Teatro
Santarcangelo della performance, dal Brasile alla Lituania il catalogo è questo
BOLOGNA _ Santarcangelo dei teatri… o della performance? La rassegna internazionale, tra le più famose d’Italia -attesa dal 5 al 14 luglio – superate le 54 primavere è impegnata in una mutazione antropologica e culturale. Sotto la guida del critico d’arte polacco Tomasz Kireńczuk al suo terzo anno di direzione artistica – a cui sono stati assegnati altri due con scadenza al 2026 -, sta modificando il format per metterlo più in sintonia con l’attuale percorso internazionale della performing art. Nei fatti è quasi una mini rivoluzione: la manifestazione che nel passato aprì alla scena internazionale, ai gruppi di ascendenza barbiana, allo street theatre e più in generale alla ricerca e sperimentazione teatrale, oggi è diventata lo spazio più importante dedicato in Italia alla scena performativa. Assai più legata alla danza e all’arte visiva, la performance contemporanea, oggetto del cartellone, è popolata da giovani creativi spesso in solitaria o in coppia, con alle spalle diversi trascorsi di danzatori o coreografi. In genere si tratta di artisti particolarmente sensibili alle emergenze di vita del nostro Pianeta – dalla crisi climatica all’inquinamento – come alle condizioni di vita sociale e politica in cui versano le società da cui provengono. Performance come singoli e significativi atti politici per lasciare un segno contro lo sfruttamento e la povertà, la guerra e il razzismo, fino a temi più intimi e sensibili: dalle generali rivendicazioni dei diritti alle prese di posizione su questioni su cui si intersecano con le battaglie e le campagne promosse da diversi movimenti: dal “#metoo” al fronte Lgbt.
Le performance di questi artisti inducono spesso a riflettere sollevando crisi di coscienza. Come veri agit prop sono attivatori di riflessioni e visioni poetiche, personali e collettive, sulla nostra contemporaneità.
Tutto questo è teatro? Si e no. Nel senso che con il teatro possono condividere talvolta umori e visioni e, pure una parentela. Sono piuttosto ibridazioni d’arte che utilizzano strumenti e linguaggi della scena; soprattutto momenti di azione “hinc et nunc” che, badando al concreto, puntano a colpire immaginario e cuore: azioni creative che espresse e mostrate dai performer più colti e raffinati possono esser paragonati all’arte degli haiku. E poi, in tanti di loro c’è, d’altra parte, moltissimo linguaggio del corpo (è Richard Schechner, sin dai Settanta studioso principale della performing art, a indicare d’altronde come “tutto il lavoro della performance inizia e finisce nel corpo”) e quindi, spiccata ascendenza verso la danza contemporanea, suggestioni pittoriche e passione per l’installazione.
E’ un mondo che cerca sempre più spazio, e tanto ne sta guadagnando, al punto che diverse sono le rassegne teatrali o di danza – in Italia e in Europa– che seguendo un fenomeno di moda -esistono dipartimenti o comunque corsi in Performance Studies un po’ dappertutto – lasciano sempre più spazio alla performing art anche, probabilmente, nella convinzione di coinvolgere un pubblico giovanile assetato di “ready made” e, per altri versi poco preparato (leggi alfabetizzato) ad affrontare più complessi spettacoli teatrali.
Esistono naturalmente fior di studi e ricercatori che danno dignità culturale a questa forma particolare di arte espressiva (in Italia tra gli altri Marco De Marinis (da leggere il suo intervento sulla rivista “Mantichora” la n.9 del 2019 intitolato “Performance Studies e nuova teatrologia: il dialogo continua”), Dario Tomasello, Lorenzo Mango, Valentina Valentini, Fabrizio Deriu…) e, una delle questioni più dibattute e analizzate, guarda caso, è proprio il rapporto tra teatro e performance. Lo stesso Schechner ha affermato nella rivista “Drama Review” del 1989 che il teatro: è “l’evento interpretato da un gruppo particolare di attori: quello che realmente succede agli attori durante una produzione. Il teatro è concreto e immediato. Generalmente, il teatro è la risposta degli attori al dramma e/o allo script; la manifestazione o rappresentazione del dramma e/o dello script. La performance: è il cerchio più largo, più indefinito. L’intera costellazione di eventi (la maggior parte dei quali passano inosservati), che ha luogo sia fra gli attori che fra il pubblico, dal momento in cui il primo spettatore entra nel campo della performance, al momento in cui l’ultimo spettatore va via”.
