Teatro
Santarcangelo Festival: un amore lungo cinquanta anni
Mi sentivo quasi un vecchio amante tradito, facevo fatica a tornare in quei luoghi in cui, per tante ragioni, avevo lasciato il cuore. Ma per i festeggiamenti dei cinquanta anni non potevo mancare. Anche per poco, solo per una sera, però non potevo non andare a Santarcangelo.
In molti conoscono l’incredibile storia di questo paese sopra Rimini e dell’altrettanto incredibile Festival che ne ha modellato il carattere e l’identità. Storia lunga, complicata, appassionata, fatta di slanci e di scoperte, di accalorate discussioni e di gravi crisi. Il Festival, però, ha saputo superare momenti di sbandamento e tendenze di moda, e ora si trova orgoglioso e in piena forma per il suo speciale compleanno.
Merito, senza dubbio – oltre che del generoso staff, della nuova presidenza e della politica locale – anche e soprattutto della direzione artistica di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, ovvero la compagnia Motus.
Ultra decennale è anche il viaggio dei Motus nel teatro contemporaneo: compagnia nomade, pulsante sempre tensioni e attenzioni, capace di pre-vedere i tempi e le storture della realtà. Così, ben prima del Lockdown, Casagrande e Nicolò avevano pensato di dedicare il festival al tema del “Futuro”.
Intuizione folgorante, che si è mostrata, poi, quanto mai necessaria. Così, preso atto delle complicazioni dolorose della Pandemia, i due direttori hanno deciso di non fermarsi, e sono riusciti – mirabilmente – a salvare non solo l’edizione 2020, ma a dare rinnovato senso e respiro a un festival che rischiava di accartocciarsi nell’inseguimento spasmodico della provocatoria performance di turno.
Allora, certo, un pomeriggio e una sera non bastano per giudicare una intera edizione di Festival – ho visto poco e perso tanto: ma arrivare nella centrale Piazza Ganganelli e vederla affollata (e rispettosamente distanziata) seguire le ariose lezioni-creazioni di Virgilio Sieni, poi arrampicarsi su, verso la parte alta del paese e poi tornare giù, in un infinito e spaziale prato, significa non solo provare sulla pelle la rinnovata curiosità di vivere un festival, ma scoprire come e quanto gli spazi possano essere intelligentemente reinventati – senza retorica e con molto senso pratico – per fare di necessità virtù.
Virtuso, dunque, questo festival: critico, intellettuale, dialettico, frequentato e vivo, quanto mai vivo. Così, anche al povero cronista di spettacolo, cui si erano anchilosate le dita nella depressione e nella fatica del “ricominciare”, torna la voglia di provare a capire, e dire, e raccontare, e condividere quell’ansietta euforica dello spettacolo dal vivo, e la commozione, sì, la commozione vecchia maledetta che attanaglia di fronte a un lavoro ben fatto.
Dunque, per i cinquanta anni, il Festival di Santarcangelo si mostra consapevole, forte, nitido, come non lo si vedeva da tempo. Continuerà così? Chi lo sa: difficile imbrigliare i Motus (chissà che farebbero, ad esempio, in un Teatro Nazionale), ma certo la manifestazione sta orgogliosa del suo passato e dunque capace di guardare al futuro (“fantastico”, come recita lo slogan) con grande dignità.
Allora, venendo agli spettacoli, ha dato gioia ritrovare – per me che da tempo non lo vedevo – un artista come Alessandro Berti, che stimavo già ai tempi de L’Impasto, una delle compagnie più aguzze e coraggiose degli ormai mitici anni Novanta. Berti, solo in scena, si presenta con una garbatissima e apparentemente ironica lezione-spettacolo, che tiene un tono sereno, quasi amichevole per parlare di un tema aspro assai: Black Dick, questo il titolo (e non c’è forse bisogno di traduzione), affronta di petto un tema scivoloso, quello del tutto razzista del rapporto tra uomo bianco e uomo nero americano, ovvero dell’uso e dell’immaginario del corpo maschile nero, prendendo le mosse dall’emblematico mondo della pornografia. Berti racconta, spiega, a volte cita: e le sue citazioni sono tasselli che seminano dubbi, domande, e che gradualmente aprono a una questione ancora più spinosa. Passata in fretta la curiosità morbosa di parlare delle dinamiche “interracial”, inteso come categoria dei tanti hub porno, Berti evoca i grandi protagonisti della storia della liberazione nera, dai forse meno noti, come James Baldwin o Cornel West, Angela Davis o Bell Hooks, fino a Malcom X e Martin Luther King, per poi riflettere profondamente su uno dei temi all’ordine del giorno: la cosiddetta “appropriazione culturale”, ossia quella tendenza a stigmatizzare ogni tentativo di parlare di altri o altro perché così facendo ci si “approprierebbe” delle culture altrui. La visione di Alessandro Berti è, fortunatamente molto chiara e condivisibile: serve invece parlare, discutere, capire e far capire al di là di ogni ipocrisia perbenista e censoria. Black Dick è già stato recensito, e bene: si spera dunque che questo lavoro possa girare, il più possibile, proprio perché è un passo importante per quella che potrebbe e dovrebbe essere una lotta comune sempre più diffusa.
La mia serata santarcangiolese, poi, si è chiusa nello spazio davvero infinito e splendidamente lynchiano chiamato “Nellospazio”: un “pratone” avrebbe detto Pasolini, per piccole Woodstock teatrali. Davanti una parete di alberi, è andato in scena il Tiresias che Giorgina Pi ha creato a partire dalle parole della poetessa e cantante inglese Kate Tempest, già frequentata dalla regista romana. Tiresias è un monologo lungo, ampio, dolce e doloroso, commovente nel suo candore, con slanci lirici di appassionata umanità. Ne è ottimo protagonista il giovane Gabriele Portoghese: per tutto lo spettacolo sono stato a interrogarmi su chi mi ricordasse per quei toni un po’ spezzati, a volta sbiascicati, sospesi, straziati. Ho passato in rassegna, mentalmente tutti o quasi, da Carmelo Bene a Leo De Berardinis (la cui presenza a Santarcangelo ancora si avverte), da Marcello Mastroianni a Monica Vitti, fino a Roberto Latini o Lino Musella o Arturo Cirillo, per poi concludere che quella di Portoghese è una bella voce originale, evocativa, avvolgente pur nella distanza. Tempest immagina un Tiresia che vive e ricorda il suo passato di donna e uomo, che racconta non senza pudore, la sua sessualità, il suo amore, le sue passioni. Travolto dal Mito, dalla Storia, questo Tiresia dalla vita semplice riesce però, e poeticamente, ad essere se stesso. Sospeso tra un Monte Olimpo evocato per musiche e voci, e una realtà piccolo borghese da periferia inglese, Tiresia gioca con vecchi vinili e microfoni, si racconta, semplicemente senza l’ardire di essere un modello di alcunché. È la vita, in fondo, che chiama se stessa, che si confonde per poi ritrovarsi.
Nella notte romagnola riprendo la strada di casa. C’era un vecchio libro di Tahar Ben Jalloun che si intitolava: l’ultimo amore è sempre il primo. Al di là del racconto, è un titolo su cui ancora e sempre mi interrogo.
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