “Facciamo la conta”, che riunisce appunto attori e attrici italiani di varia generazione e formazione.
Con garbo ha ricordato all’assemblea che ci sono anche loro: gli attori. E ha fatto, tra le tante cose dette, anche una richiesta implacabile nella sua semplicità: ha invitato i teatri a rispettare, quantomeno, il “contratto nazionale di lavoro”. Si sa: in Italia i lavoratori non contano più nulla, figuriamoci quelli dello spettacolo dal vivo. Eppure è proprio qui il nodo. Le condizioni di lavoro nel settore sono progressivamente degenerate, fino a diventare insostenibili.
Da tempo è finita l’epoca d’oro dei contratti scintillanti, dei guadagni eccessivi: ma qui si sta davvero esagerando. Oramai gli attori – ma anche i registi, i tecnici, gli autori, tutti quelli che operano dentro e attorno il teatro – troppo spesso lavorano sottopagati o non pagati affatto.
Si è diffuso un clima di frustrazione, di rabbia, di scoramento. Anche tra quanti – e non sono tanti – hanno qualche garanzia di contratto da teatri stabili o strutture consolidate.
Senza tutele, affannosamente costretti ad aprire partite iva oppure “assunti” con condizioni capestro, i lavoratori dello spettacolo stanno vivendo aspramente le conseguenze non solo della “crisi”, ma anche di gestioni superficiali, di ottusità politiche, di riforme che – anziché riformare – complicano la situazione, come è stato ben detto al convegno di Milano.
Il nuovo direttore generale dello spettacolo, insediatosi da poco al Mibact, Ninni Cutaia, è uomo di esperienza e grandi capacità: e si sta già adoperando per “riformare la riforma”. Risultati non mancheranno, ne siamo certi, ma il disagio resta.
Ed è quel disagio che, mi viene da pensare, ha afflitto anche i nostri amici che hanno scelto di andarsene anzitempo. È un ragionamento cinico il mio? Sembra inopportuno collegare quei drammatici suicidi, me ne rendo conto. Anche perché gli artisti vivono scavando sempre nei propri lati oscuri, nell’intimità e nelle complessità d’animo: il teatro non risparmia nulla, esige dedizione, una capacità sconvolgente di donar se stessi senza reticenze. Gli attori sono sempre al limite del proprio inconscio, rimestano nel dolore e nel malessere di vite vissute, si confrontano inesorabilmente con i sentimenti, le emozioni, le passioni.
E, voglio dirlo chiaramente, se vengono a mancare condizioni di lavoro almeno “serene”, quella ipersensibilità diventa immediatamente fragilità, paura, dubbio, messa in crisi di se stessi. Nessuno arriverà a dire: “è il sistema ad essere sbagliato”, ma pensa subito “sono io che sono sbagliato”. Colpevolizzandosi perché non lavora più o lavora meno, incupendosi se non sa come arrivare a fine mese, deprimendosi se deve chiedere soldi in prestito a papà.
È strano: recentemente abbiamo assistito attoniti a una serie di suicidi di imprenditori. Sono stati considerati “suicidi per colpa dello Stato”. Persone che da tempo non lavoravano, che avevano problemi finanziari, vittime di Equitalia o di dissesti economici bancari. Piccoli imprenditori, risparmiatori, disoccupati: anche laddove non c’erano biglietti d’addio, subito l’opinione pubblica si è mobilitata, indignata di fronte a tali tragiche vicende.
Allora non so: è così diverso il contesto?
Forse tra le tante necessarie e urgenti riforme della riforma – le coproduzioni, i minimi, le teniture, etc – c’è una cosa da fare, prioritaria: dare migliori condizioni di lavoro al settore, semplicemente aumentando il Fus, addirittura raddoppiandolo. Stessa cosa vale per gli enti locali. Al contrario, tanto per dirne una – la prima cosa che fa il commissario Tronca, al Comune di Roma, è tagliare i fondi alla cultura. Dimenticando, forse, quanto afferma il corposo dossier “ItaliaCreativa” reso noto recentemente: nel 2014, settore delle Arti Performative vale complessivamente 4 miliardi e mezzo di euro e impiega più di 150.000 occupati. Gli spettacoli di prosa teatrale risultano i più seguiti in Italia (14 milioni di ingressi paganti), con un incasso superiore ai 200 milioni di euro, sostanzialmente stabile negli anni. Non conta nulla?
Dunque, si tratta di portare il finanziamento pubblico nel settore a livelli più consoni all’impegno di altre nazioni europee, investendo davvero sulla cultura e sullo spettacolo dal vivo. E rimettere al centro dell’attenzione, della discussione (e del lavoro) l’artista, garantendo condizioni di lavoro. Detta così, sembra una banale questione di soldi, e forse lo è: al netto delle cattive gestioni (si veda la questione Arena di Verona, proprio in questi giorni) al teatro italiano – come alla danza, alla musica, al circo – mancano invece i fondi per un’adeguata sussistenza. Il Welfare, il benedetto Welfare che oggi sembra una parolaccia.
Come accade per tanti piccoli imprenditori, lavorare contando solo sul proprio entusiasmo, sulla passione, sulla “militanza”, alla lunga non basta. Crea un doloroso malessere. Le forze vengono meno, la dignità vacilla.
Non so perché Monica, Pino, Manrico siano arrivati a quel punto doloroso, a quella consapevolezza. Raphael lavorava – questo lo sappiamo – in condizioni “precarie”. Come tanti, come troppi attori e attrici.
(nella foto di copertina: un dettaglio delle bellissime Marionette Podrecca; foto di BucoFotografico-Eugenio Spagnol)
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