Teatro
Serve eccome, il teatro…
Dal gennaio 2021 collaboro come “dramaturg” con il Teatro Nazionale di Genova: si tratta di un importante teatro italiano, il secondo teatro pubblico, nato nel 1951, solo quattro anni dopo il Piccolo Teatro di Milano. Ebbene, al di là dell’interrogarmi sul ruolo e la possibilità di questa figura professionale – cosa sia e cosa faccia, un “dramaturg”, in Italia, è ancora tutto da capire – provando a svolgere al meglio questo incarico cui mi ha chiamato il direttore artistico Davide Livermore, mi sono chiesto e continuo a chiedermi (a chiederci, è una domanda che coinvolge tutti coloro che vi lavorano): a che serve un teatro? Cosa sono questi edifici – il Nazionale di Genova possiede ben 4 sale teatrali – collocati al centro o alla periferia della città?
Basta fare una buona proposta artistica? Bastano degli spettacoli ben fatti per svolgere il proprio ruolo di istituzione culturale pubblica? certo la qualità della proposta è fondamentale, è un “pre-requisito”, ma ci si può accontentare?
Evidentemente no. Si tratta di ripensarne continuamente e sempre di nuovo il ruolo e la missione.
Soprattutto in tempo di pandemia, il teatro ha il compito non facile di ricostruire l’agorà, di ritrovare e reinventare la comunità.
Il Teatro è quel luogo dove, quando tutto funziona, il cittadino entra da solo ed esce comunità. Nel tempo del laico rito teatrale si forma la comunità. Niente di nuovo direte voi, e a ragione. Ma quale comunità?
Oggi più che mai penso che sia nostro dovere tornare ad occuparci di sociologia. Non più sociologia del Teatro (con la T maiuscola), né Sociologia dello Spettacolo: sono studi già fatti e da tempo archiviati. Ma vale forse la pena fare qualche considerazione.
Mentre siamo ancora profondamente turbati dalle immagini di guerra che arrivano dall’Ukraina, con un pensiero per il teatro di Mariupol bombardato, non possiamo non chiederci cosa facciamo, per chi lo facciamo: e che lingua parliamo quando facciamo teatro.
Scrivo queste righe poco tempo dopo la notizia della definitiva chiusura del Workcenter di Jerzy Grotowski and Thomas Richards, a Pontedera.
Con una lettera datata 31 gennaio 2022, infatti, Richards prende atto della difficile situazione socioeconomica, dovuta alla pandemia, agli ulteriori tagli ai finanziamenti da parte del Teatro Nazionale della Toscana, alla fuoriuscita – qualche giorno prima – di Mario Biagini dal progetto, che ha deciso di intraprendere una nuova, affascinante, ricerca. Così, con molta serenità, quello che è stato l’artista capace di proseguire il percorso fondato da Grotowski stesso nello spazio di lavoro “Le Vallicelle” ha dichiarato la fine di una pratica teatrale durata 35 anni.
Mi sembra molto significativo, direi simbolico, quanto è accaduto.
Chiude il Laboratorio, lo storico laboratorio, nello stesso momento in cui anche l’Odin Teatret sta vivendo una complessa fase di transizione.
Perché tutto ciò assume, a mio modesto giudizio, valore simbolico? Al di là del dispiacere per la fine di esperienze tanto significative, vale la pena riflettere sulle prospettive che tali episodi portano con sé, anche coinvolgendo lo sguardo e la prospettiva critica.
In un suo recente saggio dedicato alla “politica della performance” (“Per una politica della performance”, Editoria&Spettacolo, 2020), lo storico del Teatro Marco De Marinis, analizza sapientemente il rapporto tra città e teatro. Nelle sue considerazioni, che riassumo grossolanamente, evidenzia come le grandi rivoluzioni teatrali siano avvenute in luoghi marginali, in periferie (Opole, Holstembro, Pontedera ma anche Saint -Denis, Vincennes…): piccoli centri spesso lontani dalla grande città.
Questo movimento, a partire dalla scelta di Copeau di andare in Borgogna, marca il distacco dalla istituzione teatrale dunque dalla tradizione e dalla convenzione. Copeau scriveva, nel 1925, un manifesto dal titolo: Pour un theatre provincial.
