Teatro
Sardine! A teatro! A teatro!
In questo periodo della vita abito fortunatamente a qualche centinaia di metri da Piazza San Giovanni. È stato facile, allora, raggiungere la manifestazione delle Sardine e dare un’occhiata, fermarsi un po’, stare lì, semplicemente fare presenza. E voglio provare a raccontare qualche impressione.
Era un’umanità come “in attesa”, ma rilassata, serenamente consapevole del proprio esserci. Non c’erano proclami, né bandiere. Il clima aveva un che, ovviamente, del flashmob, della iniziativa promossa anche per essere testimoniata sui social, ripresa come è stata da migliaia di cellulari o da tante telecamere.
Eppure era il “corpo” a segnare la differenza.
E anche quando qualcuno ha parlato – laggiù, in lontananza – arrivava l’eco di una voce, sì entusiasta ma non coinvolgente. Il coinvolgimento era semmai individuale, personale, o per piccoli gruppi.
È la prima manifestazione 2.0 cui ho assistito. Le altre, quelle passate, le marce, i cortei, i concerti, avevano una loro ritualità, una scansione precisa. Qua no, il rito era aperto, sospeso appunto. C’erano piccoli cartelli – più ironici e poetici che non politici – c’erano sparuti cori, ma soprattutto c’erano persone autoconvocatesi a formare una “compattezza liquida”, per tentare un ossimoro, ovvero una nuova presa di posizione.
Ecco, allora: quando ho percepito finalmente questo, ossia che la chiave di volta fosse proprio, semplicemente, l’essere presenti e l’essere in ascolto, ho pensato al teatro.
Mi sembra, infatti, che tra le pratiche teatrali recenti (o meno), molte abbiano – direttamente o indirettamente – aperto la strada e anche avviato delle modalità di condivisione dello spazio, molto simili a quel che abbiamo con-vissuto a Piazza San Giovanni.
Ci sono esperienze italiane e internazionali – tra le più note, e più facili da citare, quelle del tedesco Stephan Kaegi e del suo gruppo Rimini Protokoll, del catalano Roger Bernat, ma anche certi lavori dello svizzero Milo Rau – che hanno insistito molto sul recupero della presenza fisica dello spettatore, che lo hanno insomma reso partecipante attivo e creativo dell’evento scenico. Molto è stato scritto e detto su questa tendenza teatrale, e volentieri rimando a chi mi ha preceduto nella riflessione.
Elemento comune di questa attitudine, mostrata da numerose realtà italiane e diversi artisti, è lavorare favorendo le “teatralità diffuse” e, in particolare, con modalità in cui torna ad essere protagonista quello che sin dall’antica Grecia era chiamato il “coro”. Oggi alla parola “coro” si dà spesso accezione negativa: “stare nel coro, unirsi al coro, il coro del consenso” sono espressioni che evocano una perdita di identità, un allinearsi passivo alle voci della maggioranza, qualsiasi essa sia; oppure ancora un “cantare” le lodi del politico o del potente di turno, al di là di ogni spirito critico.
In realtà, il coro ha avuto nella tragedia classica un ruolo fondamentale (e altamente critico): quei dodici o quindici che calcavano lo spazio della rappresentazione, erano “testimoni” ma anche rappresentanti della cittadinanza, ossia presenza effettiva, reale, concreta nella dinamica della riflessione, tanto teatrale quanto democratica, sulla Polis.
Il coro in scena era il prolungamento, l’estensione simbolica e concreta della platea, ovvero dei cittadini che assistevano allo spettacolo.
Ecco il punto: il fatto stesso di “andare a teatro” significa prendere posizione, scegliere un “posto in sala”, uscire di casa per schierarsi. Significa poter contribuire, con la propria presenza attiva, alla riuscita di qualcosa, e dunque al compimento dialettico, democratico, della Polis, della città.
È interessante il fatto che una simile teatralità, cosi come un simile coinvolgimento “da sardina”, sia oggi frutto ineludibile di una coscienza da network, da social, da Facebook o Instagram, in cui ciascuno – nel bene o nel male – può liberamente esprimere se stesso. La fine della intermediazione nella comunicazione (e nella pratica teatrale) ha certo liberato possibilità: e non si torna indietro.
Si può essere d’accordo o meno – e quelli antichelli come me a volte storcono il naso – ma le dinamiche sono cambiate. Dai social è emersa prepotentemente questa nuova “singolarità collettiva”, ed ecco un altro ossimoro. Non più sudditi, tanto meno gregge spaventato ma individui con status attivo, e dunque forse partecipanti.
Sembra di vivere, allora, una fase nuova e antica, in cui il coro ritrova parità rispetto ai protagonisti, ammonendoli e giudicandoli severamente nelle loro condotte.
Già ripensiamo alle difficoltà di Bertolt Brecht, quando doveva descrivere il “popolo” o, indietro nel tempo, alla rappresentazione scettica che Shakespeare dava dei cittadini romani di fronte ai discorsi di Bruto e Marc’Antonio.
Ma oggi, con le sardine di Piazza San Giovanni, o delle altre città di Italia e del mondo, salutiamo forse un popolo diverso: consapevole, in ascolto, stufo di violenza (non solo verbale) e di chiusure (non solo mentali). Un popolo che cerca altro, dice altro, sente altro. E che chiede ai propri rappresentanti di seguire – bene – il mandato per cui sono stati eletti. Non è un caso che, nella lettera inviata a Repubblica il 20 dicembre, i quattro promotori delle manifestazioni, abbiano dichiarato che non è in programma la nascita di un nuovo partito.
Sul finale di Antigone, il coro dice a Creonte, ancora sconvolto per quel che è accaduto, che deve governare: la città è là, il popolo è e lo aspetta. Ora può e deve governare. La Polis deve essere garantita nelle sue istituzioni.
Nell’ultima versione cui ho assistito della tragedia di Sofocle, quella diretta al Teatro Metastasio di Prato da Massimiliano Civica, Creonte – ben intrepretato da Oscar De Summa – è afono, non riesce più ad arringare le folle, non riesce a parlare alla città. Eppure deve farlo, altrimenti sarà destituito, altrimenti la città, il bene supremo e collettivo, crollerà. Ecco, quel che mi sembrava di avvertire, l’altro giorno a Piazza San Giovanni, è di essere parte di quel coro di Antigone, in attesa che la politica faccia bene – questa volta senza hybris, senza violenza, senza errori – il proprio mestiere.
Non c’erano leader arroganti o arringanti sul palco: c’erano tante persone che, liberamente, avevano scelto di portare il proprio corpo in piazza. La fine della intermediazione conclamata ai tempi dei social richiede dunque rinnovate e più autorevoli rappresentanze. Il coro, quello vero, è pieno di voci. Il teatro le sa ascoltare. Questo popolo è in platea, ogni sera, in tutta Italia. Ora sta alla politica saper parlare.
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