Insomma molto meno teatro e più performance. D’altra parte, giusto come annotazione cronachistica, nel corso della conferenza stampa di presentazione della rassegna, svoltasi qualche giorno fa presso il Mambo, museo di arte contemporanea di Bologna, sarà un caso ma si poteva contare sulle dita di una mano sola in numero di volte in cui è risuonato il termine “teatro”. Molto di più -soprattutto da parte del curatore – è stata con insistenza quasi in “loop” la parola “lavoro” per indicare il frutto della ricerca e l’oggetto di rappresentazione di tanti artisti che saranno presenti per dieci giorni nell’incantevole borgo medioevale alle porte di Rimini. Ben 170 le proposte spettacolari, 9 i dj set e sei gli incontri pubblici.
E veniamo al “claim”, termine rubato alla pubblicità per indicare lo slogan, ma potrebbe essere pure definito come reclamo e addirittura rivendicazione. Serve per connotare l’edizione di questo anno, indicare agli spettatori un cammino, come affidare loro una sorta di bussola. “Claim” che – ha raccontato Kireńczuk – non è arrivato prima della concezione del programma, come si potrebbe pensare, bensì “dopo” al termine della elaborazione del progetto. Eccolo: “While we are Here”. Significa “Mentre noi siamo qui”. Più in specifico è quello che appare un po’ come la linea politica di questo festival: pacifista, contro le discriminazioni di gender, razziste ed etniche. Contro il cambiamento climatico di cui sono responsabili coloro che governano l’economia in nome del profitto. Più precisamente si afferma che “mentre siamo qui ci sono circa 180 conflitti armati in corso. Mentre siamo qui una persona su sei vive in un’area di conflitto attivo. Mentre siamo qui in molti paesi del mondo l’aborto è vietato e l’omosessualità è punita con la morte. Mentre siamo qui i rifugiati muoiono in mare, sulle montagne e nei boschi. Mentre siamo qui l’economia predatrice continua a speculare sull’ambiente e sui paesi più poveri, aumentando il divario economico della popolazione”.
Così Giovanni Boccia Artieri, il presidente dell’associazione organizzatrice della manifestazione, citando Henri Bergson che “concepisce il tempo non come una successione lineare di istanti, ma come un flusso continuo e indivisibile, una durata qualitativa in cui il passato si fonde continuamente con il presente” si rifà al “claim” come richiamo alla esperienza soggettiva del tempo ma anche come complessità del nostro vissuto. E dice che: “Mentre ci immergiamo nelle arti performative e ci lasciamo trasportare dalle emozioni e dalle riflessioni che l’incontro con artiste e artisti suscita, siamo parte di un flusso di eventi che ci coinvolge e ci trascende. I lavori presentati al Festival diventano così frammenti di questa durata, momenti di intensità che ci permettono di percepire il tempo in modo diverso, più ricco e profondo”.
In perfetta sintonia il direttore polacco ribatte: “Vogliamo chiederci cosa ci succede mentre siamo qui”. Ed ecco la dichiarazione di intenti di questa edizione: “Vogliamo che anche quest’anno il Festival sia un luogo di incontro e scambio. Vogliamo che la sua forza rigenerativa ci permetta ancora una volta di guardare diversamente non solo alla realtà che ci circonda, ma anche ai corpi e agli spazi che sono, o non sono, intorno a noi. Siamo convinte e convinti che questo essere insieme, che sfugge alla logica della vita quotidiana, abbia un enorme potenziale”.
Così quello che accomuna gli artisti è “l’interesse per le relazioni che nascono al confine tra arti performative e cambiamenti sociali, sottolineando il sovrapporsi dei piani temporali e spaziali: le iconografie del passato rimbalzano nel presente”.
Last but not least. Quello che accomuna le azioni di questi artisti dicono quelli del festival è “ l’interesse per le relazioni che nascono al confine tra arti performative e cambiamenti sociali, sottolineando il sovrapporsi dei piani temporali e spaziali: le iconografie del passato rimbalzano nel presente”.
