Teatro

Si consuma a Roma la resurrezione del Cristo nero

11 Ottobre 2019

Il passaggio di Milo Rau in Italia non è stato senza conseguenze. Questo giovane regista svizzero (classe 1977), approdato alla direzione del teatro Nazionale di Gent fa discutere (su questo giornale il suo Diario italiano).

Con i suoi lavori apre squarci di dubbi, domande, indignazioni, rifiuti. Dopo aver presentato alcuni suoi spettacoli (da ultimo Orestes in Mosul per il Romaeuropa Festival) ha sollevato un mare di attenzione con il Nuovo Vangelo, un percorso filmico e teatrale che è partito da Matera Capitale della Cultura 2019 ed è approdato a Roma. Ho avuto la fortuna di assistere a due giornate di riprese in Basilicata e alla Assemblea Generale organizzata al Teatro Argentina.

Provo a darne conto, partendo dalla fine, dall’esito della convocazione capitolina.

La sala del teatro Argentina

All’Argentina si dovevano girare due scene annunciate: la deposizione e la resurrezione. La prima ha avuto uno “svolgimento” scenico tradizionale, è stato una sorta di tableaux vivant che si è animato all’apertura di sipario. Una sequenza rapida e ovviamente rituale, ben illuminata, ben coordinata. Una rappresentazione (sacra) in linea con l’immaginario evangelico. L’unica nota di colore – è il caso di dirlo – è che sul palcoscenico tutti o quasi, a partire dal Cristo di Yvan Sagnet erano neri. Ormai è noto: Rau ha scelto il mondo dell’immigrazione, dello sfruttamento, della marginalità e della povertà contemporanea per ri-portare la “buona novella”. Assieme alla dramatur Eva-Maria Bertschy, ha insinuato una “Rivoltà della dignità” nelle parole e nelle parabole cristologiche: ha fatto del “discorso della montagna” un comizio politico e sindacale.

Insomma, ha reso aspramente d’oggi il messaggio evangelico, spiattellandolo in faccia a noi benpensanti di sinistra, solidali e pigri, comprensivi e distratti. Ha chiamato in causa l’eterno razzismo di questo nostro Bel Paese.

 

Sul set di Rau a Matera: la Via Crucis

A Matera ho assistito alle riprese di due scene importanti. Il processo di fronte a Ponzio Pilato e la Crocifissione. Nel processo, girato in piazza, nel Sasso Caveoso, tra ristoranti e frotte di turisti, oltre ai protagonisti e alle comparse in costume, siamo stati coinvolti tutti: eravamo nella folla che inneggiava a Barabba e che “buava” il Cristo nero. Eravamo i razzisti che urlavano contro l’immigrato, contro il “negro” che, impassibile e sofferente, si lasciava crocifiggere. Eravamo quelli che lanciavano i pugni in aria al grido di “tornatene a casa”, che specificavano “prima gli italiani”, che facevano i versi della scimmia come accade pressoché ogni domenica negli stadi: ci rubano il lavoro questi qua, sono tutti criminali, rimandiamoli a casa.

Milo Rau era bravissimo (e gentilissimo) nel dirigere, nel cogliere ogni elemento di disturbo: una ambulanza che passava a sirene spiegate, una comitiva, un gruppo di pellegrini di qualche paese lontano che immediatamente viene coinvolto in un canto collettivo. Ed era Marcello Fonte, l’anomala Palma d’Oro di Cannes, a vestire i panni di Ponzio Pilato: dopo un breve scambio di battute con la folla, si lava ritualmente le mani. Cristo muore, lo sappiamo.

Il cielo sopra Matera nel giorno della Crocifissione

 

Il giorno dopo, domenica, con effetti luce che squarciavano il cielo lucano grazie alla fantasia del Padreterno, che resta sempre il miglior light designer al mondo, si compie la crocifissione. Sulla Gravina, di fronte a Matera. C’è vento, noi stiamo lontani, assistiamo in silenzio. È la finzione e la realtà? Teatro? Cinema? Oppure una sacra rappresentazione e una “blasfema” denuncia?

 

Il set a Matera

Ci ritroviamo, pochi giorni dopo, per la laica, laicissima, Resurrezione. Stavolta a Roma, in teatro.

Grande attesa del pubblico, caccia frenetica ai biglietti disponibili, curiosità diffusa: è l’annunciato evento di apertura della stagione.

La sala è invasa da cartelloni con slogan: come era quella del compianto Valle Occupato, anche al teatro Argentina ci sono scritte (brechtiane?) efficaci e provocatorie.

Ecco la Deposizione, nel silenzio generale, che lascia spazio agli interventi, alle “testimonianze”: a uno scranno da oratore, prendono la parola braccianti, immigrati, piccoli coltivatori, un prete militante. Sembrano le rituali letture della messa, e invece sono racconti veri, dolorosi, appassionati, umili e sinceri: la pratica cristiana delle “letture”, del racconto della croce, diventa qui un susseguirsi di autobiografie e rivendicazioni. C’è chi grida “Dignità” sperando di coinvolgere il pubblico, oppure “Libertà” oppure ancora “Diritti”. Ma la sala è restia a lasciarsi andare: applaude, certo, ma sembra più osservare che non partecipare. Forse anche perché il meccanismo è uno straniamento brecthiano, innervato di nuova linfa da Rau, che spinge su una fredda distanza e sulla consapevolezza di quella distanza: potremmo pensare che il regista attui questi “allontanamenti emotivi” proprio per denunciare la freddezza con cui certi temi vengono ormai accolti in Italia. Insomma, abbiamo o le reazioni di “pancia”, di quelli che “parlano alla pancia del paese”, oppure la frustrante e sterile consapevolezza di chi sa ma non fa nulla per cambiare il corso delle cose.

