Teatro
Se Lavia fa I Giganti
Non passa Pirandello. È ancora là, con i suoi scritti, con le sue nevrosi, con quell’ossessione delle corna (più fatte che subite, in realtà), con la mania cavillosa di analizzare, scandagliare, sviscerare le fragilità e le idiosincrasie dell’animo umano. Un secolo dopo, più o meno, con le stesse tensioni di sempre, a interrogarci sui paradossi e i sogni, i doppi e tripli sguardi, le maschere e i volti. Ritorna sulle scene, arricchito, ripulito, meno cervellotico e più poetico: da Arturo Cirillo con Liolà a Carlo Cecchi con l’Enrico IV, da Roberto Latini, Vico Quarto Mazzini e Scimone/Sframeli con tre diversissime versioni dei Sei Personaggi – ma anche Ronconi era approdato a quel testo – ad altri che ancora e sempre tornano sulle pagine classiche di Don Luigi della contrada Kaos.
Ecco, cosa è un classico? Cosa dell’infinito patrimonio del passato torna a parlarci francamente e felicemente? Se lo chiedeva un critico come George Steiner: che ne facciamo dei classici?
La domanda non è peregrina: complice forse il fatto che sono “scaduti” i diritti d’autore – come maliziosamente suggeriva Andrea Pocosgnich su TeatroeCritica – il teatro del Premio Nobel è diventato bene comune, oggetto e soggetto di attraversamenti, estemporanee riscritture, tradimenti. Ma la questione che si pone è altra: va bene tutto, si sa, perché i classici son lì per essere manipolati, ma dobbiamo necessariamente anche fare i conti con gli “allestimenti”, e non solo con le “rivisitazioni”. Insomma con il “canone” teatrale, non tanto per continuare a destrutturarlo, per farne ironica rilettura, per reinventarlo in prospettiva di scrittura scenica o performativa, quanto piuttosto per darne una lettura (certo critica, se vogliamo) capace di far vivere – quel canone, quel classico – nel nostro tempo.
Ecco allora che Pirandello è la madre di tutte le battaglie italiane, per la sua lingua, per la sua struttura così ancorata a miti e contraddizioni nazionali, per quel suo “disagio del teatro” (la definizione è dello storico Claudio Vicentini) che fece della sua creatività un corpo a corpo feroce e perennemente irrisolto con l’arte scenica. Fino all’ultimo, sul letto di morte, come è noto, Pirandello pensò al teatro, per trovare risposta teatrale all’eterna domanda: “di là”, cosa c’è “di là”?
Proprio da questa suggestione è partito, per sua stessa ammissione, Gabriele Lavia nell’allestire una suntuosa versione de I Giganti della Montagna. Una edizione ovviamente “classica”, addirittura mainstream, che si confronta semmai più con quella storica di Giorgio Strehler che non con quella, altrettanto memorabile, di Leo de Berardinis.
La domanda dunque è nel confronto con la morte e quindi con la fine del teatro. Non è un caso che tutto lo spettacolo sia ambientato in un teatro diroccato, mirabilmente e riccamente ricostruito nelle scene di Alessandro Camera. È un doppio, un doppelganger della platea: è il mondo che tutti abbraccia e che si sbriciola mestamente sotto una luna magica. Il regno del Mago Cotrone, interpretato con candore, quasi con stupore dallo stesso Lavia, è una accolita di clown, di mascherine mestamente allegre, di creaturine delicate avvolte dai bei costumi di Andrea Viotti.
C’è una tenerezza, nella vita effimera di questi personaggi, che Lavia incarna al meglio, dando toni sommessi, comprensivi, estremamente semplici, con una partitura gestuale indicativa, allusiva e capace di far emergere la fantasia.
Ecco allora che quei Giganti scritti sul letto di morte diventano un racconto autobiografico, quasi un tornare, con comprensione e umano perdono, alle vicende piccole della vita. Cotrone è nel suo mondo, è una figura che cerca scampo, nella gioia infantile, nei semplici giochi di prestigio, nella fantasia di chi si lascia andare all’illusione. Il bilancio esistenziale, in una evidente sovrapposizione, diventa allora quello del regista e attore Lavia: fare del teatro, provare a salvare la poesia, in quel posticcio, con quei “mezzucci” del teatro, per scampare alla forma, al rigore e al regime della forma.
Ci si interroga sul “recitare” (Per chi? Perché?) e sul senso della vita, che è “vento, è fuoco, è mare” – come dice in un bellissimo passaggio – non durezza né freddezza. C’è una consapevolezza amara dell’esistenza e dell’arte, a far da cornice a questo allestimento. Serve sapere la nostalgia, il senso di perdita, la sconfitta, per entrare al meglio nella interpretazione di Lavia: così, la bella sequenza finale, sembra spiegarsi proprio alla luce del “passaggio” rumoroso, come mandria di cavalli, dei Giganti, e non del loro dominio. La paura che per Strehler era, poteva essere (riassumo malamente) nei confronti della brutalità, anche fascista, del mondo, qui diventa chiaramente il timore di guardare “di là”, oltre la crepa di quel teatro scenografato, verso il buio di una notte eterna a mala pena rischiarata dal pallore della luna. E il sipario che cala lento, inesorabile, sembra risucchiare, più che celare, il mondo magico di Cotrone.
Lo spettacolo, che pure ha naturale perno in Gabriele Lavia, ha comunque la forza di una coralità – non sempre risolta – fatta di tanti contributi: ben ventitré gli attori e le attrici in scena, evento raro oramai nei palcoscenici italiani. Un po’ manierata mi è apparsa l’interpretazione della pur brava Federica Di Martino nel ruolo non facile di Ilse: la contessa è un universo di sfumature, contraddizioni, slanci, pulsioni e in alcune occasioni abbiamo avvertito invece un eccesso di rigidità, uno stare ingabbiati in griglie che smorzavano anziché rilanciare il gioco.
Nella compagnia della contessa meritano senz’altro una menzione il poetico Battaglia di Gianni De Lellis e la Diamante di Giovanna Guida. Così come, nel variopinto mondo degli Scalognati, spiccano la Sgricia, mediterranea e sentita, di Nellina Laganà e il Quaqueo di Ludovica Apollonj Ghetti che ne fa quasi una Giulietta Masina ne La strada. Ma vale la pena citare davvero tutti. Accanto alla contessa sono Clemente Pernarella, Mauro Mandolini, Lorenzo Terenzi, Federico Lepera, Luca Massaro; tra gli Scalognati: Michele Demaria, Daniela Biagini, Marika Pugliatti, Beatrice Ceccherini. Molto divertente e ottimamente calibrato (le coreografie sono nientemeno che di Adriana Borriello) il gruppo dei fantocci: Luca Pedron, Laura Pinato, Francesco Grossi, Davide Diamanti, Debora Iannotta, Sara Pallini, Roberta Catanese, Eleonora Tiberia.
Supponiamo un grande investimento di denaro pubblico per montare questo spettacolone: si sono messi assieme in tre, la Fondazione Teatro della Toscana, in coproduzione con il Teatro Stabile di Torino e il Teatro Biondo di Palermo, e con il contributo della Regione Sicilia, dell’ATCL, e dei Comuni di Montalto di Castro e di Viterbo. Io l’ho visto al Teatro Eliseo di Roma, affollato di pubblico che ha applaudito con calore e affetto.
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