E ora solleviamo il velo sul programma. Per la maggior parte non si va oltre l’ora (una media tra 30 e 45 minuti) ma ci sono quattro o cinque eventi che vanno sui 70 minuti e oltre. Si parte il 5 luglio con Catol Teixeira (brasiliano, residente a Ginevra) , per la terza volta di seguito ospite da queste parti con “Zona de derrama-first chapter”, coreografia per tre corpi danzanti. Accade al tramonto al Parco Powell per tre sere di seguito (dal 5 al 7) e vuole festeggiare il momento in cui un confine viene oltrepassato. Al Lavatoio (5 e 6 luglio), un’altra coreografa brasiliana, residente a Berlino, Michelle Moura in “Lessons for Cadavers”, utilizza un linguaggio iperbolico, un’espressività portata all’eccesso per raffigurare un regno magico e grottesco abitato da strane forme viventi, al confine tra la vita e la morte”. In Piazza Ganganelli (dal 5 al 7) Parini Secondo, da Cesena, in venti minuti monta “Hit out”, una composizione musicale costruita attorno al salto della corda “interpretato come strumento percussivo, ritmico e coreografico”. Per un anno Parini e Bienoise, dopo una lunga preparazione atletica, si focalizzano sul suono della corda mentre quattro saltatrici in scenaeseguono una partitura ritmica e coreografica in cui single-unders, side-swings e double-unders sono sia elementi atletici che musicali: combinati a voce e suoni sintetici si armonizzano in una vera e propria hit”. Negli stessi giorni (5-7) la danzatrice lituana Anna-Marija Adomalyte, residente in Svizzera, assieme a Roman Peytavin e Victor Poltier mostra all’ITC “Molari” il suo “Pas de doux”. “Il suo lavoro, che muove dal classico pas des deux, esplicitato nel titolo e simbolo di un danzare romanticamente eteronormato, racconta la possibilità di uscire dallo standard di genere, di ribellarsi all’immaginario normativo dell’amore e del corpo nella danza”.
Arriva da Helsinki lo scenografo finlandese Samuli Laine che dal 6 al 14 (orari vari) nel Palazzo della Poesia in “Nurture” presenta una performance “one-to-one” (una sola persona alla volta) che “Indaga le politiche di genere e di convivenza attraverso l’atto del caregiving e dell’allattamento al seno”. E’ un trio di coreografi e danzatori italiani, formato da Giovanfrancesco Giannini, Fabio Novembrini e Roberta Racis (6 e 7) nella piazza San Girolamo a Lengiano, alle prese con “Vanitas” coreografia ispirata “alla iconografia di nature morte “che ci ricordano la caducità della vita terrena, messa in relazione con la macro crisi del nostro tempo”.
La varesina Elena Rivoltini, performer e sound artist in “There’s nothing deeper than one’s own body” (6 e 7) “condivide un frammento di una ricerca attualmente in corso su voce, estasi e trasformazione che germoglierà in diversi formati e contesti. Partendo da una prospettiva femminista, incarnata e intersezionale, la performance dà voce all’assenza di voce, ossia ai processi fonatori che precedono e permettono l’emissione vocale”.
“Life is not useful or it is what it is” (6 e 7 luglio all’ex Buzzi Unicem) del brasiliano Bruno Freire, attualmente residente a Bruxelles prendendo le mosse dall’opera del brasiliano Ailton Krenak, attivista dei movimenti indigeni, sociali e ambientali fin dai Settanta affronta tematiche legate al colonialismo, il capitalismo, la supremazia dei popoli, strettamente connesse alla questione ambientale.
Liryc Dela Cruz è un videomaker di Mindanao (Filippine) e risiede a Roma che il 6 e 7 luglio (al C’Entro Supercinema) presenta in prima assoluta il suo “Il Mio Filippino-The Tribe” focalizzato sulla “ricerca sugli stereotipi e su come questi influiscano sui corpi e sulla visione del mondo”. La performance indaga per settanta minuti i gesti di cura e di pulizia delle lavoratrice e dei lavoratori domestici filippini in diaspora dal proprio paese.
