Teatro
Short Theatre: una boccata d’aria fresca per Roma
Ci piacerebbe di più Roma, se fosse come Short Theatre. Affollata, febbrile, divertente, giovane, appassionata, multilingue, ironica, erotica…
E invece la città è il casino che è: terreno di uno scontro politico tra i più squallidi degli ultimi decenni, afflitta da menefreghismo, arrivismo, opportunismo, sciatteria.
Roma peraltro resiste, fa del suo meglio – e la luce dei tramonti in questi giorni di settembre è bellissima – anche grazie, diciamolo, a quel mondo di matti che si ostina a fare cultura, spettacolo, arte. Quanti ancora inseguono bellezza anche nella palude politica.
Short Theatre è un festival breve e intensissimo, che da undici anni – con ostinazione degna di Sisifo – anima alcuni spazi della capitale all’insegna della giovane scena italiana ed europea. E devo dire che l’edizione 2016, forse più di altre del passato (che sembravano piuttosto chiuse su se stesse), arriva come una ventata d’aria fresca.
Il contesto, si sa, determina sempre il testo: e il contesto romano è così triste che ad arrivare agli spazi della Pelanda, uno quasi si metterebbe a saltellare, a abbracciare tutti, a brindare con vodka senza tregua come in uno spettacolo di Cechov (poi però lo scontrino del bar, non popolare, ti costringe a ridimensionare: un vodkatonic 8 euro). Insomma, Short Theatre, con la direzione artistica di Fabrizio Arcuri, e la direzione generale di Francesca Corona, non a caso si è scelto come titolo “Keep the village alive”. Se poi il villaggio in questione è Roma, la battaglia sembra senza speranza. Ma se il villaggio è quello dell’utopia di un cambiamento possibile, allora eccoci tutti in prima linea, ancora a crederci, ancora a sperare, ancora a provarci.
Dunque, articolandosi tra i bellissimi (e ancora irrisolti) spazi dell’ex Mattatoio, e poi del teatro India, di Palazzo Venezia, di Villa Medici e della Biblioteca Vallicelliana, questo festival sta dimostrando, ancora una volta, che c’è la possibilità di vivere Roma in modo diverso, con una grandiosa risposta di pubblico che ha fatto registrare il “tutto straesaurito” sempre.
La cosa buffa è che la famosa “estate romana”, un tempo vanto della Capitale, oggi – per lentezze burocratiche – è diventata un autunno romano: per cui nel mese di settembre c’è un affollarsi di iniziative e manifestazioni, che si sovrappongono l’una all’altra, alla faccia del coordinamento e della programmazione. Si spera che il nuovo assessore alla cultura, Luca Bergamo, possa ridare senso e smalto a quella “estate” inventata, ormai mille anni fa, da Renato Nicolini.
I primi giorni di Short Theatre, dunque, oltre a motivarci nell’affrontare la prossima stagione teatrale, ci hanno regalato anche qualche bella sorpresa. Nelle serate che mi sono capitate in sorte, ho visto una manciata di spettacoli sui quali è forse utile spendere qualche parola.
Mi è piaciuto, ad esempio, il vibrante e divertente assolo di danza creato da Marco D’Agostin, Everything is ok. Camicia fiorata e pantaloni corti, inizia con un florilegio di testi, detti a raffica, che contiene di tutto. Come in un magma vorticoso si mescolano rap e Shakespeare, dialoghi cheap da reality e pompose dichiarazioni ufficiali, italiano inglese e spagnolo, canzonette e poesia, con esiti esilaranti. Poi è una vertigine di movimenti, una sequenza fluida e continua, anche con inserti a terra, a tratti nevrotica e a tratti umanissima, che D’Agostin domina al par suo, scivolando da gestualità quotidiane a straniamenti stridenti, che lentamente si spengono in una crepuscolare e struggente immobilità. C’è un piano drammaturgico, di ipotesi possibili, di smascheramenti ironici, di allusioni – nemmeno troppo velate – a un disagio crescente che si dipana nella avvolgente musica elettronica di LSKA.
