Teatro

Short Theatre 2: polemiche e spettacoli

20 Settembre 2015

Un mio post di qualche giorno fa, relativo alla “comunione” tutta interna al Festival Short Theatre di Roma, ha suscitato qualche risposta indispettita e qualche presa di posizione. Alcune belle, appassionate, articolate: e senza dubbio vale la pena continuare a porre domande, se si hanno tante e tali risposte.

La prima, naturalmente, è del direttore artistico Fabrizio Arcuri, il quale mi ha risposto “a caldo”, su Facebook, chiedendosi – e chiedendomi più o meno: “che altro vuoi?”. In effetti ha ragione, il programma di Short è di tutto rispetto (l’avevo scritto in un articolo precedente, ma in quel caso non mi aveva risposto). Da quel punto di vista, peraltro, non avevo nulla da eccepire: Arcuri ha fatto bene il suo lavoro.

La seconda è di Simone Nebbia, che in un sentitissimo pezzo su Teatro e Critica mi accusa addirittura di «una parzialità di sguardo che può avere risvolti pericolosi». Si tranquillizzi, Simone, non intendo essere pericoloso: in democrazia anzi, le opinioni non dovrebbero essere pericolose, se espresse – come spero di aver fatto – serenamente e in forma dubitativa. Per quel che mi riguarda, non ho verità assolute da difendere e, non facendo nemmeno parte dell’organizzazione del Festival suddetto, penso di poterne enunciare i meriti ma anche quelli che – a mio modestissimo parere – sono alcuni difetti.

Peraltro Simone (lo chiamo così, ci conosciamo, siamo amici), nel declinare il “voi/noi” del suo articolo non fa altro che avvalorare indirettamente la “sensazione” da cui muovevo: ovvero il dover far parte di un “voi”, che può pure essere un gruppo nobilissimo e combattivo, e – come reiteratamente affermato – anche in crescita dal punto di vista dello sbigliettamento, ma la questione di fondo non cambia. Io sarei sempre per aprirle, le frontiere, per scambiare i saperi, per favorire gli incontri; ma vedo che di questi tempi non usa.

Infine, per citare un’altra bella considerazione, con un ironico gioco di domande e risposte, il bravo Giulio Sonno su Paperstreet fa una corretta disamina della situazione, ma paventa il rischio di un eccesso di giudizio morale (spero non moralista). Il tema è affascinante, perché questo articolo, come quello di Simone, tocca i gangli e l’essenza stessa del fare critica oggi in Italia. Dunque, non me ne vogliano i miei venti lettori, ma sulla questione tornerò con un post dedicato, perché la domanda, tutt’altro che sciocca, è questa: può la critica porsi quesiti morali? Cosa deve fare la critica teatrale? Per chi e su cosa possiamo scrivere?

Allora intanto, per recuperare un po’ di tempo perduto in queste chiacchiere, vorrei tornare su due spettacoli visti proprio a Short Theatre, che mi hanno sorpreso e affascinato.

The rite of spring, di She She Pop
The rite of spring, di She She Pop

Il primo è la micidiale versione della Sacra delle Primavera di Stravinsky-Nijinskij messo in scena dal gruppo berlinese She She Pop, dal titolo, piuttosto didascalico THE RITE OF SPRING as performed by She She Pop and their mothersL’ho trovato davvero intelligente. Con un uso sapiente e tecnologicamente raffinatissimo del video, i danzatori-attori della compagnia (tre donne, un uomo) hanno chiamato in causa le proprie madri, traducendo i quadri della “Russia pagana” originale in un attuale e condivisibile interno borghese. Le figure materne erano proiettate con definizione incredibile su quattro teli verticali che invadevano la scena: le donne, giganti e onnipresenti, sovrastavano così i performer costretti come novelli bambini a guardare di sotto in su. L’apertura del lavoro ha un clima da “psicodramma” dal sapore molto tedesco e un po’ datato, ma subito si apre a una seria e sistematica rilettura del classico, innervato di tensioni e sensi tutti nuovi. Il senso di sacrificio dell’Eletta insito nell’opera, normalmente declinato nello scontro pagano tra maschile-femminile, con She She Pop si muta in una feroce disamina di quel dialogo eterno e irrisolto da cordone ombelicale mai realmente reciso. Evocando la partitura di Stravinsky (semplicemente cantandola dal vivo o, nel video, battendo il ritmo sul bracciolo di una poltrona), riprendendo la complessa partitura coreografica, agendo magistralmente con e dentro le videoproiezioni, She She Pop si inserisce appieno e sapientemente nelle tante e bellissime versioni della Sacra: dalla indimenticabile di Pina Bausch a Mats Ek, da Martha Graham a Bejart a Marie Chouinard a Claudia Castellucci, questo “iper-testo” creato nel 1913 continua a raccontarci per quel che siamo. Il collettivo femminile e femminista tedesco (nella autopresentazione scrivono: «L’esistenza di membri maschili e di collaboratori non ha che poca influenza su questa cosa»), punta direttamente sulle contraddizione dell’essere donna, analizza (addirittura denuncia) certe visioni ancora estremamente maschili e maschiliste, stira senza problemi i luoghi comuni sul “necessario” sacrificio della donna “votata” alla famiglia, spiattella complicità e connivenze che hanno contribuito a rendere “naturale” la prospettiva che l’Eletta – ossia la sacrificabile – sia sempre e solo la donna.

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In girum.. di Roberto Castello

Altro lavoro avvincente è In girum imus nocte et consumimur ingni (Andiamo in giro la notte e siamo consumati dal fuoco), nuova coreografia di Roberto Castello e del suo gruppo Aldes. L’affascinante e misterioso palindromo latino è lo spunto per un affresco umano degno di Bosch o di Bruegel, puro medioevo contemporaneo: un’umanità sfranta, affranta, spersa che continua a marciare inesorabilmente sul posto, ad avanzare stando ferma, a sbattersi e combattersi per una gara senza arrivo. I cinque formidabili interpreti nerovestiti (Elisa Capecchi, Mariano Nieddu, Giselda Ranieri, Ilenia Romano, Irene Russolillo) sono anime in pena, sono pellegrini sfiniti, sono migranti d’oggi. Camminano assillati da una musica che è loop elettronico ossessivo, in un alternarsi di buio e luce scandito da una diafana voce beckettiana che tutto spinge all’assurdo. Ma è la condizione umana, quella che racconta Castello non senza ironia: ed è la realtà di una lotta quotidiana, semplicemente per arrivare ultimi. L’incipit insistito dello spettacolo è folgorante: quella postura dei corpi, quel camminare a vuoto, quegli sguardi appesantiti sono l’emblema tragico dell’eterno ritorno del presente. Non ci sono vie di fuga, in questa scatola chiusa che è il mondo: un bianco e nero tracciato di frammenti (proiettati) come pioggia o graffi, tagli di luce obliqui e claustrofobici, dettagli parziali che soffocano quanto la visione generale. Il lavoro cede un po’ in alcuni quadri eccessivamente narrativi e mimetici, laddove l’impeto come sempre caustico di Roberto Castello si lascia andare a una empatica visione di questa umanità sbandata: quando vuole salvar/ci, il coreografo toscano pecca di generosità. Anziché tenere vivo quel “fuoco” che brucia lento e inesorabile le nostre vite, rosolandole calde come in apertura spettacolo, Castello ha preferito un po’ di leggerezza. Chissà, altrimenti, vien da pensare, l’esito ci avrebbe davvero stordito, confuso e commosso davvero troppo.

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