Teatro

Se Medea parla romeno-italiano

8 Dicembre 2016

Il primo, o tra i primi certo, mi sembra sia stato Alessandro Gassmann, con il suo Roman e il suo cucciolo, che sdoganò – come si dice – quel particolare nuovo “dialetto” che è il romeno-italiano. Giustamente Gassman rifletteva sul fatto che ormai un numero non indifferente di cittadini parla italiano con un accento deciso, riconoscibile: le statistiche dicono, nel 2015, un milione e mezzo di persone, quasi il doppio, per fare un esempio, degli umbri. Di fatto, l’umbro è parlato meno del romeno-italiano.

Allora con questo “dialetto” anche il teatro non può non fare i conti.

Così sulle scene si stanno moltiplicando, fateci caso, i personaggi che parlano il romeno-italiano. Attenzione: non attori romeni che parlano italiano (che pure in Italia ce ne sono, e di bravi), ma attori italiani che parlano con quell’accento. La cosa interessante, però, è capire a quale tipo di “personaggi” sia associato il romeno-italiano. Normalmente, infatti, tale lingua è riservata a figure marginali – inservienti, cameriere, maschere minori – oppure a piccoli malavitosi (ancorché dal cuore d’oro, come era il Roman di Gassmann).

Insomma, Amleto non parla romeno.

Mi si dirà: è ovvio, nel bene e male, il teatro è il vecchio specchio della società. D’accordo, la realtà parla chiaro. Peraltro, spesso nella posizione presa dai teatranti, c’è una forte denuncia di discriminazioni e razzismi che sono pane quotidiano di questa Italia xenofoba. Ma, al tempo stesso, qua e là si potrebbe avvertire il rischio di una “ratifica” dello stato delle cose.

Insomma, per farla breve, le domande banali sono due: perché per fare i romeni non si prendono attori romeni, ma “italiani” che li imitano? Perché, che so, una badante può parlare romeno-italiano e una Giulietta no?

Animato da questi dubbi, a Corato, vicino Barletta, sono salito su un pulmino mezzo scassato destinato a sette spettatori, per vedere Medea sulla statale, diretto da Gianpiero Borgia e interpretato da Elena Cotugno (anche drammaturga).

Le note ci avevano avvisato: una storia di prostituzione sulla strada, la Statale 98 appunto che passa vicino la città. Conosco e stimo il lavoro di Borgia da tempo, ne ho dato conto in passato. Però questa volta un po’ diffidavo: tutte le storie tristi si assomigliano, al contrario della vulgata comune. Invece poi, una volta sistemati sul pulmino riadattato, messo in moto il motore, qualcosa è successo.

Lei arriva affannata, all’ultimo: sale insultando l’autista (che è un bravo tecnico prestato all’occasione). Si scusa con noi, guardandoci negli occhi, si sistema, vuole attaccare discorso. Si rivela uno strano, affascinante personaggio, dal sorriso disarmante. E finalmente inizia a parlare, in quel romeno-italiano di cui si diceva: dice parolacce, ride, mette su l’inno nazionale e lo fa ascoltare agli astanti mentre il pulmino si muove nelle strade trafficate. Evoca il viaggio dal piccolo paese natio fino all’Albania, con il sogno dell’Italia. Racconta dell’incontro con l’uomo italiano che le cambierà – e le rovinerà – la vita. Lo fa con candore e con rabbia trattenuta, sempre con amore. Poi semplicemente, con un sussurro, scivola nel racconto della prostituzione, dello sfruttamento – senza mai scadere nel didascalismo da “teatro civile”.

Elena Cotugno
Elena Cotugno

Piano piano noi spettatori perplessi ci lasciamo coinvolgere, e poi raggelare dal suo discorso, mentre fuori dai finestrini scorre la strada. Non c’è strazio, solo lucida consapevolezza, disincantato realismo. L’esito è disturbante.

La donna, i lunghi capelli neri, assume un “abito da lavoro”, accenna un ballo suadente, sorride stavolta seduttiva.

La sua storia prenderà una piega ancora più dolorosa: ed entra il mito di Medea. Sottilmente, intelligentemente, la tragedia affiora nel clima di provincia italiana del sud: è disperazione, è bisogno d’amore, è delusione. Senza enfasi o retorica, solo come una possibile, ineluttabile, fine. Esito aguzzo, aspramente feroce, da cronaca criminale che spesso capita di leggere.

Elena Cotugno
Elena Cotugno

Poi, velocemente, la donna si libera della parrucca nera, è una biondina semplice e graziosa. Si ricopre in fretta, mette su il cappuccio della felpa e scende decisa dal pulmino. La vediamo allontanarsi a passo svelto, a un incrocio già illuminato dalle luci di Natale. Non c’è spazio per gli applausi, non c’è tempo per uscire dalla morsa di quel racconto. Il pulmino riprende il cammino, qualcuno a bordo prova a parlare per rompere il clima fattosi pesante. Poi ci si ferma, i sette spettatori sono liberi di guardarsi intorno. Medea è in città, la sua tragedia è ancora viva.

Frutto di un lungo lavoro di studio e ricerca presso centri di accoglienza e di sostegno, questo Medea sulla statale è un breve viaggio nella disperazione che non solo dà rinnovato senso alla Medea, ma svela – laddove ce ne fosse bisogno – quanto e come si debba e si possa ragionare per superare luoghi comuni e pregiudizi di sorta. Senza arrendersi mai al mercato del sesso, alla barbara pratica dello sfruttamento femminile, non vuole essere denuncia, né tanto meno saccente condanna: è solo l’eterno ritorno del mito e, al tempo stesso, una microstoria che mostra le conseguenze della grande storia, del prezzo che si paga, sulla propria carne, all’altare dell’economia.

Elena Cotugno è convincente nella sua misurata, intensa disperazione. E se pure qualcosa potrebbe essere risolto meglio (l’uso della musica, ad esempio, o certi silenzi che potrebbero avere maggior respiro), lo spettacolo potrebbe essere replicato nelle tante vie della prostituzione italiane: è un grido, urlato in faccia a quanti, passando in fretta su quelle statali, su quelle strade “abitate”, fanno finta di non vedere.

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