Teatro

Shakespeare: il gioco delle parti

13 Ottobre 2021

Avevo 19 anni. Vidi Love’s Labour’s Lost, Pene d’amor perdute, di Shakespeare, per la prima volta al Teatro Romano di Ostia Antica. Era l’estate del 1960. Lo spettacolo veniva dal Teatro Romano di Verona. Tra gli attori, Giancarlo Sbragia, Ave Ninchi, Gianni Santuccio, Paolo Carlini, Valeria Moriconi (Rosalina), Eliana Ghione. La regia era di Franco Enriquez. Lo spettacolo mi restò impresso, e dura nella mia memoria. Aveva un carattere fiabesco affascinante, interrotto bruscamente alla fine dall’arrivo di Mercade. E’ una strana commedia (ma c’è una commedia di Shakespeare che non sia almeno fuori le righe?). Il Re di Navarra si ritira insieme a due gentiluomini per dedicarsi allo studio e alla scienza lungo la durata di tre anni.

A rompere l’isolamento, ma non l’incanto, giunge la figlia del Re di Francia con due damigelle. E succede ciò che succede sempre in una commedia quando un uomo incontra una donna. I tre uomini s’innamorano delle tre donne. E si danno, con esse, alla più pazza allegria, non senza scambio di mascheramenti e di scherzi.

Il finale rovescia d’un colpo l’allegria, il divertimento di quanto precede precipita nel peggiore dei dolori, il dolore di una perdita. “Your father …” annuncia Mercade alla Principessa. “Dead, for my life!” , esclama la Principessa. (Vostro padre … Morto, per la mia vita). Questa scena è semplicemente sconvolgente nell’edizione che Elijah Moshinsky realizzò per la BBC nel 1996. Maureen Lipman, nella parte della Principessa, cambia d’un tratto aspetto, il volto le si sbianca. “Dead, for my life”, lo sussurra, quasi senza voce. E’ diventata un altro personaggio, il dolore l’ha cambiata. “L’efficacia di una battuta sta nell’orecchio / di chi l’ascolta, mai nella lingua / di chi la costruisce”, dice poco dopo Rosalina a Biron, al quale aveva chiesto di far ridere i moribondi, e lui protesta che un moribondo non può ridere. La morte entra nella commedia come un regista che sovverte i ruoli. Shakespeare si rende conto di scrivere un finale di commedia inusuale: senza le felici nozze a concludere amori contrastati. Gli innamorati dovranno attendere un anno: tempo troppo lungo per una commedia, protesta uno di loro. Poco prima il re di Navarra aveva chiesto alla Principessa un minuto di attenzione. Lei gli risponde che un minuto è tempo troppo corto per un contratto che giuri eterna fede. Il tempo, la morte, giocano con la vita, come gli attori con i personaggi. E il linguaggio li gioca tutti, vita, morte, tempo, attori.

E’ la commedia più ricca di giochi di parole, che Shakespeare abbia scritto, Nadia Fusini parla di una “festa della lingua”, destinata forse a un pubblico di studenti. Moshinsky l’ambienta nel primo Settecento, al tempo di Garrick. E fa parlare gli attori con la fluidità di un musical. Allievi ed ex allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, sotto la guida di Danilo Capezzani, anch’egli uscito dall’Accademia, lo mettono adesso in scena al Globe Theatre di Roma, oggi intesta al suo fondatore Gigi Proietti. Era un’impresa da far tremare le vene dei polsi. La traduzione è piuttosto libera, ma cerca di far percepire la scrittura in versi anche allo spettatore italiano. Con qualche rima, con l’andamento ritmico del discorso. E poi c’è l’inserimento di canzoni moderne (Moshinsky inseriva stilemi settecenteschi). Paolo Madonna impersona il “Dull, a constable”, tradotto Intronato, ed è un carabiniere, e parla napoletano. Bravissimo, spilungone, irresistibile la scena in cui suppone di essere adescato da Zucca, Leonardo Cesaroni (in Shakespeare Costard, a clown). L’ambientazione è moderna. Ciò permette agli attori un’allegra disinvoltura, ammiccamenti a usi e costumi di oggi. Talora c’è il rischio di eccedere in toni farseschi, ma il ritmo comico del dialogo è inflessibile, ed evita le cadute. Eccezionale, quasi una prestazione individuale da mattatore, il Biron di Francesco Russo. Alcuni hanno voluto vedere nel personaggio un’allusione alla figura di Giordano Bruno: Bruno, Berowne, Biron. Michele Enrico Montesano presta figura e voce alla macchietta spagnola di Don Armado.

La Principessa è Sofia Panizzi, e dispiace che a lei sia tolta la battuta “Morto, per la mia vita”, perché l’annuncio della morte del padre è affidata a Boyet, Davide Fasaro, che qui usurpa la parte di Mercade. Sara Mancuso, Jaquinette, è perfetta controparte di Zucca. Ma tutti vanno citati, per la capacità di reggere una recitazione di gruppo, di condurre avanti l’azione in perfetta sintonia l’uno con l’altro: il Dumain di Riccardo Rampazzo, la Rosalina di Sara Younes, la Caterina di Adel Masciello, il Re di Gabriel Gasco. Chi tiene le fila dell’azione è Danilo Capezzani. Scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta. Drammaturgia musicale di Paolo Coletta. Ma la rappresentazione di questo Shakespeare dimostra anche un’altra cosa: che la lettura di un classico non imprigiona la fantasia di un giovane regista e non lo spinge perciò a rispettare la lettera del testo. La drammaturgia originale è interamente ripensata e riscritta. Sacrificando, forse, la complessità di un testo che scherza anche con il tragico, ma restituendo d’altra parte tutta la vivacità di un’azione comica che mozza il fiato. Ne sentiremo parlare di nuovo, di questi ragazzi. E spero presto.

 

 

 

 

 

 

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