Sembra quasi, a leggere assieme tutti questi episodi, che ci sia una “incompatibilità”; che ci siano state, e sono continuamente emergenti, delle spinte negatrici della città, in quella che il filosofo Peter Sloterdijk chiama “apolitologia”: un constante tentativo di estraniarsi, allontanarsi, di negare la città – e dunque la comunità ampia della polis, l’agorà con la sua parresia.
«Insomma – scrive De Marinis – all’immagine archetipica di un teatro istallato nel centro stesso della città, fino a costituirne il cuore pulsante e anche il simbolo (penso ovviamente al Teatro di Dioniso…) andrebbe aggiunta un’altra immagine altrettanto archetipica (al di là degli usi e abusi cui è stata sottoposta…) e cioè quella del carro di Tespi che porta il teatro nei villaggi più sperduti dell’Attica, ben prima dell’età Periclea».
E a questa seconda “via”, nomade e appartata, si possono collegare i “laboratori”.
Dice ancora De Marinis: «il laboratorio non è la città: può stare nella città ma anche in questo caso non le appartiene, se non fisicamente. Nel microcosmo del laboratorio, l’attore novecentesco attua una presa di distanza, un allontanamento momentaneo dalla polis e dalla sua quotidianità, per elaborare una diversità, una differenza (…) magari per tornare (solo) in seguito nella polis, un po’ come faceva lo sciamano delle società tradizionali, che faceva ritorno alla sua comunità dopo il lungo addestramento nell’isolamento del gruppo. La storia del teatro contemporaneo è disseminata di Laboratori e di comunità teatrali, specie di moderni e laici monasteri che prendono senso e forza proprio dal loro distanziarsi a volte anche fisicamente dalla città e dalla società dello spettacolo che la abita».
Ecco dunque perché la chiusura del Workcenter Grotowski e la trasformazione dell’Odin sono simboliche: perché è finita quella fase storica – e De Marinis lo sa benissimo – di un teatro appartato dalla città, dalla società, dalla comunità.
La faccio breve. Già nell’ottobre 1986, il grande punto di riferimento degli studi teatrali in Italia, Claudio Meldolesi, firmava un lungo saggio sul tema “Ai confini del teatro e della sociologia” (in «Teatro e Storia», ottobre 1986). Analizzava acutamente gli studi di Gurvitch e Simmel, di Walter Benjamin e di Kenneth Burke, di Goffman e di Schechner, di Duvignaud e Brecht e naturalmente di Grotowski: non è questa la sede per citarli più approfonditamente. Ma Meldolesi segnalava un dato importante in questa prospettiva: «la determinazione delle uscite dai periodi post bellici e post rivoluzionari (post 1915-22; post 40-48; post 68-73): il rapporto del teatro e della sociologia è tornato in discussione tutte le volte che teatranti e sociologi hanno percepito il riavvicinarsi di una normalità, ovvero hanno ripreso a interrogarsi – non rassegnati – sulla recitazione della normalità sociale».
Ecco, in questi mesi intravediamo, o forse sogniamo, il ritorno alla normalità dopo la lunga crisi pandemica. Nel frattempo è scoppiata una guerra, le cose sono nuovamente mutate, ma stiamo anche vivendo, o sperando, la chiusura del grave, gravissimo periodo di sofferenza diffusa capace di scardinare alcuni fondamenti di libera esistenza, di socialità, di condivisione. Ora si tratta dunque di tornare alla sociologia. Per capire come ricominciare a “recitare” la normalità – in Italia come, si spera presto, a Mariupol.
Dice ancora Meldolesi: «La sociologia del Teatro può acquisire un senso, oltre quello scontato connesso alla lettura sociologica dei fenomeni teatrali. Può stare a significare che il teatro è atto a svolgere una sua azione sociologica… La società è il luogo effettuale degli spettacoli, come dimostra il fatto che i rapporti di fruizione variano da città a città, da teatro a teatro, dal centro alla periferia. L’esperienza generale del teatro sembra svolgersi, dunque, sulla base di due entità non coincidenti: la civiltà e la società; l’una nutre, l’altra contiene i risultati spettacolari… il teatro nutrito dalla civiltà non si limita a riflettere la società; piuttosto, produce società, aggiunge».