Lisa Vereertbrugghen, coreografa e drammaturga belga ha concepito “While we are here” (6 e 7 all’ITC Molari) per cinque performer sul rave e sulla danza popolare “incentrato su come entrambe queste forme di danza attingano a un desiderio umano essenziale di intimità collettiva e perdita di controllo”.. Una danza techno folk ibrida che “si oppone al controllo e celebra la fisicitò collettiva”.
Al Lavatoio, solo il 7 luglio, la regista e coreografa ucraina Nina Khyzhna presenta “Someone like me”, una “performance fisica sul viaggio di una persona disincarnata attraverso i corpi di altri individui. Tramite i loro muscoli, i loro gesti, le abitudini e i sentimenti, la creatura apprende le esperienze di coloro che si trovano in pericolo a causa della guerra, e che giorno dopo giorno affrontano la paura trovando il modo di resistervi”.
Indaga sul rito “Cry Violet”, creazione coreografica del duo Panzetti/Ticconi (9 e 10 luglio al Parco Baden Powell) “utilizzando un codice gestuale che ritrae espressioni di dolore e vergogna ispirate all’iconografia del peccato originale”.
Si intitola “Invisibile” ed è l’esito del laboratorio della non scuola del Teatro delle Albe (9 luglio ex Buzzi Unicem), frutto di quattro mesi di lavoro con i ragazzi e la ragazze delle scuole medie e superiori di Santarcangelo. Dal 9 all’11 all’ITC Molari l’artista svizzero Baptiste Cazaux in “Gimme a break!” prendendo in prestito “ il vocabolario della musica rave, delle pratiche meditative e dell’headbanging, prosegue nel suo percorso verso la pace emotiva e il distacco, che vede come strategie di sopravvivenza al capitalismo”. Altro esito di laboratorio (il 10 al C’Entro Supercinema) di piazza Marconi a cura di Let’s Revolution/Teatro Patalò in “Daimon. Scenderemo dalle colline con le teste cinte di edera” ispirato da “Le Baccanti” di Euripide.
La cofondatrice di Societas Raffaello Sanzio, Claudia Castellucci il 10 e 11 a Porta Cervese presenta il tableau vivant “Murillo, Lezioni di Elemosina (parte del ciclo “Veduta di”): interprete Silvia Ciancimino.Il brasiliano Bruno Freire torna il 10 e 11 al Lavatoio con “Matamatà” con Robson Ledesma, Magdelaine Hodebourg, Annabel Reid. “Qui si immaginano le reazioni che avrebbero potuto avere dei filosofi – come Cartesio o Spinoza – se avessero attraversato la foresta tropicale: confrontandosi con un altro paesaggio, caldo e brulicante di vita, avrebbero probabilmente rivisto le proprie teorie”.
Dalla Lituania arriva Lukas Karvellis (dall’11 al 13 al Parco Baden Powell) con “She Dreamt of Being Washed Away to the Coast” in cui cura coreografia e concept. Performer: Dominyka Markeviciute. “La performance contestualizza il folklore lituano osservando la tensione tra due mondi: quello materiale, basato sulla logica, e quello creato dall’immaginazione e dalla fede”.
Altra artista dalla Lituania è Agnietė Lisičkinaitė che in “Hands Up” (dall’11 al 13 al Palazzo della Poesia) “propone un’esperienza tra la performance e l’intervento politico invitando i partecipanti a prendere parte alla ricostruzione di uno spazio pubblico: l’artista lituana vede la danza come uno strumento di attivismo sociale capace di provocare, di stimolare il dialogo, di innescare pensieri e domande”.
La danzatrice Stefania Tansini torna a Santarcangelo con “L’ombelico dei limbi” (11 e 12 luglio all’ex Buzzi Unicem) una messa in scena pensata specificatamente per gli spazi del Festival, “in cui il corpo e la voce sono testimonianza lucida dell’angoscia del reale. Un percorso contraddittorio che da una parte vede la volontà di liberarsi, di farsi pezzi, di tenersi fuori dal mondo, dall’altra il desiderio di ricostituzione e di condivisione del tormento del corpo”.
