Teatro

Señor Serrano al Festival Short Theatre: Bin Laden sbarca a Roma!

2 Settembre 2015

Dice il regista, organizzatore e direttore artistico Fabrizio Arcuri che il festival Short Theatre ha compiuto dieci anni soprattutto grazie alla caparbietà di chi l’ha creato. C’è da credergli. A Roma sembra non radicarsi nulla: e completare dieci edizioni di una manifestazione potente e alternativa come è Short Theatre diventa un indubbio titolo di merito. Complimenti dunque ad Arcuri e al suo staff: l’edizione che si apre domani e che dura fino al 13 settembre si preannuncia davvero vivacissima.

Il Festival propone, tra i tanti spettacoli, concerti, e attività collaterali (di qualcosa darò conto nei prossimi giorni), anche il lavoro di Agrupación Señor Serrano, compagnia catalana che ha vinto il Leone d’Argento all’ultima Biennale Teatro. E lo spettacolo che presentano a Roma, nella fatidica data dell’11 settembre, è proprio quello visto in laguna lo scorso agosto. Si tratta di A house in Asia, ed è un lavoro assolutamente da non perdere. È un giochino argutissimo, un luna park mediatico e irriverente, un intelligente allestimento che svela molto più di quel che mostra.

Vale proprio la pena seguire questa giovane formazione, andate a vedere lo spettacolo: Agrupación Señor Serrano, fondato nel 2006 a Barcellona da Àlex Serrano, con Pau Palacios (che vive in Italia) e Ferran Dordal, ha raggiunto in brevissimo tempo una grande attenzione internazionale, con spettacoli che si concentrano su storie quotidiane, contemporanee, portate in scena attraverso un linguaggio multimediale e multidisciplinare che intreccia teatro e ricerca audiovisiva, nuove tecnologie e tecniche più tradizionali, epica contemporanea e dimensione ludica. Insomma: micro e macro, soldatini e videocamere, in una sorta di “teatro di figura” decisamente originale.

Con A house in Asia l’Agrupación fa un triplo salto concettuale: mette al centro della scena la ricostruzione fedele (una maquette) della ben nota casa di Osama Bin Laden a Abbottabad, in Pakistan. Poi evoca la ricostruzione, fatta in scala uno a uno dalla Cia, della stessa casa in Nord Carolina per permettere ai marines di “provare” l’attacco; infine, chiama in causa il set cinematografico allestito in Giordania e gli interpreti di Zero Dark Thirty, il film di Kathryn Bigelow dedicato alla cattura e all’uccisione di Bin Laden.

A house in Asia, foto di Nacho Gomez
A house in Asia, foto di Nacho Gomez

In ballo, dunque, c’è la realtà e la sua rappresentazione: ovvero il gioco di immagini che imperterrite ci bombardano, sostituendosi alla concretezza dell’esperienza. La capacità di Agrupación Señor Serrano è proprio di indagare – e svelare – la struttura fondamentale della comunicazione di massa nell’epoca della contraffazione sistematica. I piani paralleli di verità e interpretazione, di fatti e valutazioni, di originale e copia si mescolano e si sovrappongono. Cosa è più vero? Esiste un fatto se non è videodocumentato?

Ecco cosa fa il teatro dell’ensemble catalano: interroga ferocemente e con grande ironia i simulacri su cui è costruita la realtà che ci circonda, attraverso un linguaggio performativo che usa in scena l’azione degli attori assieme a quella costruita all’interno dei modelli in scala; riprese video e materiale di repertorio; montaggio live e proiezioni immersive di ampio respiro; interazioni fra smartphone, tablet e videogiochi. Come due bimbi in una meravigliosa cameretta, dove è libera di spaziare la fantasia e l’immaginazione vola, Serrano e Palacios giocano con elicotterini e macchinine: con la regola, però, di coinvolgere tutti coloro che li stanno guardando.

A house in Asia, foto di Nacho Gomez
A house in Asia, foto di Nacho Gomez

La prospettiva, dunque, non è solo e banalmente “spettacolare”, ossia visiva.

Quel che preme al gruppo, mi sembra di poter dire, è anche l’analisi dei meccanismi di potere che si celano dietro l’uso strumentale e la gestione delle immagini. Così, gli stessi attori si prestano alla “presenza” fisica in scena, non solo quali manipolatori ma anche come “interpreti” (fino ad un surreale e divertentissimo playback canoro), e attivano al tempo stesso una meta-narrazione che è interpretazione critica, e solida, del contemporaneo. Così, ad esempio, trasformano  i due grandi contendenti – Bush e Bin Laden – in eroi di celebri e mitologiche sfide: da Achab con la balena bianca (nell’iconografia del film di John Huston e Gregory Peck); allo scontro tra Settimo cavalleggeriApache, trasformando la vicenda in un insolito western teatrale.

Eccola, la metafora di fondo: è l’eterna lotta dei “buoni” contro i “cattivi”, dei cowboy contro gli indiani. E il rimando all’11 settembre è tutt’affatto che casuale.

Così, il progressivo accumulo di immagini e situazioni svela l’accumulo (in)consapevole di nozioni di cui siamo infarciti: ne mostra l’evidenza e la plateale incongruenza. Il simulacro che si è impadronito della consapevolezza fa pari con il video-game che imita e sostituisce la percezione del reale.

Si ride, con A house in Asia, e anche tanto: per le sorprese, per gli spiazzamenti, per l’arguzia della creazione. Poi, però, finito lo spettacolo, vedendo da vicino quei modellini in scala ridotta, vedendo quel che resta della casa di Bin Laden, cala come un velo, una pesante amarezza: perché in fondo, i soldatini buttati in terra siamo noi. E non contiamo niente.

 

 

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