Teatro

Short Theatre e gli spettacoli che regalano domande

11 Settembre 2018

Si impone con forza e allegria il festival Short Theatre di Roma. Ogni anno, a settembre, segna il ritorno, il ricominciare della stagione. Come a un rito di passaggio o di iniziazione, ci si ritrova tutti – noi che raminghi abbiamo passato l’estate spostandoci da un festival all’altro –  negli spazi poco strutturati della Pelanda, a Testaccio, tra caldo torrido di sale surriscaldate e musica dal vivo. E soprattutto, con Short Theatre, si ritrova Roma, e si pensa sistematicamente al suo teatro. Così, se questa prima decade del settembre capitolino è stato segnato da fulmini e saette, da scariche elettriche che scuotono notti insonni dopo giornate afose,  certo un fulmine è stata la nomina di Antonio Calbi, direttore del Teatro di Roma, da pochissimo riconfermato per il nuovo triennio, all’incarico di sovrintendente all’Inda di Siracusa. Una situazione che apre scenari inattesi, a tratti problematici: bene per Calbi, cui vanno i nostri migliori auguri di buon lavoro, ma certo un po’ di preoccupazione desta lo stato di un teatro nazionale che si ritrova, dalla sera alla mattina, senza direttore. Che deciderà il Cda? Staremo a vedere, ma il quadro che si profila è meno semplice di quanto si possa credere.

Magari ci torneremo su questa vicenda, intanto ci godiamo la vitalità di Short Theatre. Ci sono istallazioni curiosissime, come quella di OHT, Little Fun Palace, di Filippo Andreatta: una roulotte che diventa perno e centro per proposte le più diverse. Poi ci sono lavori in divenire – l’Ecole des Maitres, ad esempio – e altri percorsi già affinati e raffinati.

Prendiamo, allora, due titoli per i quali c’era molta attesa e che hanno avuto entrambi la forza di spaccare – come si dice – il pubblico. È un bel teatro quello che divide, che ti lascia dubbi, che allarga pensieri come il classico sassetto buttato nello stagno. Ne usciamo dicendo: “sì, ma”, con un sorriso sorpreso e lo sguardo vivo. In quest’epoca di “tiro dritto”, di verità assolute, di irrevocabili certezze (minate solo, eventualmente, dall’opportunismo) meglio coltivar dubbi, avere perplessità, meglio scoccar domande veloci come frecce.

Come fa il portoghese Tiago Rodrigues, star della scena europea, già molto amato in Italia. Arriva a Short Theatre con Antonio e Cleopatra (nella foto di copertina di Magda Bizarro) e lo spettacolo è stato accolto da appalusi e consensi: un successo netto e bello. Ma anche da dubbi, mugugni, sbuffate. A me ha lasciato una valigetta di domande aperte.

Provo a descrivere: scena algida e astratta, limitata sulla sinistra da una mega istallazione modello Alexander Calder. Sulla destra una piccola panca sostiene un giradischi e dell’acqua. Sono in due: entrano, guardano il pubblico, ammiccano già un po’. Lei e lui. Lei dà voce a Antonio, lui a Cleopatra. Scandiscono sistematicamente i due nomi, a turno, una infinità di volte. Inizia così una “riduzione” di e da Shakespeare a gioco lessicale, a raffinato virtuosismo verbale, in cui la reiterazione, il loop, l’insistenza, sono meccanismi con cui procede la narrazione. Microfrasi e giochi linguistici, procedimento sistematico di evocazione e astrazione. Dal punto di vista fisico lo spettacolo è, come dire?, un teatro di figura senza figura: ponendo le mani in una certa postura si evocano gli “spettri” dei due personaggi. Che così si possono muovere, spostare, far entrare e uscire dalla realtà della rappresentazione. La storia, a grandi linee, la sanno tutti, non foss’altro per il film peplum con la divina Taylor. Dunque è consentito evocarla in minore, suggerirla, spezzettarla in algoritmi verbali che macinano quel che resta dell’originale. Tutto è ridotto a inezia, a sospiro, con l’infinita ripetizione delle azioni: “Antonio inspira”, “Cleopatra espira”, e viceversa, vera colonna sonora del lavoro.

Non mancano momenti poetici, belli, addirittura commoventi nel loro candido nitore. Ma tutto lo spettacolo si dipana in questa reductio ad unum, al cruciverbone della fu-tragedia: quasi a dire che l’originale shakespeariano, che poi non sarebbe una storia indifferente, non è più possibile; che quei personaggi là, così imponenti e complessi, sono oramai fuori tempo, fuori scena. Basta, allora, chiamarli come “spettri”, come ectoplasmi, come non-figure che assecondano il flusso verbale. Sono bravi, non c’è che dire, i due giovani protagonisti, Sofia Diaz e Victor Roriz, ma così stucchevoli, così compiaciuti nelle mossette e nelle faccette, nel bere l’acqua in “pausa” mentre il disco suona la colonna sonora del film Cleopatra, insomma nel giochino che conducono magistralmente da far passare tutto all’artefatto, all’estetizzante (ancorché di parola). E quando poi il virtuosismo linguistico deflagra nello scioglilingua delle assonanze – già sentito tante altre volte – nemmeno la dolce saudade del portoghese salva, almeno per me, la situazione di questo minimalismo liquido. Così, quando finalmente si passa dalla evocazione, dalla narrazione del personaggio in terza persona alla prima, con i due attori che si assumono chiaramente le battute e le dicono, l’esito è illanguidito, vacuo, evanescente.