Già l’eminente teorico Marvin Carlson, nel suo accurato studio semiotico dei “Luoghi per lo spettacolo” (La Casa Usher, 2021) ci aveva ammonito: «Sono stati eretti teatri nei centri commerciali, nei quartieri residenziali più eleganti, nei sobborghi operai e nelle periferie più malfamate. Sono stati pensati come punti di riferimento nel tessuto urbano o come rifugi clandestini la cui ubicazione è nota solo a pochi iniziati. Sono stati progettati come templi dedicati alle arti, cercando di distogliere i loro frequentatori dalle abitudini e dalle immagini della vita quotidiana, oppure sono stati creati con la stessa sostanza di quella vita, fatta di strade, mercati e fabbriche, al fine di rimarcare i valori culturali dei luoghi».
Insomma è chiaro: la questione è un invito a riflettere sull’utilizzo di un luogo dello spettacolo – soprattutto di un luogo “pubblico”, ovvero finanziato dal denaro pubblico, ossia dallo Stato, come sono la quasi totalità dei teatri italiani – un luogo storico, trovato, trasformato o riadattato, e riflettere non solo sulla ideologia che vi è come presupposto, ovvero sulla cornice che inquadra l’evento spettacolare, ma sul suo percorso “eterotopico” – per citare una categoria cara a Michel Focault. Ossia, un percorso che sappia contestare lo spazio in cui viviamo, il contesto socio-culturale cui apparteniamo.
La cosa paradossale è che i teatri resistono nella mutevolezza del contesto, ossia di città in continuo cambiamento. E la «persistenza del teatro – sottolinea Carlson – non sta a indicare la stabilità del suo ruolo nel contesto urbano; indica piuttosto che è stato capace di adeguarsi a una molteplicità di funzioni con il cambiare della città circostante».
La articolata analisi di Carlson è l’ottima base per fare il passo ulteriore: superare la semiotica dell’esistente e produrre società.
Ecco il compito rinnovato dei Teatri. La questione non è più semplicemente di portare il teatro fuori dalla città, o in strada, insomma fuori dai teatri – pratica che ha avuto il suo momento di splendore con il Living Theatre e che ancora oggi ha assolutamente senso – né semplicemente di praticare quelle forme di teatro partecipato, pure ricche di senso, tipiche del teatro cosiddetto “sociale”, finalizzato anche ma non solo alla creazione di microcomunità. È curioso il fatto che una personalità di spicco come Richard Sennet, che pure conosce e ama il teatro, nelle sue pubblicazioni recenti – penso a Costruire e abitare (Building and Dwelling, del 2018) oppure il precedente Togheter, The rituals, pleasures and politics of cooperation, del 2012) evochi solo marginalmente il teatro: o per la sua esperienza giovanile di musicista o per la maschera neutra di Lecoq come modello di comunicazione.
Si tratta, allora, di re-inventare strategicamente la funzione del teatro pubblico a partire dai suoi luoghi, dagli edifici stessi, dai mattoni e dalle fondamenta: quindi pensare una “sociologia dei teatri” come indagine teorica che possa però portare ad una immediatezza di azione critica.
Il Teatro, però, come è noto, vive una fase di complessa scontentezza nei riguardi del sistema legislativo: il governo ha improntato la propria attività di sostegno prevalentemente su basi quantitative, numeriche: l’algoritmo dominante è quello che premia l’azienda teatro, la fatturazione, i dati economici e di botteghino, trasformando sempre più gli spettatori in clienti.
Ecco dunque un punto di questo ragionamento fin troppo aperto: lo abbiamo detto e ripetuto tutti, la pandemia ci ha mostrato, in tutta evidenza, la necessità di ricostruire la comunità; il teatro ha svelato l’inutilità di certi prodotti scenici, di certi spettacoli, ormai passati, obsoleti per la nuova realtà; nei teatri si sta sviluppando una risposta a queste esigenze in termini di nuove possibilità e funzioni.