“Perle sparse” (dal 12 al 14 luglio al Teatrino della Collegiata) è un’installazione attorno al tema del viaggio, del ritorno al proprio Paese di origine. Un viaggio da Mauritius all’Europa e dall’Europa a Mauritius; una mappa geografica multimediale e immaginaria, un percorso narrativo e sensoriale tra i ricordi, una riflessione su cosa si porta con sé quando si migra, in cui l’elemento fondamentale è l’acqua, associata al movimento della diaspora”. Autore è Vashish Soobah, artista visivo, filmaker e documentarista nato in Sicilia attualmente di base a Milano.
I due coreografi brasiliani Davi Pontes e Wallace Ferreira (dal 12 al 14 all’ITC Molari) con il secondo e terzo capitolo della trilogia coreografica “Repertòrio n.2” dove “la danza viene usata dal duo come forma di autodifesa per liberarsi da sovrastrutture coloniali, razziali e ciseteropatriarcali, insite nel pensiero occidentale”.
“Rectum Cocodrile” (12 e 13 luglio, Teatrino Collegiata) del franco svizzero Marvin M’toumo è “un racconto danzato e cantato in cui esseri umani, animali e piante appaiono uno dopo l’altro per testimoniare la violenza del colonialismo. Un appello feroce in cui i fantasmi dell’imperialismo, che ancora infestano i territori dei Caraibi, vengono evocati attraverso una coreografia di gesti, maschere, corpi e voci”.
“CrePa” del duo Sara Sguotti e Arianna Ulian (12 e 13 luglio al teatro Petrella) è “un montaggio di parole, suoni e gesti attorno all’immagine di una crepa, smottamento ma anche apertura, ferita eppure feritoia per corpi che si accostano, scivolano, attraversano un tempo di conservazione tra ciò che è definito vivo e ciò che è definito morto”.
Arriva dalla Martinica Rebecca Chaillon e dalla Francia Sandra Calderan (12 e 13 al C’Entro Supercinema) per presentare “La gouineraie” dove la regista Chaillon “decostruisce il mito della famiglia bianca e patriarcale, mostrando la potenza salvifica insita nelle cultura femminista. Rébecca Chaillon porta al Festival anche un secondo lavoro, “The Cake” (14 luglio): un happening site-specific in cui la performer si trasforma in una torta edibile, lasciandosi idealmente divorare dal pubblico”.
E’ invece brasiliano Francisco Thiago Cavalcanti al festival dal 12 al 14 (in piazza Ganganelli) con “52Blue” dove attraverso la metafora di una balena inavvicinabile dalle sue simili a causa delle alte frequenze del suo canto, riflette sui rapporti umani, sulla necessità di vicinanza e sul dolore della propria solitudine di individui”.
E’ un’artista di origina polacca, Agata Siniarska, residente a Berlino e colloca la sua pratica artistica nell’intersezione tra somatica e politica: la consapevolezza corporea incontra l’impegno sociale. In “Null&void” (dal 12 al 14 luglio al Lavatoio) racconta storie di distruzione di massa dalla prospettiva non antropocentrica della terra e del paesaggio, da voci animali e vegetali. “Come collocarci in un paesaggio post bellico privo di esseri umani?”.
Artista interdisciplinare con base a Bologna, Valentina Medda, basa la sua attività tra immagine, performance e interventi site specific. Il 13 luglio a Fiume Marecchia presenta “Last Lamentation” in cui rielabora artisticamente i codici rituali del pianto funebre, in una performance per 12 interpreti che si terrà sul greto del torrente Marecchia, usato per la prima volta come scenografia naturale di uno dei lavori presentati al Festival.
“Pitching Sessions in Ex(ile) Lab” il 14 luglio al Lavatoio è un laboratorio biennale che riunisce organizzazione con sede in Francia, Italia, Cipro e Portogallo. Santarcangelo ospita il closing meeting in cui quattro artisti presenteranno la propria ricerca: Elsa Baddour, Francisco Thiago Cavamcanti, Irkalla, Liryc de la Cruz.
Da Parigi (il 14 al teatro Galli di Rimini) arriva la coreografa francese di origini algerine Dalila Belaza con “Rive”per la prima volta in Italia “inventa un cerimoniale in grado di unire mondi e luoghi lontani: il grande ensemble, di 7 performer, sul palco dà vita a un unico corpo sinfonico che mostra l’umanità come un paesaggio vivente”.
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