L’atteso gruppo belga TG Stan (nella foto di copertina) ha presentato un’edizione disinvolta ma piuttosto tradizionale di Tradimenti, il testo di Harold Pinter del 1978. È un bel testo, lo sapevamo, e i tre interpreti (Robby Cleiren, Jolente De Keersmaeker, Frank Vercruyssen) sono bravissimi, addirittura straordinari, a tratti, nel far vivere le parole del Nobel inglese. Bene, benissimo, ottimo spettacolo. Ma, alla fine, ci troviamo di fronte a una variazione “rinfrescata” di un ormai classico contemporaneo: lì per lì entusiasmo, però poi, a ripensarci, concludiamo che non si tradisce più come una volta. Ormai anche il tradimento si è fatto liquido, disinvolto, comunque lontano da quel ménage gentile, quasi educato, dei tre intellettuale raccontati da Pinter.
Deludente, almeno per me, la star Ivana Müller. Supportata da una sfilza di produttori e co-produttori, la Müller ha presentato Edges. Che è un susseguirsi di quadri – addirittura pantomime! Erano secoli che non vedevo pantomime! – in cui porta in scena “comparse” di evidente e eccessiva “normalità”: i coristi di un’opera; i modelli di un pittore classico; i figuranti di un film, modelli per un fotografo e altri. Il tutto mentre delle voci fuori campo, amplificate e “intime”, al microfono, si lasciavano andare a considerazioni di vario tipo, lontanamente attinenti con le sequenze gestuali dei figuranti stessi. Una noia mortale, almeno per me. Dopo il primo quadro, capito il giochino – con la sua supponenza di voler raccontare la visione degli ultimi, dei marginali, dello sfondo, di quello che è fuori dal “frame” – c’era solo da sperare in una fine veloce e indolore.
Mi è piaciuto molto, invece, Oscar De Summa, con il suo Stasera sono in vena. Spettacolo non nuovo, già visto e ben recensito, arriva a Short Theatre con grande successo. Solo, seduto su una cassa amplificatore, con i grandi classici del rock anni ottanta a far da colonna sonora (ma ri-cantati dal vivo), De Summa racconta una storia di provincia pugliese, una delle tante, tra disperazione e tossicodipendenza, piccola e grande criminalità, sogni di fuga e fallimenti. Inizia con tono baldanzoso, ironico, ma la narrazione scivola sempre più verso un’intimità quasi autobiografica, dolente e dolorosa, che agguanta lo spettatore per la gola e gli restituisce tutta la disperazione di chi vive ai margini (questi sì, altro che le leziose comparse della Müller!). Storia di un Sud Italia ora e sempre malato, disperato, inutilmente buttato in silenzio in qualche angolo della storia. Oscar De Summa, tra Iggy Pop e Pink Floyd, dà voce a uno dei tanti, vittime del nulla, incoscientemente votato alla morte.
Tossici, drogati, si dicono: o tossicodipendenti, con un’espressione politicamente più corretta. Gente che sta fuori dal mondo, dalla vita, dalla realtà, ossessionati solo dal rito quotidiano della dose.
Lo spettacolo, nei toni a tratti lievi di un percorso di formazione, è una testimonianza radicale (ma senza toni barbosi di denuncia) del fallimento di qualsiasi politica sociale e, contemporaneamente, della vittoria di associazioni come la Sacra Corona Unita o le tante Mafie. Fateci caso: in Italia ormai non se ne parla quasi più, intenti come siamo a combattere la “piaga” dell’immigrazione, mentre le cosche continuano a delinquere, spacciano, ammazzano, ricattano, riciclano come sempre.
E infine mi è piaciuto tanto, tantissimo, il lavoro della brasiliana Christiane Jatahy per la prestigiosa Ecole des Maitres. Ma questa ve la racconto la prossima volta, perché si tratta di parlare, seriamente, di pedagogia e formazione.
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