In questo stato di emergenza culturale, l’azione produttiva e di programmazione non può più limitarsi al sold out, alla “commedia ben fatta”, alla digressione estetica, alla analisi drammaturgica, ma deve rischiare, ampliare sempre più il proprio orizzonte d’azione, guardando oltre l’antropologia, la semiotica e le teorie della ricezione, aprendosi sempre più a questioni di urbanistica, architettura, politiche ambientali, economia, psicologia, genere, accessibilità. E soprattutto di politiche culturali.
Come?
Ad esempio, seguendo da vicino e incoraggiando quelle realtà che agiscono sul campo, che determinano una evoluzione e un cambiamento del contesto cittadino.
I nostri teatri sono ancora là, presenti e vivi, spazi attraversati e vissuti da persone e ruoli diversi, che li abitano più o meno a lungo, reinventando e ricreando poi l’esperienza vissuta nel proprio contesto sociale, trasformandolo. Il teatro come luogo che favorisce la porosità della città, addirittura favorendo questo movimento, agendo nella mutazione del contesto.
E penso – per fare due soli esempi tra i tanti che si potrebbero fare (e lo scelgo rigorosamente extraitaliano) – alla attività di Milo Rau con il teatro di Gent, con la sistematica apertura alle aree di conflitto nel mondo (dal Congo al Mosul, dall’Amazzonia ai campi pugliesi e lucani gestiti dal caporalato…).
Oppure penso a quanto mi ha detto Theodoros Terzopoulos in una intervista in merito alla creazione della sua “casa teatrale”, il teatro Attis, in una zona popolare di Atene, nel quartiere Metaxourgeio, ancora oggi luogo di spaccio e di tossicodipendenza, di prostituzione e di piccola criminalità. Nel quartiere, accanto ad alcuni locali, ci sono interi edifici abbandonati, resi sempre più inagibili e irrecuperabili dalla ben nota crisi economica che ha colpito la Grecia negli ultimi anni. Quando il gruppo Attis si istalla in via Leonidou, ricorda Theodoros, la strada era prevalentemente sede di “case d’appuntamento”. Con il tempo, però, il teatro è riuscito a consolidarsi, a diventare un punto di riferimento imprescindibile nella vita culturale greca. E ora la zona è frequentata da molti, abitata, vissuta in modo diverso, anche nella condivisione con le marginalità e il disagio sociale.
Siamo ancora nei meandri della pandemia. Non sappiamo come e quando tutto ciò finirà. Speriamo solo finirà presto.
Abbiamo vissuto, e ancora viviamo, la peste di Tebe, sembra di essere tutti in attesa di qualcuno che risolva l’enigma della Sfinge: ci siamo trovati – improvvisamente – nel mezzo di una tragedia. Per troppo tempo ci siamo interrogati sulle possibilità del teatro di “dire” ancora il tragico. Troppo spesso, nell’euforia postmodernista e post-drammatica, abbiamo negata quella possibilità. A lungo ci siamo crogiolati nelle derive psicoanalitiche del dramma borghese, ci siamo attardati su sfumature – pure importanti, certo – su bisbiglii, su questioni di soldi o di sesso, di corna o di carriera.
Tanto, troppo, teatro del nostro tempo si è mutato in “vetrina”, in bella confezione, un impacchettamento scintillante di contenuti vacui. Adesso si tratta di ritrovare la consapevolezza, di interrogarsi, sempre di nuovo, sul destino dell’umanità e sulle possibilità critiche del pensiero di fronte a queste catastrofi.
Oggi più che mai dobbiamo assumerci il compito non facile di ripensare la comunità: cosa è “Comunità”? Chi siamo “noi”? Chi sono “loro”?
Ecco: i teatri sono luoghi dove provare a ripensare la collettività. O quanto dove si può, e forse si deve, provare.
(Questa riflessione ha preso le mosse da un convegno organizzato a Palermo da Genìa, Laboratorio Artisti Palermo, nell’ambito del festival “Prima Onda”. Nella foto di copertina: la magnifica sala del Teatro Massimo di Palermo, tra le più belle al mondo)
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