Teatro
Saverio La Ruina e quei duecento metri di vita, memoria e storia
CATANIA. “Via del popolo”, l’ultimo spettacolo di e con Saverio La Ruina, che sta girando in queste settimane per i teatri italiani è, sostanzialmente e ancora una volta, uno scatto fotografico di un momento importante della storia del nostro paese e in fondo del mondo occidentale. Una foto che, nel dinamismo di una microstoria, coglie con intelligenza e acume il passaggio dalla cultura del mondo contadino a quella della modernità. Questo passaggio si è dispiegato in almeno tre secoli di storia e, nel nostro paese o almeno nelle sue aree più interne, si è completato nella seconda metà del secolo scorso e ancora oggi, se si osserva bene la filigrana profonda di certi fenomeni di costume e di sottocultura, non ha smesso di produrre effetti. Una vicenda enorme che nel novecento ha interessato l’opera e la riflessione di grandissimi intellettuali e artisti (si pensi, solo per fare dei macro-esempi, a Ernesto De Martino, a Pasolini, allo stesso Eduardo) e che Saverio La Ruina, sia nel contesto della produzione della compagnia , sia nei suoi lavori più interessanti e amati dal pubblico (Dissonorata del 2006, La Borto del 2009), ha scelto come campo privilegiato di osservazione e ispirazione. In questo caso la microstoria raccontata o, come è meglio dire, ricostruita artisticamente è quella del padre che dalla povertà delle isolate campagne del massiccio del Pollino decide di non emigrare nel lontanissimo Brasile, ma di “scendere” nella cittadina calabrese di Castrovillari dove, insieme con un fratello, compra un bar, lavora con diligenza e prova a vivere dignitosamente e a “campare” moglie e figli, con sacrifici certo, ma con qualche moderno agio in più. Tutto qui e veramente poco più e, in questo “poco più”, in questo scarto narrativo, il brulicare vitale e affascinante dell’umanità, delle relazioni umane nel contesto di una antica cittadina meridionale e dei duecento metri di una via, una sola, di Castrovillari: artigiani, bottegucce di generi alimentari, un cinema (una di quelle sale che fiorivano in ogni paese senza bisogno d’essere fragili appendici di grandi network produttivi), i primi bar, la presenza della malavita (anch’essa in fase di trasformazione) e, negli anni settanta, le voci locali e i protagonisti del “movimento” di contestazione (l’incredibile presenza di Jiulian Beck del Living Theatre a Castrovillari). Un piccolo mondo antico che, nel giro di un paio di generazioni, la modernità capitalista e poi, senza soluzione di continuità, la globalizzazione postmoderna hanno letteralmente e rapidissimamente travolto e che oggi non esiste più, se non nella memoria attiva di chi lo ha vissuto. L’uomo di oggi nella sua solitudine strutturale, quei duecento metri può percorrerli in due minuti, a quello di ieri (di appena ieri), immerso in una ben più fitta e calda rete di relazioni umane, ne servivano almeno trenta. E in tutto questo ritorna la modalità di narrazione caratteristica di questo artista: il tono semplice, dimesso, affettuoso, quasi monocorde con cui avvia (in un immaginario dialogo con un vecchio amico nel cimitero del Paese) e conduce la narrazione. Una semplicità solo apparente però, perché La Ruina, come sempre, sa arricchire la sua narrazione (è forse questo il pregio più grande del suo lavoro) parola dopo parola, segmento dopo segmento, sorriso dopo sorriso, di mille sfumature di senso, umanità, riflessione politica, memoria e consapevolezza storica, ironia sorridente. D’altro canto coltivare uno sguardo attento e consapevole sul tempo, impegnarsi a salvare ciò che, proprio perché si trova nel tempo, sfugge e scolora (come sembra suggerire l’orologio floscio alle sue spalle palesemente ispirato a Dalì) è il primo passo utile a dare spessore di necessità ad uno spettacolo o ad un’opera d’arte di qualunque genere. Tutto convincente allora? No, non tutto. C’è un aspetto di questo spettacolo che appare fragile e non convince: l’incerta formalizzazione della vicenda narrata che sembra esser rimasta ad una prima fase di attraversamento, attento, intelligente, culturalmente avvertito di ricordi personali o familiari e di riflessione su di essi, ma senza giungere alla chiusura di un vero e proprio plot narrativo e drammaturgico. Lo spettacolo a un certo punto sembra perdere tensione, la riflessione che propone perde mordente e il pubblico se ne accorge. In tal senso non aiutano le frequenti interruzioni ironiche e meta-teatrali del fluire (che La Ruina sa rendere ipnotico) della narrazione. Spettacolo visto Catania, nel Centro ZO, il 25 febbraio 2023 nel contesto della rassegna “Altre scene” della rete siciliana di drammaturgia contemporanea Latitudini.
Via del popolo
di e con Saverio La Ruina. Disegno luci Dario De Luca. Collaborazione alla regia Cecilia Foti. Audio e luci: Mario Giordano. Allestimento: Giovanni Spina. Dipinto: Riccardo De Leo. Amministrazione: Tiziana Covello. Produzione: Scena Verticale. Organizzazione generale: Settimio Pisano. Crediti fotografici: Francisca Cardoso Lima.
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