Teatro
San Pippo Delbono e la routine del dolore
Il processo di beatificazione sembra iniziato. Che Pippo Delbono punti chiaramente a essere annoverato tra i santi?
Me lo chiedevo vedendo il suo ultimo spettacolo, Vangelo, al Teatro Argentina: una commossa autocelebrazione in vista del definitivo innalzamento nell’empireo dei profeti e dei portatori di verità. Che il teatro di Delbono sia sempre stato a rischio sermone lo sapevamo, ma l’abbiamo amato anche per questo: ci siamo commossi, abbiamo riso, abbiamo sentito rabbia e passione di fronte alle sue storiche, mirabili, creazioni. Accompagnato come sempre dai suoi “barboni”, Delbono ha sgranato un rosario umanissimo, di sofferenze e compassione. E quegli spettacoli, fossero carnevalesche e rutilanti feste popolari o intimi monologhi, abbiamo condiviso, spesso sostenuto: ci abbiamo creduto, insomma. E siamo pronti a crederci ancora.
Il guaio è che Vangelo – uno stuolo di coproduttori in cui spiccano Ert, Teatro Nazionale di Zagabria e Vidy Losanna – suona invece a vuoto, come una stanca ripetizione di stilemi, codici, strutture, finalizzate solo alla celebrazione di se stesso. È la routine del martirio, la reiterazione stanca della crocefissione: come un prete che dice la messa pensando ad altro, Delbono qui sembra ormai la parodia di se stesso. Si può dire di un artista che ha fatto la storia del teatro italiano? Forse sì, proprio per la stima e l’affetto che gli portiamo. Ci pare strano che Delbono stia sperimentando egregiamente in cinema, anche come attore-interprete, e in scena vada invece sul consolidato, sullo schema, sulle minime variazioni di un canovaccio scritto ormai decenni fa.
Vangelo si apre con il ricordo della madre, da sempre evocata negli spettacoli di Pippo: qui è lei, devota e credente, che dà al buddista Delbono lo spunto drammaturgico: “Perché non fai uno spettacolo sul Vangelo”. Così, in missione per conto di Dio, come fosse uno dei Blues Brothers, Delbono sciorina passi delle sacre scritture, interpolandoli con l’ormai immancabile Pasolini, inseguendo la consunta retorica della “vita”. Ovvio che il tema è – come dire? – quanto meno corposo: Delbono lo declina cercando come sempre il punto di vista degli “ultimi”, mettendo assieme il profugo venuto per mare o il prete che molesta i bambini, gli immigrati di Casal di Principe e il magrissimo Nelson, fino a Bobò.
Ma è proprio qui che stecca: “presentando” Bobò – dicendoci ancora una volta che ha 47 anni in manicomio, che è sordomuto, ottantenne – Delbono sembra fare il contrario di quel che ha sempre, e giustamente, fatto. Non dare a Bobò lo spazio attorale che ha mostrato, in tutti questi anni, di saper gestire magistralmente, ma – anzi – di nuovo “catalogarlo”, presentando il “miseramente ontico”, riportandolo a “caso umano”, al pari dell’afgano o del nero immigrato. Ha tolto, insomma, la mediazione creativa, teatrale, con cui dava corpo e anima ai precedenti lavori, e ha fatto casistica. Santini, dunque, di una umana tragedia, ma raccontata al telefono. A che scopo, se non quello di celebrar se stesso?
Anche quel suo ballare strano, anche le frenesie mascherate (Jesus Christ superstar, ovviamente, o i Led Zeppelin), le danze, addirittura il trenino, sono stanche reiterazioni di un bel passato che fu. Con badilate di Pina Bausch, con video non sempre accettabili, sulle musiche di Schumann o Enzo Avitabile, Delbono evoca continuamente “il Cristo” dandogli connotazioni che potremmo definire alternative, ma sembra un routinier della mistica. Guarda il pubblico, col suo volto stralunato; accende e spegne le luci in platea, ma non gli crediamo un attimo. Forse nemmeno Delbono ci crede più.
E non per i soliti meccanismi demistificatori – quel “leggere” i testi sui fogli che tiene in mano, quell’ansimare continuo al microfono, già dalla seconda scena – che pure tendono alla mise-en-abyme connotante il suo teatro, quanto perché tutto è più che mai sottolineato, insistito, didascalico, forzato. Dunque smaccatamente retorico.
All’Argentina – pieno solo in platea – regnava un silenzio non so se assorto o assopito. Uno accanto a me dormiva, mentre una signora, dall’altra parte, commentava entusiasta: “bellissimo”. E, va detto, c’è stato un bell’applauso, alla fine. Anche tanta critica ha scritto benissimo di questo spettacolo. Per quel che mi riguarda, però, me sono tornato sconsolato e un po’ depresso dalla messa delboniana. Abbiamo così bisogno di santoni?
Perché poi, va detto, questo spettacolo si inserisce appieno nel programma che il Teatro di Roma dedica ai “Teatri del Sacro”. Al di là del Festival che porta quel nome, e di altre iniziative simili, forse vale la pena spendere una parola sul neo-mecenatismo della Chiesa Cattolica.
La Cei, come Papa Giulio III coi “comedianti venetiani”, cede ducati d’oro per il teatro. La spiritualità, si sa, è fertile terreno di ricerca, ma qua si rischia l’ossequioso ritorno a un’arte “sacra” (ancorché formalmente laica) che rende servizio, e merito, a quella “complexio oppositorum” di cui parlava Carl Schmitt a proposito della Chiesa.
Il fatto che tanti artisti – che una volta avremmo detto laici e di sinistra – accettino di prestarsi al gioco è, almeno per chi vi scrive, una dolorosa sconfitta della Ragione. Moriremo democristiani? La prospettiva non è poi così lontana, visto il dibattito che scuote la politica italiana: tra neocon, teodem, sentinelle e family days sul Pirellone, l’aria che tira è di inquietante e bigotto conservatorismo, a destra e a sinistra. E quanti Vangeli abbiamo visto – e stiamo vedendo – in scena?
Vero, la Bibbia è un bestseller: ma qualcuno che faccia Il Capitale?
Insomma, basterà Svegliaitalia, se pure i nostri maggiori artisti si immolano sul fronte del Verbo?
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