Teatro

Short Theatre e il rito d’inizio stagione

18 Settembre 2019

Un po’ di cose belle sono passate al festival Short Theatre di Roma, diretto da Fabrizio Arcuri e Francesca Corona  da ben quattordici edizioni.

La manifestazione è ormai una festa d’apertura di stagione, dedicata a quel che si muove nel magma della “ricerca” e della performance. Un rito, insomma, che si consuma tra birrette troppo care, artisti da scoprire, chiacchiere da fare, conferenze da ascoltare e l’immancabile DJset: un rito, più o meno uguale a se stesso, che si conserva e si rilancia ogni stagione.

ShortTheatre occupa e anima gli spazi romani della Pelanda, l’ex Mattatoio a Testaccio, e da quest’anno del WeGil (un edificio di marca fascista, ex Gioventù Italiana del Littorio) a Trastevere: spazi recuperati, va da sé, ché a Roma ce ne vuole per aver contesti nuovi – l’ultima “novità”, il Teatro India, festeggia a giorni i venti anni ed è una ex fabbrica riadattata allo spettacolo, così come è frutto di un valido recupero lo spazio che l’ATCL sta per inaugurare agli ex Studi che furono di Roberto Rossellini: ci siamo consumati per costruire l’Auditorium e tanto ci basti per i prossimi secoli. Per il contemporaneo, insomma, ci sono solo spazi “ex”: si tratta sempre di arrangiarsi, di adattarsi, di tentare di recuperare, o salvare, luoghi dall’oblio e dalla decadenza. Il tutto conferisce spesso un’aria mortificata di folclorico, di precario, di forzatamente alternativo. Vero che ShortTheatre è entrato anche all’Argentina, con Sciarroni (ne abbiamo dato conto) ma non è nemmeno quella la risposta per una città che dovrebbe guardare al futuro.

Detto ciò, andare alla Pelanda significa anche fare i conti con linguaggi aspri, acerbi, incerti, a tratti velleitari: comunque con tensioni e contaminazioni che parlano – soprattutto – a chi già “mastica” di teatro, addetti ai lavori e specializzati.

E noi, che c’eravamo anche alla prima edizione, ci ritroviamo invecchiati, anche un po’ incattiviti, certo affaticati e sempre più spaesati, eternamente marginalizzati, a prender parte al piccolo rito e a fare i conti con il tempo che passa e con la ricerca che spesso non trova: magari confrontandoci con gli stessi artisti che conosciamo da anni, e che ci gratificano più per altissime “conferme”, che non con quelli che dovrebbero stupirci per spiazzanti “innovazioni”. Ma tant’è, questi son discorsi da vecchio barboso. La cosa buona, che ci salva sempre, è la scena: la prova di attrici e attori (e registi, e tecnici…) che sanno il fatto loro. Non ho seguito molto la manifestazione, ma mi piace segnalare almeno tre lavori.

 

Da sinistra: Tagliarini, Alberici, Deflorian, foto di Elisabeth Carecchio

Così commuove e diverte Scavi, di Deflorian/Tagliarini, cui si affianca Francesco Alberici, sempre più maturo e consapevole della sua presenza scenica. Presentato nello spazio Carrozzerie Not, Scavi è una sorta di spin-off del fortunato precedente spettacolo Quasi niente, in cui il gruppo romano si confrontava (o prendeva spunto) da Deserto Rosso, di Michelangelo Antonioni.

Nella fase di preparazione, istruttoria, dello spettacolo, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini si sono imbattuti in una miriade di “reperti”, di rimandi, di dettagli che avevano accompagnato Michelangelo Antonioni e Monica Vitti nella realizzazione del film.

Lo spettacolo a Carrozzerie NOT, foto Ufficio Stampa

Scavi è dunque il racconto di quell’indagine, è un diario arioso che trae spunto dai “fossili” professionali e sentimentali di Antonioni, grazie al Fondo conservato a Ferrara. Prende le mosse dalla famosa battuta di Monica Vitti: mi fanno male i capelli. Battuta perfetta, struggente e ironica, che forse è da attribuire alla poetessa Amalia Rosselli, ma che per Deflorian/Tagliarini diventa l’attivatore del discorso, l’aggancio per parlare di sé, per ricordare, per evocare mondi, famiglie, affetti: come ti tagliavi i capelli da piccola? Chi li tagliava?

Scavi procede con grazia, come un sussurro, per capitoli diversi, parla di tossicodipendenze e abbandoni, di madri e di amori, di racconti sempre sul filo di un autobiografismo privato ma condivisibile, comunque toccante. Nella sua apparente semplicità, è un lavoro raffinatissimo.