La scelta è chiara, la prospettiva pure: così come Calder, con i suoi mobile, riporta allo stupore e al gioco infantile la costruzione visiva, qua ci muoviamo verso un teatrino dell’adolescenza, dell’innocenza: più Eric Rohmer che Shakespeare. Dunque cosa resta di Antonio e Cleopatra? Ma soprattutto, cosa resta di questo spettacolo? Ecco la domanda che ci lascia Tiago Rodrigues e che mi sono portato a casa in attesa di risposte.

 

Gala di Jerome Bel. La foto non si riferisce allo spettacolo presentato a Roma

E invece ero andato super-prevenuto a vedere Jerome Bel. Prevenuto perché da qualche tempo mi occupo di “teatro sociale d’arte” e a me lo “sbatti il down in proscenio che fa piangere” mi è venuto francamente a noia. E un po’, molto, mi irrita. Ma la questione di Gala, visto al teatro Argentina sempre nell’ambito di Short Theatre, mi ha spiazzato.

Intanto per l’incipit dello spettacolo: una proiezione lunga, insistita, di fotografie raffiguranti i tipi più diversi di teatri. Edifici di ogni foggia e epoca storica, di capienza varia, di collocazione geografica e culturale diversissima. Teatri vuoti: visti da sopra, da davanti, da lontano, da dentro. Platee, palchi, sedie, addirittura un semplice semicerchio di travi di legno buttate a terra a delimitare la zona dello spettacolo. Perché quei tanti teatri? Perché una così lunga proiezione silenziosa? Forse, un’ipotesi, si tratta di un “avviso ai naviganti”, una metafora di quel che si sta per vedere. I teatri, come le persone, sono tanti, diversi, possibili. Non ce n’è uno uguale all’altro. Fino al paradosso di una molteplice mise en abyme: la proiezione della sala in cui si sta vedendo lo spettacolo, nel nostro caso quella del Teatro Argentina. E in quegli strani spazi si gioca al teatro, da sempre. Poi inizia l’esibizione, lo spettacolo vero e proprio.

Un cartello avverte cosa gli interpreti faranno. Balletto, poi Inchino, e poi Valzer, Michael Jackson, Solo, e ancora Compagnia. Sono i “numeri” su cui si esibirà il gruppo, che è fatto da dilettanti, semi-professionisti, professionisti che sono vecchi e giovani, grandi e piccini, belli e brutti, grassi e magri, alti e bassi, preparati e non, neri e gialli e rosa. Tutti vestiti eccentrici. Lo spettacolo è una sorta di format, con il gruppo di interpreti che cambia di città in città, di paese in paese. ma ovunque tornano gli stessi “tipi“, gli stessi esempi o quasi di questo spaccato qualunque di un mondo qualunque, alle prese con il ballo. Poche prove e via.

Il clima è quello del “dilettante allo sbaraglio”, della “corrida di Corrado” (per chi se ne ricorda), con la ferocia che porta a ridere del disagio altrui. Ma qui sono tutti disagiati, anche i due giovani e armoniosi allievi della Scuola del Balletto di Roma, che danno il “canone” e ovviamente spiccano nella “classica”. Però anche loro fanno fatica assai nella danza afro o con il bastone della disciplina delle majorettes. Già, perché la questione in Gala è che ciascuno fa quel che può e sa: consapevolmente e con grande ironia. Intendiamoci: in scena sono serissimi, danno il meglio, e partecipano a un gioco dove non c’è traccia di pietismo. Il risultato non è che “siamo tutti uguali”, anzi: siamo tutti diversi e tutti disabili. La qual cosa fa subito esplodere la contraddizione del pubblico, che applaude con eccessivo slancio il performer in carrozzella o la ragazza down. Proprio la sorniona consapevolezza che promana da Gala mette in cortocircuito il pensiero “solidale” e “comprensivo”, il pregiudizio positivo: non ci sono verità, né priorità, né graduatorie da fare proprio come per le proiezioni dell’inizio. Siamo un’umanità semplice, complessa, diversa e uguale. “Gente incapace di tutto” come diceva Flaiano. Ridendo di loro, dei loro serissimi sforzi di ballare il valzer, ridiamo di noi, della nostra deficienza, del nostro dolore, della nostra diversità. Svelando, visto che ce n’è bisogno, quanto folle sia il razzismo, la distanza, la supponenza di chi si sente o si vede o si crede migliore. Provaci tu, a ballare il valzer…

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