Il momento della resurrezione è in questa prospettiva: Yvan Sagnet entra dalla platea, vestito in modo quotidiano. Il suo sollevare la pietra tombale è un discorso politico, una arringa: “Nemico non è chi ha fame, ma chi affama i popoli”, dice tra le altre cose. Noi, seduti in platea, ascoltiamo.

Il Teatro Argentina

C’è spazio per ascoltare anche il senatore Gregorio De Falco, che spiega i trattati internazionali in materia di salvataggio in mare; o la voce di una rappresentante dello Spin-Off, il palazzo occupato nel quartiere Esquilino, salito alle cronache recenti per l’intervento dell’Elemosiniere del Papa che riattaccò la luce, inopinatamente staccata alle 150 famiglie che ci vivono. Si parla tanto di legge e giustizia, di lavoro e tutela, di documenti e casa.

E c’è tempo per votare un manifesto, un documento programmatico, una “mozione”, come si sarebbe detto una volta nelle riunioni di partito. È il documento che costituisce il fulcro del discorso del Cristo nero. La sala vota con maggioranza: un solo voto contrario e un’astensione, quella del vicesindaco Luca Bergamo, che coraggiosamente fa un dovuto distinguo in merito alle occupazioni ricevendo contestazioni di risposta. Ma il dibattito non decolla, l’assemblea non si infiamma.

Infine, con Marcello Fonte come buffo cerimoniere, si arriva alla scena successiva: il “Battesimo” di un giovane congolese che interpreterà il ruolo di Gesù in un film da girare in una piantagione in Congo, il cui ricavato servirà per ricomprare le terre espropriate ai contadini.

Alla fine, riecheggia il grido “distruggiamo quel che ci distrugge”: precipitano pomodori dalla graticcia del teatro e tutti, braccianti, sindacalisti, preti, politici, attori li schiacciano, in un sabba liberatorio, evocando la raccolta dei pomodori del Sud Italia, laddove vige davvero la nuova schiavitù.

Dopo gli applausi, non mancano tra gli spettatori le puntualizzazioni, i distinguo, le prese di distanza. Avverto, uscendo, un disincanto diffuso attorno a me – quel tipico disincanto romano di chi la sa lunga, di chi ha già visto tutto, di chi pensa di poterla risolvere meglio. Noia, perplessità, obiezioni.

“Doveva farlo in piazza, doveva non far pagare il biglietto, non è teatro, non è realtà, vabbè lo sapevamo già, non è stata una assemblea, troppo cattolico, gli altri spettacoli erano meglio, l’estetica lasciava a desiderare…”. Così in tanti.

Milo Rau, al centro, sul set

A mio parere, una delle cose che voleva sottolineare Rau, ripetuta fino allo sfinimento dai suoi “testimoni”, era proprio la diffusa indifferenza della società e dell’intellighenzia italiane. L’impianto stesso dalla “Assemblea” avrebbe portato a questo. Sappiamo quel che accade, siamo d’accordo ma – io per primo – non facciamo niente. Ci salviamo con qualche gesto di carità, con qualche indignata presa di posizione sui social, manifestiamo in piazza ogni tanto. E lì ci fermiamo. A Roma tutto questo diventa emblematico: l’affollata platea è certo concorde, in sintonia con il messaggio politico o neo-evangelico, ma non basta.

Rau ha fatto una operazione aguzza. Mostrare smaccatamente che oggi Cristo è nero, è nei campi profughi, nei centri d’accoglienza, tra i raccoglitori di pomodori, denunciando le multinazionali, la politica inerte o complice, l’ignavia o il razzismo degli italiani. Mette in scena – in forma di film e di performance politica degna di un agit-prop contemporaneo, alludendo appunto a stilemi cari a Piscator o a Brecht – una “stazionendrama” che ha respiro ampio e di cui dobbiamo ancora vedere il compimento e le conseguenze. Trasla il messaggio evangelico in proposta politica, al di là della metafora: Cristo risorto ha la lucidità del sindacalista. Ma la reazione è lasca: l’agit prop di Rau non scatena rivolte, semmai blande e teoriche adesioni. Per il resto, si sta lì a cavillare. D’altronde, io, in piazza a Matera, votavo per Barabba e Ponzio Pilato era romano…

 

 

Con la produzione della fondazione Matera 2019, dell’International Institute of Political Murder, del Teatro di Roma, NT Gent, e Teatri Uniti di Basilicata, la prossima tappa del Nuovo Vangelo è annunciata a Palermo, il 10 novembre, per il Transeuropa Festival. Sarà un Congresso.

Per info, e per leggere il manifesto: www.rivolta-della-dignita.com

 

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