 

Monica Demuru in Jukebox-Roma

Altra “conferma” arriva da Monica Demuru (che peraltro ha lavorato anche con Deflorian/Tagliarini) qui protagonista assoluta e straordinaria del progetto Encyclopédie de la Parole dei francesi Joris Lacoste e Elise Simonet. Il lavoro presentato a Short, nell’ambito del programma nazionale “La Francia in Scena”, si intitola Jukebox-Roma, e funziona proprio come la famosa scatola da musica ma, al posto delle canzoni, ci sono frammenti di discorsi raccolti nella Capitale nell’arco di qualche anno. Lacoste insegue, da anni e con acume, quella che Demuru ha definito la “forma del parlato: il cosa si dice e il come si dice”, seleziona quei frammenti in base alle qualità formali degli stessi, e poi chiede al pubblico di scegliere. Allo spettatore, sistemato sull’area del palcoscenico, di fronte alla gradinata dei posti, viene offerta una carta, una specie di menù, contenente titoli vari, e può richiedere questo o quel brano. Monica Demuru esegue – alcuni a memoria, altri leggendo le “partiture”: perché di partitura si tratta. La composizione e l’esecuzione è del tutto musicale, sensata e interpretata certo, ma affrontata come si affronta uno spartito. Il ritratto di Roma che ne viene fuori è bellissimo: potrebbe essere Gadda, con quel “polipaio” di voci, che si distinguono per estrazione sociale, economica, geografica –  addirittura di quartiere – per quel misto di dialetti (il romanesco che mescola tutto, ma con echi di varie regionalità). Oppure potrebbe essere uno spaccato da “nuovi mostri”, una spietata analisi socio-culturale attraverso il linguaggio. Allora si passa dalle indicazioni di un regista su un set pornografico alla visita guidata alla Domus Aurea; dalla crisi di nervi di un professore al dialogo radiofonico di una star del “trap” con gli ascoltatori; dalla telefonata alla Agenzia delle Entrate al discorso al Festival di Cannes di Marcello Fonte, per arrivare alla secca testimonianza sulla situazione dell’Ilva di Taranto di fronte al Ministro del Lavoro o alla segreteria del servizio clienti Atac. C’è davvero di tutto, eppure, come dicono i francesi, tutto si tiene: sono tessere di un mosaico, che compongono un disegno su cui riflettere.

Demuru è fantastica: suadente, eclettica, aguzza, ironica, trasformista, addirittura commovente nel finale, quando interpreta – come fosse un brano di Stockhausen – una lallazione d’infante. Ma al di là del virtuosismo, quel che arriva è un caustico affondo nella “cittadinanza” romana: una città raccontata dalle sue voci vere, reali, uno spaccato aggiornato della “Roma” di Fellini, che ha tanto il respiro di una denuncia amara di quanto questa città stia perdendo la propria umanità.

Silvia Calderoni in Chroma Keys, di Motus, foto di Tani Simberg

Resta da dire dello “scherzo tecnologico” dei Motus: Chroma Keys affidato a Silvia Calderoni. Loro, i Motus, ossia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò sono sempre là, resistenti e combattenti dietro i loro computer o alla macchina da presa: sono presenti ai loro spettacoli, parte integrante di ogni lavoro che hanno fatto nella lunga storia della compagnia riminese. Sempre attenti a fiutare il mondo, a cogliere – sismografi quali sono – ogni piccola scossa culturale prima che questa deflagri, Casagrande e Nicolò, con la presenza forte e dinamica di Calderoni, allestiscono un semplicissimo set televisivo, usando il “trucco” del green screen – il più antico degli studi tv – per collocare la protagonista in scene di film più o meno celebri. In tanti l’hanno fatto prima d’ora, non è una novità, ma il gioco fiorisce e diverte. Evidentemente, i Motus non sono interessati alla precisione tecnologica (hanno in passato fatto grandi cose con le video proiezioni): anzi si permettono anche qualche sporcatura, qualche ingenuo effetto, qualche ironico  “scherzo” – appunto – per divertire e divertirsi assieme agli spettatori.

il set di Motus, foto Ufficio Stampa

La performance in sé sarebbe piccola cosa, se non insinuasse, come spesso accade ai Motus, anche qualche considerazione più ampia. E mi piace evocare, allora, una definizione di qualche anno fa data dal curatore d’arte Nicolas Borriaud, quando parlava di “Altermodernità”, riferendosi a un nomadismo (parola cara al gruppo) ormai oltre Baudelaire, a una positiva esperienza di disorientamento, a una possibilità di diventare se stessi attraversando gli ambienti, i mondi diversi del caos e della complessità. Fino a superare le concezioni abituali dello spazio, del tempo, dell’identità. O del cinema.

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