Teatro

Servillo, Jouvet e il repertorio

23 Novembre 2016

A vedere Elvira (Elvire Jouvet 40), testo mitico di Brigitte Jacques, messo in scena da Toni Servillo al Piccolo di Milano, si è presi quasi da una vertigine.

Sono tanti, infatti, i motivi di questo senso di avvolgimento, di avviluppamento in un teatro che è storia del teatro. Intanto lo spettacolo in sé è un castello di scatole cinesi, ma al contrario: dalla più piccola si va alla più grande. Inizia là, sullo storico palcoscenico di via Rovello, ed è subito un salto mortale nella storia. Perché questo testo – riveduto e corretto – fu uno dei cavalli di battaglia di Strehler, che firmò una “sua” edizione con Giulia Lazzarini, titolandolo Elvira o la passione teatrale, per l’inaugurazione del Teatro Studio.

Ma il testo della Jacques contiene un ulteriore rimando: mette in scena Louis Jouvet, il grande regista-attore francese, che prova una scena con una giovane attrice, Claudia, che in realtà si chiamava Paula Dehelly: i due – Jouvet e Claudia – affrontano il monologo di Elvira del Don Giovanni di Molière.

Allora si capirà l’inizio della vertigine: Servillo che rimanda e supera Strehler, in un lavoro che evoca Jouvet che recita Molière. Non male, no?

Accanto al primattore sono i giovanissimi Petra Valentini, nel ruolo non facile di Claudia, poi Francesco Marino e Davide Cirri a far le poche battute di Don Giovanni e Sganarello.

È, insomma, una infinita storia del teatro, un approfondire, passo dopo passo, il ruolo, il senso, le ragioni profonde del recitare.

Elvira; foto di Fabio Esposito
Elvira; foto di Fabio Esposito

Per i primi minuti lo spettacolo ha un ché di stucchevole: il Jouvet di Servillo suona (volutamente) pedante, la giovane attrice è tutta slanci e timori formali. Poi, lentamente, quella pratica, quel tornare sempre di nuovo sulla stessa battuta si apre, si libra direi, come un rito magico, come una festa delle emozioni. Molière esplode in tutta la sua bellezza, in tutta la sua raffinata poesia: la scena di Donna Elvira che cerca di redimere o salvare il dissoluto Don Giovanni è tra le più belle della drammaturgia di ogni tempo. E come tale viene trattata da Jouvet-Servillo, con delicata educazione, con rispetto, con cura. Allora lo spettacolo – di stazione in stazione, ovvero di prova in prova – diventa, con lievità, un appassionato manifesto non solo poetico, ma anche umano, del fare teatro: si tratta, insomma, di prendere molto sul serio questa arte.

Elvira dovrebbe essere un libro di testo (scenico) per quanti fanno o vogliono fare teatro, dovrebbe essere un manifesto da imporre ai tanti performer improvvisati, un breviario intimo non solo per attori ma anche per spettatori: perché dietro ogni virgola, dietro ogni respiro e ogni parola si celano la passione, l’attenzione, la profondità dell’arte teatrale.

Elvira, foto di Fabio Esposito
Elvira, foto di Fabio Esposito

Così lo spettacolo letteralmente commuove, porta a compimento non tanto il percorso di formazione della giovane attrice, quanto la parabola dell’esistenza stessa del teatro. Perché poi, alla fine, entra in gioco un ulteriore elemento: le prove di quella scena si tengono nella Parigi occupata dai nazisti. Echeggia la voce di Hitler, si avverte l’ansia di tornare a casa, dopo l’ultima prova, per il coprifuoco. Teatro sotto minaccia, teatro in stato d’assedio: allora come oggi. Mi sembra che il Servillo regista abbia scelto di dare relativa importanza all’elemento storico: eppure quei saluti precipitosi, quel fuggi fuggi dopo l’ultima prova, rendono palese uno stato d’animo, ossia la preoccupazione. È bello creare arte, fare teatro: ma la poesia è costretta a retrocedere di fronte alla barbarie o all’ottusità. I Giganti sono là fuori, sono arrivati, hanno vinto. La forza fragile di donna Elvira, che è ormai il disincanto degli interpreti, sembra un’amara costatazione di resa: ma ci ostiniamo a credere, sappiamo che non lo sarà e che domani, un domani qualunque, quegli attori torneranno a provare. Ancora e sempre a vivere il teatro.

Foto di Fabio Esposito
Foto di Fabio Esposito

Lo spettacolo, poi, si presta anche per un’altra considerazione sulla fraintesa idea di “repertorio”. Toni Servillo, si sa, ama giocare con i classici: lo fa sapientemente e scientemente, rinnovandoli di energie e prospettive tutte nuove. Da De Filippo a Goldoni, ha firmato e interpretato regie “agili”, immediatamente comunicative ancorché nette, profonde, aguzze. Ma qui la questione è altra. Con il nuovo decreto, i teatri nazionali sono calorosamente invitati a fare “tenitura”, ossia a tenere in cartellone lo stesso spettacolo per un periodo piuttosto lungo. Dunque, tutti o quasi ricorrono al “repertorio”: il che vuol dire, però, che abbiamo 20 Gabbiani di Cechov, 40 Otello, 70 Romeo e Giulietta. Tutti diversi, non importa se ben fatti o meno, spettacoli che dopo una “tenitura” vengono buttati via. Però questo non è “repertorio”: è semplicemente fare allestimenti (nuovi) di testi classici. Servillo invece – riprendendo e reinventando, trasformandolo radicalmente uno spettacolo “di Strehler” – potrebbe fare effettivamente repertorio.

(Nota bene: sto forzando le maglie dell’interpretazione, trattandosi lo spettacolo, realizzato dal Piccolo con Teatri Uniti, di una produzione completamente nuova e, tra l’altro, nelle note di regia Servillo dichiara chiaramente di non aver visto il precedente di Strehler. Dunque di fatto è una assoluta novità).

La questione, insomma, si potrebbe e si dovrebbe porre proprio in questi termini. Di Strehler riprendiamo ancora, fortunatamente, l’Arlecchino. Ma perché non rifare, con nuovi attori ovvio, che so, La tempesta? Perché non riprendere, per fare ancora qualche esempio tra i tanti possibili, gli spettacoli di Luca Ronconi, di Carlo Cecchi o di Leo de Berardinis o di Mario Martone? Sono tanti i nomi che si potrebbero fare in questa prospettiva (voi chi suggerireste?): nell’Opera succede, nella danza italiana anche e anzi ha avviato un bellissimo progetto di ricostruzione e riedizione delle creazioni degli anni Ottanta. Perché il teatro no? Quegli spettacoli sono là, sono un patrimonio di bellezza e complessità. Allora effettivamente così si farebbe “repertorio”, tenendo in cartellone produzioni del passato ancora valide, che ancora parlano con freschezza e franchezza al nostro tempo.

E anche la cosiddetta “tenitura” avrebbe senso diverso: tenere uno spettacolo in scena per una settimana, poi farne un altro, poi tornare al primo, e così via alternando vecchie e nuove produzioni. Nulla di nuovo: alla Schaübhüne di Berlino lo fanno da sempre.

 

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